L’albero di Natale, dico.
Pare che Obama se ne sia fatto installare uno di otto metri, sotto il quale raccogliere la famiglia mulino bianco a cantare Silent Night. Sull’altra sponda dell’Atlantico, la regina Elisabetta dal ’52 addobba personalmente la conifera più alta di palazzo Buckingham, con il principe consorte sotto, a tenerle la scala. Quindici metri in tutto e mezzo quintale tra palle e palline multicolori.
E dunque il record par proprio che anche quest’anno spetti al Vaticano: un enorme abete, rosso (pour faire pendant con la porpora curiale), alto trenta metri e proveniente dalla foresta della Transcarpazia, di cui sino a ieri nessuno aveva mai sentito parlare e dove vegetava felice da ben sessant’anni.
Tutto si sarebbe aspettato il povero albero tranne che finire imballato e spedito alla corte ingessata del papa di Roma, che, peraltro, non perde occasione per tessere le lodi all’opera somma del Creatore, richiamando ad ogni fiato la sacralità della vita, l’impareggiabile splendore della natura, il sommo rispetto che le è dovuto, ecc ecc… E poi? Un brutto giorno, in un angolo dimenticato del pianeta, mentre nessuno ascolta e vede, un lavoretto di sega elettrica nemmeno tanto complicato e un viaggio di 1800 chilometri dall’Ucraina, sono quel che ci vuole per allietare la vista dalle mille e più stanze del Palazzo apostolico.
Che obelischi, campanili, torri, antenne e persino gesti come il saluto romano costituiscano altrettanti simboli fallici non è mistero. La storia e le piazze d’Italia ne sono piene. E se nel cristianesimo il legno richiama la croce di Cristo, l’albero come fallo universale è simbolo molto più antico e presente come tale probabilmente in tutte le culture. Ma a preoccupare non è tanto la veniale concessione sincretistica finita con disinvoltura fra gli addobbi natalizi di piazza San Pietro; piuttosto, in ambito cristiano, rattrista la ricerca dell’enorme, l’ostentazione ancora oggi di ciò che è grandioso. E la necessità comunque di una qualche vittima sacrificale.
Gli aborigeni australiani in certe danze iniziatiche tirano fuori la lingua in tutta la sua lunghezza – organo non scevro da connotazioni sessuali – allo scopo di intimidire gli avversari. E certi primati (stando all’etologia) per ottenere il dominio sul gruppo e il consenso della sua parte femminile, nell’atto di iniziare la lotta mostrano sfacciatamente i genitali ai concorrenti. Vince chi ce l’ha più grosso. Salvo imbarazzanti eccezioni, dove magari un pistolino da nulla prevale con l’astuzia su contendenti ben più accreditati e certamente meglio attrezzati.
Più che della buona notizia delle cose minime, al credente o al semplice visitatore, il colossale albero di Natale narra di questioni legate allo sfarzo del potere. E lo sforzo di trasferirgli un sempreverde di tali dimensioni sotto casa, nonché la sua lenta inutile agonia, si sarebbero potuti evitare qualora Benedetto avesse osato, contro qualsiasi tradizione, dare maggior credito al suo stesso magistero in materia di ecologia.
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tratto dal blog http://primacheilgalloschiatti.blogspot.com
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