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venerdì 31 dicembre 2010

BOTTE DI FINE ANNO

Di solito, a fine anno si fanno gli auguri. Li farò anch'io ringraziando tutti coloro che si connettono per leggere questo blog e coloro che hanno inviato pezzi oginali (e rinnovo l'invito a scrivere...): auguri a tutti.

Il titolo del post non contiene nessun errore: stavo pensando ai poveri pastori sardi che l'altro giorno sono stati picchiati. Sono in buona compagnia: lo stesso trattamento è stato riservato agli studenti che protestavano contro la legge Gelmini o ai terremotati de L'Aquila. Berlusconi continua a credere che l'Italia sia una sorta di Paese di Bengodi e chiunque lo metta in dubbio finisce male.

Ma il paese reale è davvero messo male. Fino a quando potremo sopportare tutto questo? Buon anno, lo stesso...

PS: ho letto che hanno arrestato due anarchici (o sedicenti tali) per   l'attentato alla sede della Lega a Gemonio. "Anarchia non vuol dire bombe, ma giustizia nella libertà": e mettere due grossi petardi davanti a una sede leghista non fa altro che rinforzare la lega. Se la si vuole combattere, bisogna farlo con strumenti politici e culturali. Spaccare qualche vetrina, potrà soddisfare i nervi di qualcuno, ma non risolve proprio nulla...

mercoledì 29 dicembre 2010

Teologia e psicologia: un confronto tra gli approcci narrativi

Dall'amico Marco Molinari ricevo e pubblico, ringraziandolo

Dopo il Concilio Vaticano II, si assiste a un cambiamento radicale del panorama teologico: da metafisica, astratta e astorica, la teologia si pone come riflessione critica sul vissuto credente.            Ciò è stato possibile grazie al recupero di quella che è la forma propriamente storica della Rivelazione di Dio. Ciò è avvenuto nel momento in cui la teologia del Novecento (in particolare quella post-conciliare), riscoprendo categoricamente la Scrittura e il senso in cui mediava l’Evento della Rivelazione di Dio, si è affrancata da un’idea di “riflessione irrazionale apologetica”, che tentava di difendere, a fronte di una ragione autonoma, quelle che erano le dottrine della fede, rivelate ma ancora considerate irrazionali. La storicità della Rivelazione appartiene alla realtà e ha una sua ragionevolezza. La teologia è un riflettere criticamente sull’Evento della Rivelazione che implica la manifestazione di Dio la quale viene incontro nella storia dell’uomo e contemporaneamente alla sua libertà che concorre a determinare e dare forma alla Rivelazione, in una corrispondenza credente (Sequeri, 1996, 2002, 2006).
Il passaggio decisivo da una teologia manualistica e apologetica a una riflessione critica sulla fede ha avuto un decisivo risvolto nell’ambito della Teologia Fondamentale che si è data il mandato di mettere a tema quelle categorie di fondo, aventi la forma della storia di Gesù Cristo e capaci di guidare l’inizio e la fine di un percorso di riflessione teologica.
La Teologia Fondamentale, abbandonando un ruolo di preambolo alla fede necessario a dare un assenso a verità astratte e irrazionali, assume il compito di tematizzare il modo in cui la fede è la struttura fondamentale dell’uomo come tale. Secondo questo approccio, Dio non si rivela in maniera soprannaturale (“dall’alto”), ma si annuncia nelle pieghe quotidiane dell’esistenza, in quegli affetti e relazioni che costituiscono l’uomo. Riprendere la storicità radicale della Rivelazione significa recuperare la coscienza in quanto coscienza credente, abbandonando il discorso apologetico. È necessario ritrovare quel luogo comune degli affetti e dei legami dell’uomo, entro il quale la notizia di Dio si lascia percepire come evidenza e non per irrazionalità (ibidem).
            Sequeri, teologo e docente di Teologia Fondamentale della Facoltà dell’Italia Settentrionale, sostiene che la questione dell’antropologia cristiana è ancora priva di un “capitolo” sulla coscienza credente, che è la forma più appropriata della relazione tra l’essere umano e Dio. Un motivo di novità nello studio e nella ricerca di Sequeri, si trova nel tentativo di delineare la comprensione della verità, cercata dalla coscienza. L’interesse teologico-fondamentale di questa ricerca risiede nel fatto che la ratio di una siffatta verità ha il suo luogo proprio in un’ontologia dell’affidabilità dell’Assoluto, ben oltre la semplice deduzione della sua effettività. La novità dell’opera di Sequeri si dispone tra questi due cardini: l’idea della fede teologale come principio della felice relazione con Dio che cambia la vita e il tema dell’originaria struttura etica della coscienza quale orizzonte appropriato della sua accoglienza.  Una persuasiva intelligenza del rapporto tra la relazione salvifica instaurata dalla grazia e l’ineludibile determinazione storica della fede, non ha ancora conseguito un assestamento all’altezza della singolarità cristiana (Sequeri, 2002). L’apertura del Vaticano II alla cultura antropologica e storica plasmata dalla modernità, indica comunque la necessità di oltrepassare i limiti di un’interpretazione soprannaturalistica e intellettualistica della coscienza credente; e, dunque, dell’accesso umano alla verità teologica della rivelazione che si compie in Gesù Cristo. L’obiettivo-riscatto dell’equivoca assimilazione fra l’antropologico storico e il puro naturale umano, nonché la percezione dell’impraticabilità ermeneutica dell’estrinseca contrapposizione di ragione e fede, indotta dal modello del duplice ordine della conoscenza, sconta il ritardo accumulato nei confronti della filosofia e della cultura epocale (ibidem).
Dal punto di vista della teologia della fede, l’impegno a integrare la soggettività come momento intrascendibile della conoscenza della rivelazione, si è sviluppato soprattutto nella ricerca intorno al peso dell’elemento pre-concettuale e a-concettuale del sapere, mettendo in rilievo, tramite questa regressione all’a priori della conoscenza, la costituzione della soggettività cosciente anche come luogo sintetico dell’opzione fondamentale che istituisce l’orientamento del singolo nei confronti del senso.
  Partendo dalla “concezione antropologica della fede” di Sequeri (2006), sviluppatasi all’interno del suo progetto di Teologia Fondamentale, è possibile rintracciare alcuni concetti e idee generali che possono costituire un significativo terreno di confronto con l’approccio evoluzionista e narrativo della psicologia. Sorge naturale un confronto tra le discipline che guardano al modo in cui l’uomo attribuisce significato alla propria vita (Bruner, 1990; Veglia, 1999; Sequeri 1996, 2002). È dunque possibile confrontare il progetto umano di ricerca di significato e le motivazioni che lo spingono e gli suggeriscono di cercarlo, descritti dalla psicologia evoluzionista e narrativa, con la visione del messaggio di rivelazione cristiana trattata dalla Teologia Fondamentale di Sequeri (1996, 1999, 2002, 2006).

Motivazioni e significati


            Veglia (1999), riprendendo la questione evoluzionista dei mandati inscritti nel codice genetico (Liotti, 1994), afferma che le motivazioni neocorticali (MacLean, 1973) suggeriscono all’uomo di cercare un significato a quello che fa e alle esperienze che vive. Per l’essere umano esiste un progetto (Veglia, 1999) “non firmato”: il progettista assume, quindi, sembianze e nomi diversi, secondo le convinzioni e fedi di ciascun individuo. Lo si può attribuire alla Natura come “personaggio che si muove, con intenzioni e finalità, in qualche regione dello spazio-tempo nello scenario dell’universo” (ibidem). L’uomo può anche pensarlo come un Dio che crea; per il cristiano è Gesù, che, per Sequeri (2002), “è un’evidenza costitutiva della rivelazione di Dio, intrinsecamente necessaria alla giustificazione della fede cristiana”: l’incarnazione del Verbo è vista come un progetto di ascolto/affidamento e una direzione da seguire per realizzarlo.

              L’attribuzione semantica non deve, secondo Veglia (1999, 2001/2005), rimanere imprigionata e confinata nel singolo, ma dev’essere declinata all’interno di una relazione: è, quindi, evolutivamente utile, cercare una condivisione all’interno di relazioni significative. Nella teologia di Sequeri (2002), l’ascoltare/affidarsi al Gesù storicamente rivelato,  corrisponde al guardare/pensare Dio in una relazione più complessa, “che è insieme affettiva e pratica, storica e sociale”. Egli parla della comunione apostolica come il prototipo dell’intero sistema di relazioni che edificano e custodiscono la comunità dei credenti nella propria identità. Nella terminologia di Sequeri (2002), l’uomo ricerca e ritrova il senso del proprio progetto nell’evento/avvento di Gesù Cristo, che istituisce la certezza dell’inconvertibile volontà salvifica di Dio. L’essenza fenomenologica di Gesù rappresenta la qualità intrinseca e la continuità storica della coscienza credente che si determina come cristiana ed è, secondo Sequeri (2006), costitutiva dell’umano. L’identificazione tra il venire di Dio e una vicenda storica, che si compie e si realizza nella fede di Gesù, rappresenta il compimento della rivelazione di Dio che si dà all’uomo non soltanto nella storia, ma come storia del Cristo e la sua coscienza credente. È questo accesso umano alla rivelazione, compiuto nel e dal Figlio di Dio, che Sequeri (1996, 2002) cerca di sistematizzare. Sequeri (2002, 2006) sceglie un percorso teologico che teorizza e fa vivere la propria fede dal punto di vista antropologico e fenomenologico. La coscienza, credente nella sua radice, non corrisponde a un concetto di autoreferenzialità ma prende vita all’interno di relazioni. All’interno dei significati dell’uomo, s’inserisce la fede, che non è chiusa in sé, ma si relaziona con l’essere umano a cui indica un cammino.

L’approccio narrativo: narrare e ricostruire storie

Secondo l’approccio narrativo della psicologia, i significati vengono generati dalla rilettura dei racconti.
Il significato racchiuso nelle storie di vite umane è infatti contenuto nella ricostruzione che l’individuo compie e non nelle sequenze in sé degli eventi oggettivi accaduti (Veglia, 1999). Il senso della ricostruzione operata dalla memoria nell’atto di ricordare è una rilettura nel presente di ciò che è stato nel passato. L’uomo ricrea scene e sequenze vissute o soltanto immaginate per un futuro, nelle parole di Bruner (1990), possibile.
L’approccio della teologia fondamentale di Sequeri (1996, 2002) ha recuperato il senso antropologico e storico della fede, impegnandosi a integrare la soggettività come momento intrascendibile della conoscenza della rivelazione.
            La coscienza credente dell’uomo scopre che la verità di Dio si dà come una storia di libertà, grazie alla quale l’essere umano scopre che la verità della sua vita, entrata nella prospettiva storica di una relazione, può essere narrata. Il bambino che viene al mondo non struttura la sua identità prima di vivere, ma la narra grazie all’abbraccio o al sorriso ricevuto dalla madre; egli inizia a raccontarsi non a partire da se stesso ma aprendosi a un legame (Sequeri 2002, 2006).
            Attraverso la preghiera, che è la fede nell’atto della relazione teologale cui ci si affida, l’uomo narra la verità della fede. La manifestazione del sacro ha il suo luogo privilegiato nella dimensione narrativa dell’esperienza. L’assoluto è quel “segreto della scelta, sottratto alla coscienza” (Bertuletti, 1995), che mette in movimento il suo desiderio di conoscersi, attraverso il racconto. L’uomo può scegliere di aprirsi e raccontarsi una strada, verso la “totalità” della manifestazione della rivelazione, che lo chiama; la libertà di raccontarsi gli permette di scegliere e “oscillare” tra una verità e una non-verità (Sequeri, 2002).
            La manifestazione di Gesù non si costituisce, però, come verità della rivelazione se la coscienza respinge l’appello a “solidarizzare affettivamente” con il senso verso il quale è indirizzata dall’evento narrativo che vede Gesù come protagonista e interlocutore.
            L’interesse teologico per la ricostruzione storica della vicenda di Cristo dipende dal fatto che è possibile attribuire all’uomo un’esperienza di significati simile a quella dei contemporanei di Gesù. L’immagine cristologica dell’incarnazione di Dio è certamente il risultato che deve essere raggiunto e mantenuto soltanto nella misura di una coerenza con la verità effettuale di Gesù di Nazareth, storicamente connessa con la testimonianza dei primi discepoli. La modalità narrativa/testimoniale dell’esperienza del Risorto, nella quale vengono indicati i limiti intrinseci di quell’esperienza storica e le condizioni del suo apprezzamento credente, è sintomatica della verità della rivelazione. La testimonianza dell’apparire di Gesù mette in rilievo una dialettica del vedere e del non vedere che testimonia la tensione di una scelta, comunque libera, fra incredulità e fede.       Secondo Sequeri (2002), i testi evangelici, che “conoscono benissimo i rapporti fra credere e vedere, interiorità e accadere”, celano al loro interno la possibilità di narrare una fede come reale esperienza e onesta testimonianza.  Come al tempo fecero Pietro e gli altri apostoli, così, oggi, l’uomo è chiamato a raccontare e raccontarsi un’esperienza di rivelazione. L’affidamento a una promessa è, secondo la Teologia Fondamentale, “ciò che struttura l’individuo come persona che si racconta” (Sequeri, 2006). L’essere umano, “frutto di un’educazione, dei genitori, di un’evoluzione”, è chiamato, per mezzo della coscienza credente, a dare un senso al proprio cammino in piena libertà. Egli sa che la sua scelta di aderire a una rivelazione, per mezzo di una fede nel Verbo incarnato, è una decisione presente che si attua in relazione a un futuro possibile e che gli permette di riprendere e attraversare il suo passato, per ridirsi in un nuovo racconto. In termini psicologici, il divenire di un essere umano prevede una ricostruzione del passato nel presente.
L’Evento del Verbo Incarnato
            L’annuncio di Gesù di Nazaret sembra determinato dall’esperienza della sconfitta sostanziale del potere del male dominante la storia (“Vidi Satana cadere giù dal cielo come un lampo”, Lc 10,18); Dio stesso, nella sua bontà incondizionata, ha cominciato a regnare e a ripristinare la sua creazione; perciò è non solo possibile, ma per l’uomo è, secondo la Teologia Fondamentale, necessario realizzare questa bontà di Dio, già data in anticipo, come incondizionata affermazione dell’altro che, in situazioni di emergenza, può essere anche il nemico, per il fatto che egli è stato affermato, anche senza suo merito, addirittura in presenza di colpevolezza (Mt 20,1-15; Lc 18,10-4). La condanna a morte di Gesù è la fonte da cui l’uomo accerta che questo vale anche per lui e proprio nella morte di Cristo egli è salvato; da quel momento in poi, è possibile a tutti agire in modo da riferirsi a Dio, come a quella verità e libertà che salva anche nella morte (Söhngen, 1981).
            Tutti gli scritti (in particolare quelli sulla risurrezione) narrano il segreto di una Storia che, sebbene abbia un inizio e una fine, dice la verità dell’inizio e della fine (Bertuletti, Casati, Epis, Salvi, 1998). Gli stessi vangeli si dimostrano liberi dalla preoccupazione di una ricostruzione archivistica, poiché la loro testimonianza è a servizio di una Presenza; non servono, dunque, le parole per far rivivere un morto, poiché il Protagonista è creduto vivo nella verità salvifica di Dio. Il significato della risurrezione va nella direzione di una sconfitta della morte inflitta a Gesù; nella verità della Pasqua, la croce non appare semplicemente superata. La centralità imbarazzante nell’annuncio pasquale del segno dello scandalo (l’umiliazione della croce) colloca l’intervento di Dio solo dopo –come  rimedio– la fine cruenta del Nazareno, poiché in qualche modo quella fine costituisce una dimensione permanente del Risorto. Se l’uomo vuole affidarsi alla verità di Cristo, egli deve narrarsi la risurrezione come la conferma che la croce non è un “incidente di percorso”, poiché appartiene alla verità gloriosa di Dio. Ciò che appare come esclusivo di Gesù –l’abbandono e la solitudine del Golgota– viene riconosciuto come tratto essenziale del volto di Dio rivelato a Pasqua. Il significato rivelativo della risurrezione non appare senza la croce, poiché la include. La luce della Pasqua scioglie l’ambiguità della croce e dell’assenza dell’intervento risolutore di Dio, mostrando in che modo Dio era presente: patendo. Ciò equivale a dire che Gesù non può essere inteso come mera occasione della rivelazione. Se la risurrezione è indisgiungibile dalla croce, la verità di Dio e la storia di Gesù non possono essere separate (Bertuletti, Casati, Epis, Salvi, 1998). Alla luce della risurrezione, la morte manifesta il rapporto di Gesù a Dio come alterità in Dio; perciò il dogma trinitario si dimostra correlativo alla verità della rivelazione cristologica. L’affermazione della creazione in Cristo Gesù e della ricapitolazione finale in Lui di ogni cosa rappresenta l’esplicitazione coerente della verità della Pasqua: se la creazione e il giudizio appartengono solo a Dio, il loro significato dovrà essere colto anticipatamente in quella storia il cui carattere di definitività dipende dalla misura –personale– dell’implicazione di Dio. L’intemporalità dell’inizio e la pienezza della fine non possono essere determinate “fuori” dalla temporalità dell’evento (ibidem).
            L’“obbedienza” che conduce Gesù sulla croce appare come la condiscendenza del Figlio in una libertà umana al desiderio del Padre di farsi dono per l’umanità.
La risurrezione è l’attestazione della validità definitiva dell’offerta significata dalla croce e della vita che in essa si ricapitola: l’amore che giunge a morire per rimanere l’ultima parola di Dio (Rahner, 1977). È questo, secondo la teologia fondamentale (Sequeri, 2002, 2006), il compimento della verità che “viene incontro” e che manifesta, suscitando ma senza soffocare, la libertà dell’uomo.
            Dio, attraverso l’Evento del Verbo incarnato, propone all’uomo di ascoltare/affidarsi a Lui, per cercare, insieme, un senso che lo conduca a un futuro possibile: un futuro che struttura la sua libertà e si manifesta con una verità che gli dà valore e lo rende se stesso: tutto questo è compiuto con l’amore gratuito, reciproco, incondizionato, dedicato e libero di Dio.


               



BIBLIOGRAFIA


AA. VV., La Sacra Bibbia.
Bertuletti A., Il sacro e la fede, La Scuola Cattolica, Milano, 1995.
Bertuletti A., Casati L., Epis M., Salvi M., La fede in discussione, IGL, Bergamo, 1998.
Bruner J., Acts of Meaning, The President and Yellow of Harvard College, 1990   [trad. it. La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino, 1993].
Liotti G., La dimensione interpersonale della coscienza, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994.
MacLean P. D., A Triune Concept of the Brain and Behaviour, University of Toronto Press, 1973 [trad. it. Evoluzione del cervello e comportamento  umano, Einaudi, Torino, 1984].
Rahner K., Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Ed. Paoline, Roma, 1977.
Sequeri P., Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia, 1996.
Sequeri P., L’estro di Dio. Saggi di estetica, Jaca Book, Milano, 1999. 
Sequeri P., L’idea della fede, Glossa, Milano, 2002.
Sequeri P., Appunti e registrazione dell’intervista del 13 dicembre 2006.
Söhngen G., Fundamentaltheologie, Darmstadt, 1981.
Veglia F., Storie di vita, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
Veglia F., Lezioni universitarie dei corsi di Psicopatologia generale; Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale; Psicopatologia II, Facoltà di Psicologia, Torino, 2001/2005.









domenica 26 dicembre 2010

NENA NEWS | NEAR EAST NEWS AGENCY
newsletter

Salve,
oggi la redazione della Near East News Agency vi propone questo servizio:
PALESTINA, VIDEO: ANCHE BABBO NATALE CONTRO IL MURO
Ieri a Bilin, in Cisgiordania, nuova manifestazione contro la barriera israeliana. Ma i soldati non gradiscono l’atmosfera «natalizia» e rispondono con una pioggia di lacrimogeni. I militari, ai primi lanci di sassi da parte dei dimostranti, si spingono fino alle porte del villaggio divenuto simbolo della lotta popolare non violenza palestinese contro il Muro. In questi giorni attivisti palestinesi, israeliani e internazionali contro l’occupazione celebrano inoltre il primo anniversario di lotta di un altro piccolo centro abitato, Nabi Saleh (Gerusalemme), impegnato contro la confisca delle terre e la costruzione del Muro.

http://www.nena-news.com/?p=5756


Cordiali Saluti e Buone Feste
Nena News

Come non notare, in questi giorni, la campagna pubblicitaria promossa dall'ENEL e dall'EDF e avente come slogan il nucleare non è la soluzione, ma senza il nucleare non c'è soluzione?
Grandi foto a colori con distese di girasoli e campi di grano in primo piano, foreste e torri di raffreddamento sullo sfondo, e bei grafici colorati a dimostrare inconfutabilmente quanto importante possa essere il nucleare nel futuro del nostro paese... un attimo... ma stanno parlando dell'Italia? Ma allora il grafico illustrante gli obiettivi del governo non è mica tanto corretto, anzi è sbagliato di grosso!


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http://www.arstecnica.org/2010/12/il-nucleare-non-e-la-soluzione.html  

martedì 21 dicembre 2010



Unum esse omnia. Dall'abbattimento degli idoli alla divinità del tutto
di Salvatore Natoli (Docente di filosofia teoretica all'Università Statale Milano Bicocca)
 
 In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come alcuni dei vostri poeti
hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo. (Atti, 17,28)1. Politeismo. Tra
tolleranza e scepsi
Stando a quel che racconta Diogene Laerzio, sembra che Talete ritenesse
"l’acqua principio di tutto e il mondo animato e pieno di dei." (Diog. Laert.
 I, 27) Ma il protofilosofo nel ritenere che il mondo è tutto pieno di dei
portava alle estreme conseguenze il politeismo del mito o, al contrario,
eliminava in un colpo solo dei e mito mostrando che se ci sono dei
dappertutto nessuno è di essi è veramente dio? Se prendessimo per buono
il secondo corno del dilemma dovremmo dire che il primo illuminismo greco,
per suo conto e indipendentemente da ogni monoteismo, ha fatto fuori
definitivamente le vestigia del mito: gli idoli. Per Talete, dunque, principio
di tutto sarebbe l’acqua e non quella che scorre per terre e continenti, né il
mare che li circonda, ma l’acqua "primordiale" da cui germinano tutte le
cose. Un acqua originaria che impropriamente possiamo anche chiamare
Dio, ma che quelli che "per primi filosofarono" chiamarono physis: natura.
E, tuttavia, Diogene Laerzio nell’esporre la dottrina di Talete sembra
prendere sul serio l’affermazione " tutto è animato e pieno di dei". Qual è,
allora, il significato di questa frase, cosa volva dire veramente Talete?
Voleva probabilmente dire che il "principio" nella sua stessa origine si
dispiega come un insieme di potenze indipendenti e contrapposte: voleva
dire che la physis si differenza nel suo stesso inizio e che l’inizio è
coesistenza di differenze. Talete, nell’identificare l’acqua come principio di
tutte le cose perviene, a suo modo all’idea, dell’uno pensato, però, non
tanto come l’unico, ma piuttosto come il grembo. La natura è una ma si
differenzia eternamente in se stessa. Per i greci ogni cosa è momento di
 un’eterna e medesima physis che non esiste né sussiste come entità
separata, ma si determina nelle sue metamorfosi: vive nelle e delle sue
stesse opposizioni. I greci erano conquistati dalla lussureggiante varietà
delle cose, erano attratti e stupiti dalla terra dal cangiante colore e
raccoglievano quest’illimitata molteplicità nell’unità dell’origine che si
differenzia eternamente in se stessa senza mai uscire da sé: Gaia – come
dice Esiodo - dall’ampio petto che genera ogni cosa.
Il mondo, dunque, è un gioco tra potenze che talora si contrappongono,
altre volte si alleano: si amano e si odiano, comunque si implicano e
reciprocamente s’influenzano. Talete vedendo il mondo animato e pieno di
dei, lo vede come potenze in conflitto che, però, generano ordine e secondo il ritmo dei tempi governano il mondo. Potenze visibili ad occhio umano o invisibili e
 soprattuto per quanto numerabili innumerevoli. E’ sempre possibile
aggiungere un dio in più: un nuovo dio non f a problema. Blumenberg
evidenzia come l’ara innanzi a cui Paolo pronuncia il suo discorso all’
Areopago non è dedicata non "al " dio ignoto - proprio quello che Lui
vuole annunziare - ma ad "un "dio ignoto, uno dei tanti, degli innumerevoli
 dei che circolano per il mondo. Nel mondo tardo antico non era difficile
trovare altari dedicati a ignotis diis , a dei ignoti. Ma il mito, negli dei null’
altro identificava se non le molteplici potenze che, a vario titolo e in
modalità diverse, si manifestano nel mondo. Ma gli dei lungi dall’essere
favole esistono. Sono apparizioni: nomi che gli uomini assegnano ad eventi
 naturali, mentali e in genere a quelle potenze ignote che li circondano per
 entrare in rapporto con esse, per tenersele buone, per trovarle alleate, ma
soprattutto potere concepire razionalmente il mondo. Sono divini o
comunque abitati da un Dio le manifestazioni occasionali ed improvvise
della natura -il fulmine, la tempesta, la pioggia - e i luoghi naturali in
genere - i fiumi, i mari, le fonti. Dei sono gli inconsulti moti della mente,
la violenza delle passioni da cui l’uomo si sente travolto quasi fosse
posseduto da potenze estranee di cui non conosce la natura, ma ne patisce
gli effetti: la voluttà, l’amore, l’odio, il rancore, l’inganno e in generale la
vasta gamma dei sentimenti che, a seconda dei casi, attivano o inibiscono
azioni e pensieri. Forze esterne e potenze interne vengono dagli uomini
 nominate e quindi collocate in un panteon che permetta loro di immaginare un ordine e una gerarchia e di sapere, a seconda dei casi, a chi ricorrere per chiedere
aiuto e protezione.
Coloro che per primi filosofarono ancora teologizzavano e tuttavia, in
quanto già fisiologi, naturalizzarono le potenze e perciò le demitizzarono.
La naturalizzazione delle potenze non è di per sé sufficiente a dominarle,
ma rappresenta comunque un modo per neutralizzarle, è lo scudo teorico
che permette agli uomini di ridurre l’ansia indotta in loro dal sentimento di
esposizione all’imponderabile.
Le potenze con cui gli uomini avevano a che fare o da cui in qualche
percepivano la presenza non erano affatto numerabili e per questo gli dei
potevano essere, senza scandalo, innumerevoli .
Ma fino a che punto gli antichi credevano davvero ai loro dei? Per un
verso indubbiamente ci credevano. Di nomi divini era, infatti, pieno il
vocabolario della loro tradizione, in virtù di questi nomi risalivano alla loro
provenienza, ricostruivano la loro storia. L’Iliade e l’Odissea ne sono i
documenti esemplari: Omero fu il maestro di tutta la Grecia. Questi dei
non cessarono mai d’essere dei: vennero piuttosto dimenticati a mano a
mano che gli uomini scoprivano nuove tecniche e parole ben più potenti
per dominare gli eventi e intrattenere il loro rapporto con il mondo. In
effetti gli antichi dei non furono mai negati, né confutati – in pochi
s’impegnarono a dimostrare che erano falsi - ; furono semplicemente
abbandonati. Il mito si mutò in favola perché ad un certo momento risultò
inefficace rispetto alle aspettative e perciò deludente. Paradossalmente,
ritengo che il mito fu definito "mito" quando non lo era più: finché vigeva
 era semplicemente muthos , quel che da sempre viene narrato, il racconto,
la verità. Lo dichiararono favola quelli che di fatto se ne trovarono fuori e
verosimilmente senza alcuna intenzione.
Se le cose stanno in questi termini si può allora dire che gli antichi si sono
mutati, in senso stretto in idoli solo innanzi al vero Dio o comunque ritenuto
tale. Solo il vero Dio svela gli altri dei come falsi e bugiardi: appunto idoli.
Il politeismo antico interpretava il mondo come un campo di forze
antagoniste tutte egualmente vere perché semplicemente date,
manifestatesi come accadimenti - miracoli, eventi d’eccezione - nei più
disparati luoghi della terra: e così raccontati. Dal momento poi che si
potevano reperire dei dappertutto, non si poteva mai immaginare che ve
ne potesse essere uno solo. Di qui un panteon popolato che però era anche
e soprattutto uno spazio ospitale e perciò un universo prospettico. In un
universo di credenze cosi accogliente - e perfino inflazionato - per un
pensiero illuminista era più facile accedere all’idea che esistessero dei
piuttosto che postularne uno solo. Questo dà ragione del perché nel mondo
tardo-antico alcuni esponenti dei ceti colti della società avevano smesso
già da tempo di credere nei loro dei. Per la medesima ragione i ceti
popolari erano disposti ad accogliere senza remore dei nuovi e stranieri, di
aderire con entusiasmo alle più svariate, singolari, pittoresche credenze. E
dal momento che di pittoresco si parla, si comprende anche come il mito si
sia il tramutato con facilità e quasi naturalmente in materiale fantastico e
si sia risolto in letteratura. Ovidio, per tutti, insegna . Per alcuni - e non
furono pochi - gli dei cessarono d’essere tali prima ancora di potersi
trasformare in idoli.
Tutti dei, nessun dio. O meglio, un dio come a ciascuno aggrada. Il mondo
tardo antico fu così ampiamente tollerante da permettere la superstizione
ed ospitare l’incredulità, da consentire il proliferare delle sette ed
apprezzare la sapienza profana dei filosofi. Fatta salva la pace. Cosa ai
pagani poté sembrare il cristianesimo alla sua prima apparizione? Una religione nuova? Una nuova scuola filosofica? Verosimilmente ambedue le cose. E’ noto d’altra parte che i cristiani nel confutare gli dei pagani impiegavano argomenti comuni a quelli dei filosofi, ma con diverso intento. I filosofi utilizzavano i criteri razionali per liberare gli uomini dalla false credenze, dalla superstitio, i cristiani utilizzavano argomenti filosofici per liberare il campo dagli idoli e dimostrare come la religione dell’unico Dio fosse la vera religione. La patristica tutta, fino ad Agostino, ne è la chiara documentazione. La religione vera di un Dio ineffabile, ma che storicamente – è un fatto - ha autorizzato tanta, troppa violenza. Non si può dire così degli antichi dei: troppo viziosi, troppo indolenti, troppo umani per poter essere davvero spietati.
Troppi dei e un solo dio: l’eccesso di tolleranza conduce all’indifferenza per la verità; la proclamazione dell’unico Dio alla pretesa di possedere la verità per tutto e per tutti. Impotenza e prepotenza: due esiti da evitare. E’ allora necessario ripensare l’esperienza che gli uomini hanno fatto e fanno di Dio. torna su2. "Non avrai altri dei di fronte a me". Il dio unico e il disincanto del mondo
Molti sono gli studi e le ipotesi sulle origini del monoteismo: egizie, prima ancora che giudaiche. Egiziano è ritenuto lo stesso Mosè. Secondo alcuni studiosi, ideatore primo e instauratore violento del monoteismo è stato Amenofi IV che chiamò se stesso Ekhnaton. "Poco dopo la sua morte nel 1338 a.C. il suo nome fu cancellato dagli elenchi dei re, furono abbattuti i suoi monumenti, distrutte le sue raffigurazioni e le su epigrafi e fu eliminata quasi ogni traccia della sua esistenza terrena". L’esperimento di Amenofi IV non ebbe seguito e la cancellazione della sua stessa persona rappresenta una tra le più grandi rimozioni della storia: ma – come ci è stato insegnato - il rimosso ritorna. Ed Amenofi ritornò nella personalità storico/mitica di Mosè. Assmann sostiene che la rivoluzione monoteista di Ekhnaton "non solo fu il primo, ma anche il più radicale e violento manifestarsi di una controreligione nella storia dell’umanità".
Controreligione
Per tornare alla origini è verosimile sostenere che uno dei motivi per cui in Egitto il monoteismo non riuscì ad attecchire, ma provocò, anzi, una cristi di rigetto fu il suo carattere di controreligione. " Quanto più si penetra nel mondo dell’antico Egitto, tanto più chiaramente si può desumere quale terribile shock debba essere stata la caduta degli dei per una società convinta che non solo il benessere politico ed economico del paese, ma la vita stessa della natura dipendesse dallo svolgimento ininterrotto dei riti in tutti templi del paese". L’esperimento di Amenofi non ebbe avere corso e perciò non ebbe altro modo d’affermarsi se non come fenomeno minoritario, una religione caratterizzata dall’amixia dall’ esclusivismo e perciò escludente ed esclusiva, separata. E paradossalmente ha tratta forza da questa sua separazione. Il monoteismo si costituì come religione di una comunità di puri, di incontaminati di altri e ala fine come la religione dell’Altro: un altro Dio rispetto agli altri dei, ma soprattutto il Dio più forte, il vero Dio.
"In quel giorno - si legge nella Bibbia - il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani e Isarele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare…Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore e dissero:
Voglio cantare in onore del Signore:
perché ha mirabilmente trionfato,
ha gettato in mare
cavallo e cavaliere.
Mia forza è il Signore…
La tua destra, Signore
terribile per potenza,
la tua destra, Signore,
annienta il nemico.
( Es. 15, 30 ss.)
Il Dio d’Israele è indubbiamente un Dio forte, ma di una forza del tutto singolare. E’ noto come nella tradizione ebraica vi siano correnti che interpretano la creazione come un ritrarsi di Dio perché il mondo sia. Nell’ebraismo si sono quindi sviluppate linee di pensiero centrate sull’idea della debolezza di Dio, tendenza questa che nel novecento ha preso un particolare spicco dopo Auschwitz. Questo modo d’intendere Dio ha poi avuto ampia diffusione nelle teologie cristiane contemporanee. Ora, insisto nel dire che il Dio d’Israele è il dio forte per eccellenza anche se non lo è certamente al modo di quelle divinità coeve, quelle che, appunto, al suo cospetto si tramutano in idoli. Gli dei del faraone, e in generale tutte le altre divinità che il Dio d’Israele rivela come idoli erano potenti secondo un’idea in certo senso spaziale – altezza, larghezza, profondità -: erano tali perché imponenti. Gli idoli, inoltre, erano potenti perché vincevano in battaglia e su questo piano il l’iniziale Dio d’Israele è fortemente imparentato con essi. Ma ogni idolo, così come imponente domina, può essere schiacciato, travolto, può cadere. Non così il Dio d’Israele per il semplice fato che è inafferrabile. Si sottrae nel momento che crea, ma non torna più alla presenza, non è perciò catturabile da mano umana, né da altra potenza: è insondabile, misterioso. Il Dio d’Israele è forte perché nessuna forza lo può mai incatenare, sfugge a ogni presa. Gli idoli, statici nella loro nella loro immane potenza, sono bersagli fissi, vulnerabili; il Dio d’Israele, al contrario, è vivente.
In verità ogni Dio è vivente, ma quello d’Israele sa essere anche assente. All’uomo si rende manifesto per quel tanto che lo chiama e promette, ma insondabili sono i suoi pensieri. E’ un Dio che tiene l’uomo in scacco, lo spiazza e non facendosi mai trovare paradossalmente lo fa avanzare. Per questo le carte si possono sempre rovesciare e l’ultima parola non è mai detta. Il Dio d’Israele tiene l’uomo in cammino e, si può sempre ricominciare. E’ il Dio più forte non perché ha più forza degli altri dei e li tiene sotto di sé - un altro più forte potrebbe sempre sorgere – ma perché si pone al di là del meno e del più, è l’incommensurabile. Un Dio più potente di questo è difficile da immaginare.
In ogni caso il Dio d’Israele si profila, ai suoi esordi come il più forte; progressivamente si trasforma nell’unico e vero Dio. Il Dio più forte fa fuori tutti gli altri dei, li dissacra il mondo e in un mondo ormai privo di dei si erge come radicalmente altro rispetto al mondo stesso e perciò come suo creatore, signore, legislatore. Dio è legge e gli uomini sono a lui sottomessi. Ma di Dio in questi termini ne parlano gli idolatri. Il popolo di Dio parla di lui in altro modo. Dio nel donare agli uomini legge – e singolarmente ad Israele - stringe con loro un’alleanza, offre loro la salvezza. Il mondo, disabitato dagli dei, si disincanta per trasformarsi in uno spazio aperto che Dio consegna alla responsabilità degli uomini. Diverrà giardino o deserto a seconda dell’agire degli uomini, della loro condotta, della loro conformità alla legge e soprattutto della loro fedeltà: "non avrai altri dei di fronte a me" (Es. 20, 3).
Il monoteismo nella sua forma più estrema annienta le potenze intermedie e se non le annienta, angeli o demoni che siano, le mette al suo servizio e comunque le marginalizza. Lo spazio mondano, reso ormai sgombro, diviene luogo dell’incontro libero e verticale tra Dio e l’uomo. Il Dio unico nel disincantare il mondo - e forse proprio per questo- avvicina l’uomo a sé come nessuno degli dei poteva fare. E ciò era impossibile perché gli dei che popolavano il panteon pagano erano già delle gigantografia umane, delle simbolizzazioni delle loro virtù e dei loro vizi Nella Bibbia, al contrario è l’uomo ad essere fatto ad immagine di Dio. Dio eleva l’uomo sulla natura, lo rende intimo a sé, si lega con lui in con un legame sponsale e geloso. L’altra faccia di quest’elevazione è, però, l’assoluta dipendenza, il riconoscimento che solo Dio è il Signore e a lui solo si deve un’incondizionata obbedienza: fit voluntas tua, sia fatta la tua volontà. D’altra parte, l’uomo fatto ad immagine di Dio diviene signore e dominatore del mondo a patto che lo abiti e lo custodisca secondo i comandi del Signore. E perché la natura tutta non gli si rivolti, non può fare quel che lui vuole, ma unicamente quel che vuole Dio.
Il monoteismo non solo discaccia gli dei dal mondo, ma fa sparire completamente gli eroi: se non vi sono dei, meno che mai vi saranno semidei e soprattutto e nessun uomo dunque può essere trattato o venerato al pari di un Dio. Gli uomini, tutti, sono "servi del signore", e se differiscono tra loro, differiscono in forza dei diversi servizi loro assegnati. Gli eletti, infatti, sono sempre e soprattutto inviati e nessuno può rivendicare gloria per sé, ma solo Dio è degno di gloria: soli Deo gloria. Questo insegna l’umile grandezza di Mosé . Ma il monoteismo, in ragione della unica e sola sovranità di Dio – sia nella sua formulazione giudaica che nella sua variante cristiana - nel momento stesso in cui eleva gli uomini al culmine della dignità creaturale li rende uguali tra loro: coram Deo, innanzi a Dio sono posti tutti sullo stesso piano. Questo non comporta affatto che gli uomini siano eguali per doti fisiche, intelligenza, carattere, personalità - sono e restano diseguali e se vogliamo essere politically correct, diciamo "differenti" - ; uguali di sicuro invece lo sono per posizione: innanzi a Dio hanno tutti la stessa dignità. Israele, infatti, per quanto costituito da individui singoli, è soprattutto popolo ed è il "popolo di Dio" nelle sua interezza. Al popolo sono promessi dapprima la terra, quindi il regno messianico e, infine, con il cristianesimo, quello dei Cieli. Il monoteismo nell’abbattere gli idoli rovescia anche tutte le gerarchie delle terra e riscatta gli uomini da ogni soggezione, li emancipa da ogni potenza che non sia Dio. Nel renderli universalmente liberi ed uguali li rende responsabili, li obbliga ad istaurare rapporti di giustizia tra di loro e nei confronti della stessa natura. Di questa giustizia Dio stesso si fa garante e la premia con la pace. Un solo Dio, una sola umanità. Nulla sembra più universale del monoteismo. E lo è. Ma il monoteismo, per quanto la cosa possa sembrare paradossale, risulta escludente proprio perché è onnincludente, perché pretende per sé l’universale. La vicenda risulta poi storicamente drammatica se si pensa che di monoteismo non ve n’è uno solo. Ciò ha dato luogo a una storia sanguinaria, a contrasti spietati e senza soluzione dal momento che ogni monoteismo riteneva, per suo conto, d’essere l’unico vero. Vi sono state società, tradizioni, uomini e soprattutto organizzazioni che di volta di volta in volta e contemporaneamente hanno preteso di parlare in nome dell’unico Dio, che hanno arrogato a sé il privilegio di essere depositari unici e garanti dell’unica verità. Di qui una metamorfosi perversa dell’uno. Ognuno e chiunque ha preteso di parlare in nome di Dio, elevando, di fatto, ad idolo la propria autorità. Gli antichi dei erano più dimessi e nessuno pretendeva di essere il solo: si combattevano ma anche coesistevano, s’insidiavano ma, del pari, si alleavano, ognuno aveva una propria sfera d’azione – chi il cielo, chi il mare, chi gli inferi, - e abitualmente nessuno Nei suoi effetti, alla fine, il monoteismo si è rivelato più distruttivo e intollerante del politeismo ingenuo e tollerante, ha scatenato guerre che non potevano concludersi se non con la soppressione dell’altro e perciò senza fine. Ciò ha prodotto una sorta di politeismo mascherato - travestito dalla finzione dell’uno - e perciò degenerato e perverso. Né molti dei né un solo Dio, ma ognuno per suo conto al posto dell’unico Dio. La controprova della degenerazione dell’idea monoteista la si ricava dall’uso plurale - e perciò contraddittorio - della parola stessa: appunto i monoteismi. I monoteismi, sul piano storico, lungi dal celebrare il primato dell’uno si sono consumati nella pretesa di fare valer come unica verità la loro particolarità. Risiede qui la grandezza, ma anche l’equivoco dell’idea stessa di cattolicità.
I monoteismi per sussistere legittimamente nella loro diversità devono iniziare a concepire se stessi come vie diverse verso un Dio di tutti e di cui non è padrone nessuno, un Dio- ammesso che vi sia - che la mano d’uomo non può mai catturare e dire: è mio. Tutti devono e possono stare in ascolto della voce dell’Uno, ma nessuno può parlare in suo nome. L’unico Dio si è variamente rivelato, ma la sua parola è segno da decifrare, è appello, interrogazione. L’unico nel suo manifestarsi si rende diverso, ma proprio per questo nessuna diversità può dire di essere la manifestazione vera e compiuta dell’uno. L’uno è dappertutto e per questo sempre altrove. Di questo Agostino ne aveva avuta una chiara percezione quando distingueva tra il nomen gloriae e il nomen misericordiae , tra il Dio eterno, nascosto nella sua eternità e di cui nessuno conosce il nome, e il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe. Questa sequenza di nomi rappresenta uno dei molti possibili sentieri verso l’unico Dio, dal nome non a caso impronunziabile.
A partire da qui bisogna riconsiderare quel che davvero si vuol dire quando si afferma che Dio è uno. Dio è uno perché non esiste alcun dio di fronte a lui. Se così è, nulla è fuori di lui nel senso che nulla può esistere indipendentemente da lui, nulla può essergli radicalmente altro. Non lo può il creato e neppure lo stesso male. Evidentemente Paolo intendeva dire questo quando affermava "in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (Atti 17, 28). Non solo dunque non c’è alcun Dio al fuori di Dio, ma tutto è in Dio. Il Dio "uno"non può, dunque essere concepito come un’entità numerabile – uno fra tanti - e neppure come l’uno opposto ai molti – diverrebbe subito parte – ma piuttosto come, una complicatio, spazio illimitato di relazioni o come avrebbe detto Cusano coincidentia oppositorum. Forse il Dio "anonimo", l ‘Uno- Tutto della tradizione ermetica: "Dio è Uno; ma l’Uno non ha bisogno di alcun nome; egli è Ente senza nome". Né politeismo dunque, né panteismo ma l’hen kai pan di Eraclito. Così concepito, Dio non è un ente, quanto ma piuttosto sorta di luogo, il raccordarsi di tutto con tutto.
Se l’unità di Dio la si disegna come una dimensione non dimensionabile che posto ha qui il rapporto "io-tu", la relazione personale ed elettiva con Dio? Un Tu che è tutto, ma insieme è anche l’Altro, che risolve in sé quel che ha creato, ma consegna l’uomo alla sua libertà? Non mi avventuro oltre a sondare il mistero dell’"unico Dio" - ove Dio e mondo sembrano trapassare l’uno nell’altro - ma mi limito semplicemente a sottolineare quanto sia idolatrica – nel senso corrente di adorazione di un falso Dio - quella presunzione di verità di chi ritiene di poter parlare in nome di quell’Uno che è al di sopra di ogni nome e forse anche di ogni significazione. State ferme umane genti al quia .
torna su3. Idoli d’oggiSaremmo del tutto fuori strada se interpretassimo i molti idoli d’oggi come il ritorno degli antichi dei. Non a caso, fin dall’inizio, mi sono premurato di mostrare come gli antichi dei non fossero affatto esperiti come idoli, ma che è stato il monoteismo a farli decadere e a renderli tali. Al politeismo antico non si torna. Per converso gli idoli d’oggi – e non solo quelli - sono frutto o della necrosi dell’unico di Dio. La tradizione che immediatamente precede l’avvento della modernità – intendo quella cristiano-medioevale – faceva coincidere l’essere con in Dio: solo Dio, infatti è quell’ente la cui essenza coincide con l’esistenza. Heidegger ha definito quest’esito, in cui si fondono in l’ontologia classica e il Dio d’Israele, ontoteologia. In quest tradizione l’essere compete solo a Dio: il mondo proviene dal proprio nulla ed esiste solo perché Dio, che lo ha creato, lo tiene in essere. Sullo sfondo della creazione il mondo si rivela come insufficiente e se stesso: se Dio lo abbandonasse ricadrebbe in quel nulla da cui proviene.
Questa prospettiva può essere considerata autenticamente cristiana o no; in ogni caso appartiene ai secoli cristiani che sono inequivocabilmente esistiti. E non sono passati invano. Ora il politeismo moderno si genera a partire dal dissolversi dell’egemonia dell’uno, della signoria dell’unico Dio. Questa mutazione, nell’Europa cristiana, prende avvio dalla confutazione della giurisdizione della Chiesa sulla verità. Il libero esame, la problematizzazione dei dogmi, la contestazione dell’autorità, messe insieme, attivano quel processo di emancipazione che coincide con quel che si usa chiamare autoaffermazione della soggettività. La modernità nel suo svolgersi si differenzia entro di sé: singoli, gruppi, associazioni cercano, ognuno per loro conto, di farsi valere, nessuno è più disposto a riconoscere a nessuno il monopolio unico della verità. Lo stesso "bene" perde la sua evidenza: non è più ciò a cui bisogna conformarsi, ma qualcosa su cui di volta in volta accordarsi. Il bene si trasforma in valore, è qualcosa che si valuta, che al pari dei beni economici si scambia. Di qui diverse prospettive sul mondo, una molteplicità di punti di vista, di posizioni e di postazioni: nuovi molti dei fioriscono da ogni parte. Un libero gioco tra libertà, ma che ha anche avuto esiti perversi.
Non sempre, infatti, la controversia tra le diverse posizioni si è formulata come confronto tra prospettive, come discussione e selezione tra ipotesi alternative. Vi sono stati movimenti che a partire dalla loro parzialità hanno ritenuto di possedere una verità più vera di tutte, che a partire dalla loro prospettiva particolare hanno elaborato visioni del mondo universali e si sono sentiti in diritto non solo di divulgarle, ma perfino di imporle.
I totalitarismi che hanno contrassegnato la tarda modernità hanno preteso di essere tutto – e perciò di ricondurre tutto a sé – perché ritenevano di conoscere il destino della storia e dunque i sentieri su cui avviare e guidare l’umanità. Il tratto peculiare di queste idolatrie è quello di farsi valere come verità assolute. Questa non era affatto la prerogativa dei vecchi, antichi, dei: " gli dei - scriveva Jean Paul – possono giocare insieme; ma Dio è serio". Se l’idolatria coincide con l’adorazione di "dei falsi e bugiardi", il monoteismo, che pure ha fatto decadere ad idoli gli antichi dei, ha generato, per eterogenesi dei fini, una più terribile idolatria: quella della parte che, dissimulando perfino a se stessa il suo essere parte, usurpa il posto dell’uno. La modernità specie nei suoi esiti novecenteschi ha violato ed insieme ha tentato di rendere storicamente effettiva la "smisurata sentenza" di Goethe: "nihil contra Deum nisi Deus ipse". Chi come Dio? Biblicamente nessuno, ma nel senso: nessuno si permetta neppure di pensarlo. La domanda è retorica? Oppure "chi come Dio!" E’ una sfida, la formulazione icastica di un’impossibilità. Eppure la modernità ha violato in varie riprese le barriere della smisurata sentenza, ha tentato di darne effettività nel mondo. Lo ha fatto elevando a divinità la ragione umana ed esaltando le magnifiche sorti e progressive della storia; lo ha fatto tentando l’assalto al cielo della rivoluzione proletaria, pretendendo di selezionare una razza superiore che ha condotto solo ad una sperimentazione illimitata dell’uomo sull’uomo. Un delirio un tempo a dominante ideologico-politica, prende oggi le forme più ineccepibili e convincenti dei successi tecnologici.
Nel corso della modernità sono sorti molti dei, si sono scatenate potenze telluriche inaudite che, a turno, hanno cercato di usurpare il posto dell’"uno". Potenze sconosciute si sono elevate contro in cielo: hanno dato lo sfratto all’Unico, ma nel momento in cui ne sono stati i liquidatori si sono di fatto trasformati nei suoi spuri eredi. Hanno poco a che fare con l’unico Dio, ma in modo magari involontario sono loro stesse per prime a crederlo. Le idolatrie più idolatriche sono quelle non riconoscibili come tali, quelle che paradossalmente sono uscite dal seno dell’uno, che ne assumono le movenze e lo stile, ne sono il parto degenerato e distorto e perciò le più pericolose e dissolutorie. Tanto basta per capire perché le ambizioni della modernità si siano logorate in una guerra senza quartiere il cui esito sono state macerie: la caduta degli dei. Se nelle ideologie del novecento vi è una qualche vestigia di paganesimo è quel tratto di titanismo, l’idea che da una qualche parte possa sorgere un Dio che muova contro Dio.
L’esito fallimentare di questo titanismo va ormai sotto il nome di fine delle ideologie. Questa fine ha dato luogo a una diffusa delusione. Ma le ideologie non sono affatto finite: dalle ceneri dei titani è emersa una miriade innumerevole di dei minori, di comodo: dei effimeri, di un giorno ed è già fin troppo lungo. Potente, invece, e pervasiva è la macchia che questi dei li produce e in grande quantità: il danaro, se non lo vogliamo più chiamare capitale. Non è un Dio nuovo se un’antica sentenza di Publio Siro dice "pecuniae unum regimen est rerum omnia", governo unico di tutte le cose. Ma il denaro oggi è certamente divenuto il Dio egemone e ciò non riguarda tanto le ricchezze private, che più o meno sono sempre esistite e che a seconda delle filosofie corrompono o aprono le porte a coloro che le possiedono. No, si tratta di un potere invisibile, che è dappertutto, tanto da spiazzare lo stesso Dio della Bibbia. Se, infatti, il Dio d’Israele è inafferrabile, il denaro è oggi sufficiente anonimo per poterlo identificare. La macchia anonima della ricchezza fabbrica un’infinità di dei giornalieri per soddisfare i bisogni sfrenati che essa stessa produce e per placare i disagi, il mal di vivere che costantemente induce. Ma la morte del Dio signore e creatore, l’emancipazione dalla soffocante ipoteca dell’uno sono state sufficienti per rendere gli uomini veramente liberi? Non del tutto. Gli uomini, liberati dai vincoli, hanno perso di vista i fini, si sentono spesso sradicati, abbandonati ad una mobilità senza mete, in preda ad un folle, falso movimento.
Gli dei minori che oggi popolano la terra hanno poco da spartire con gli antichi dei nel cui nome si celebravano i grandi misteri della vita, la generazione, la nascita, la morte. Gli dei di un giorno, invece, sono surrogati d’una salvezza promessa e mai realizzata. All’idea di salvezza è subentrata, infatti, quella di benessere e la felicità lungi dal coincidere con la realizzazione di una vita compiuta la si identifica nell’efficienza nella fitness. Di qui un rapporto strumentale con uomini e cose: non ci si lega a niente e a nessuno per il timore di restarne prigionieri, ma così si rimane soli. E allora non resta altro che cercare compagnia: più che costruire relazioni, si approfitta delle occasioni, in una totale indifferenza per la verità. Non c’è nulla per cui vale la pena impegnarsi a fondo, spendersi, mettersi in gioco: nulla è rilevante tutto è equivalente. L’incapacità di valutare rende, se non impossibile, certamente difficile la facoltà di scegliere. Nelle more ci si abbandona alla vita nella sua immediatezza: si dà libero corso ai desideri, si ricerca l’eccitazione per sentirsi vivi. Viviamo in un mondo ove quando non si è euforici, si corre il rischio di ritrovarsi depressi. Per evitare d’esserlo è meglio trattenersi nell’indolenza oppure si cerca di riempire in qualche modo il tempo vuoto del far niente, l’assordante silenzio del nulla. Ci si impegna comunque in qualcosa: è un prendere e lasciare, un iniziare senza portare mai nulla a termine - come si diceva tempo fa, giro, leggo, conosco. Si frequentano uomini e cose senza relazionarsi davvero con loro e meno che mai ingaggiarsi con la vita. E’ un’accidia travestita da attivismo.
Il nostro tempo non si riduca certo a questo; c’è dell’altro e molto, ma qui ho voluto indicare speditamente solo alcuni degli idoli che popolano il presente, e soprattutto i modi con cui gli uomini cercano di sfuggire alla durezza della realtà, di occultare la loro finitezza procurandosi attimi assoluti, sensazioni artificiali di infinità, di onnipotenza. Oggi più che in un politeismo tollerante ci imbattiamo, di nuovo, in un monoteismo perverso: l’Io/dio. D’altra parte una delle parole d’ordine l’epoca - la si sente spesso - è: emozioniamoci. I nuovi idoli sono istantanei e labili, ma come accade con tutte le droghe e i sostitutivi gli uomini non riescono a farne a meno. Per quanto deludenti non si possono che venerare e per abbatterli è necessaria una nuova, singolare empietà.
A fronte degli idoli effimeri del presente è possibile immaginare che il mondo sia ancora popolato da dei? Certamente: appaiono dei dappertutto se il mondo lo si percepisce in generale come divino, se lo si sente come tale. Gli dei appaiono nelle sorgenti da non inquinare - e sono dei delle fonti - nel malato da curare, nel reciproco generoso dedicarsi degli uomini nel bisogno che non salva, ma sostiene. Gesto di custodia è quella dell’educare, di introdurre ed avviare le giovani generazioni alla vita. Ognuno si fa rende per l’altro dio protettore. E da sempre è divina la passione che accende l’amore – Afrodite sovrana - ma non lo è di meno la fedeltà che lo alimenta e non lo fa appassire. Divina è per gli uomini la giustizia - l’eterna Dike – e dei della città divengono coloro che s’impegnano per la sua prosperità che contrastano gli egoismi e fanno in modo che la riuscita dei singolo non vada a discapito dei più ma sia funzionale al bene di tutti.
Al motto - pare del comico Cecilio - homo homini deus Hobbes preferì quello, a suo parere più realista, di Plauto homo homini lupus. Ha assunto come presupposto il peggio per attingere il meglio, per identificare un spazio neutro che impedisse agli uomini di nuocersi reciprocamente o, quanto meno, di evitarsi senza danno. Ha così elaborato le condizioni formali – il patto – per una pace possibile, per la coesistenza. Non è bastato: il mondo ha conosciuto tregue ma non ha debellato l’inimicizia. E’ giunto il momento che ogni uomo cominci a trattare tutto quel che esiste, preso nella sua singolarità come Dio. Ogni cosa è, infatti, divina nella sua unicità e va rispetta e custodita per quel che è, così come è nella sua irripetibilità. Il divino non è una potenza che prevarica le cose, ma è l’atteggiamento che le custodisce. L’"uno" non è un superente che risolve in sé tutte le ma perché ogni cosa è sempre e solamente una.. Dio è questa pianta, questo fiore quest’uomo e così sempre. Ritengo che non sia affatto un caso che Aristotele considerasse il singolare, il tode ti, ineffabile ed insieme l’assolutamente reale. Per lui, infatti, erano realissime le cose – le sostanze prime - non le essenze. Queste sono significati, parole che nominano e rinominano le cose senza mai attingerle: esse esistono nel silenzio che le custodisce. E’ questo, infine, il modo più adeguato per interpretare l’antica sentenza di Talete - tutto è pieno di dei - il modo migliore di farla risuonare per noi.
In un presente che senza scrupoli viola uomini e cose in un gioco arbitrario tra potenze è all’opera un qualche elemento antidivino che genera idoli. Al contrario, sentire divine le cose nient’altro significa se non accostarle con rispetto, venerale: quest’atteggiamento coincide con la pietas degli antichi e nel presente la prosegue . Che poi è anche quella cristiana. La pietas non è altro dalla vita, ma si sviluppa come un contromoviento della vita in se stessa, come limitazione nei confronti della sua stessa crudeltà. E’ infatti la pietà che sopporta il dolore del mondo, lo prende su di sé. Tramite la pietà, la natura bilancia la sua violenza indominabile scomposta, plasma la sua potenza e la trasforma in forza fecondante e benefica.
Ma la pietà soprattutto venera. Il termine greco per pietà è appunto eusebeia dal verbo sebomai che vuol dire mi ritraggo, arretro timoroso, non entro in territorio sacro. La pietà, così intesa, ha poca da spartire con un atteggiamento patetico e sentimentale; è tutt’altro che un commuoversi, ma è piuttosto un lasciar essere, a suo modo è un contemplare. La pietà, infatti, non invade mai lo spazio dell’altro, né si lascia invadere. Muove incontra se si sente chiamata, e poi è tutt’altro che triste, gioisce della felicità dell’altro. Chi invidia distrugge. E Satana tentò l’uomo di superbia per farlo cadere, perché ne era invidioso. Se si guarda al mondo in cui viviamo alla luce delle pietà ci si rende conto di quanto esso sia distante da Dio, di come l’idea stesa di pietà risulti irrealistica. Nel mondo contemporaneo sono all’opera potenze antidivine che impediscono di riconoscere che il è divino. Da ui idoli che illudono, deludono, deviano. D’altra parte: è necessario che gli dei siano fallaci perché si producano nuovi.
appunto. Il monoteismo, infatti, s’impianta a partire dalla distruzione di tutte le forme di religione naturale: abbatte templi, abolisce le feste connesse al culto degli dei locali e alle tradizioni popolari. Il monoteismo prima ancora di formularsi come dottrina si è realizzato come distruzione di quel che, modernamente, potremmo chiamare il multiculturalismo religioso. Ha coinciso, inoltre, con l’imposizione violenta di un centralismo politico. Se il monoteismo s’impone storicamente attraverso la distruzione di tutte le forme di religione presistenti – diciamo i molteplici culti locali – si realizza in concreto come una contro religione. D’altra parte vi sono correnti importanti delle teologia cristiana e cattolica che sostengono apertamente che il cristianesimo non è affatto una religione.
Gli idoli nuovi e vecchi sono stati abbattuti una vola per tutti dall’incarnazione di Dio che per me nient’altro significa se non il divino nel mondo, noi stessi dei. E quand’anche gli non fossero stai definitivamente abbattuti esiste un punto di vista che li rende battibili. Non so se o quanto questa mia convinzione possa dirsi cristiana. Ritengo, però, che non ne sia del tutto estranea se Giovani, a suo modo, ne suggerisce già l’idea.: "nessuno ha mai visto Dio ; se ci amassimo gli uni con gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui in noi è perfetto" (2Giov. 4, 12).