Pagine

venerdì 22 febbraio 2013

MAO VALPIANA: IL VOTO E' MIO E LO GESTISCO IO.



PREMESSA
Quelle che seguono sono considerazioni personali, che non coinvolgono in alcun modo il Movimento Nonviolento, che ho l’onore di presiedere.
Ho un solo voto. In tanti me lo chiedono. Fino ad oggi l’ho sempre espresso. Qualche volta sono stato soddisfatto del suo utilizzo, altre meno. Tuttavia continuo a pensare che il mio unico voto sia davvero prezioso. In democrazia (governo del popolo) il voto è la parola data ai cittadini che scelgono a chi affidare la guida della società (che è il compito della politica).
La Costituzione dice che la sovranità appartiene al popolo. Io faccio parte del popolo italiano e quindi mi appartiene una quota-parte di sovranità. Penso di esercitarla in modo pieno. Partecipo attivamente alla vita sociale: dedico ogni giorno molte ore al lavoro per far crescere la nonviolenza organizzata in Italia: la redazione della rivista Azione nonviolenta, la presidenza del Movimento Nonviolento, la conduzione della Casa per la nonviolenza di Verona.
Ci deve quindi essere una relazione fra il mio agire sociale quotidiano e il mio voto alle elezioni politiche di domenica. Sarebbe una palese contraddizione lavorare ogni giorno per la nonviolenza e poi mettere il mio voto nelle mani di chi non ci crede affatto.

LE PROPOSTE IN CAMPO
Allora mi guardo intorno, nel supermercato della politica italiana, e cerco di capire se una delle offerte che i partiti ci presentano in questi giorni sia in qualche modo almeno compatibile con l’orientamento nonviolento. Sinceramente faccio fatica a dare una risposta decisa e positiva. In precedenti elezioni optavo per la scelta della persona anziché del partito, dando la preferenza a chi aveva la mia fiducia personale: ho votato simboli che non condividevo per sostenere candidati che avevano la mia stima. Ora questo non è più possibile: il cittadino può solo ratificare una lista.
Molti dei simboli che troveremo sulla scheda sono nuovi (anche se in alcune di queste “nuove” formazioni troviamo politici di lungo corso) e quindi non è possibile valutare il loro operato, ma ci si deve affidare elusivamente alla campagna elettorale e ai programmi. Sarebbero voti sulla fiducia, una cambiale in bianco. Altri partiti hanno già governato e quindi sappiamo bene che prova hanno dato di se. Difficile, nel complesso, essere fiduciosi e clementi.
Un criterio valido per la scelta sarebbe quello di vedere come vivono concretamente coloro che si candidano a guidare il paese. La coerenza personale è stata il faro che ha guidato il politico Gandhi,  Capitini e Alexander Langer.  Come faccio a votare chi fa buoni comizi, ma vive in ville  superprotette e ha la Ferrari nel garage? Che credibilità può avere? La differenza la si vede non da quel che si dice, ma da come si vive.
Personalmente escludo in partenza il Pdl e la Lega, la galassia di partitini del centro-destra, e non mi soffermo su liste improbabili tipo Fare o altri. Monti fa la politica del Fondo monetario internazionale, della Banca centrale europea e della Nato. Non posso certo votarlo.
Il Movimento 5 Stelle non mi convince, è un salto nel buio, non riesco a decifrarne il progetto politico; dire che destra e sinistra non esistono più è come dire che non esistono più idee giuste e idee sbagliate, che non c’è differenza tra il bello e il brutto, che giustizia e ingiustizia sono uguali. No, non è così. E poi chi si mette su un piedistallo e giudica e condanna tutti gli altri, non mi è mai piaciuto. Figuriamoci se si può fare in politica, che è l’arte del compromesso (Gandhi).
Rivoluzione Civile mi ha deluso. Doveva essere un esperimento nuovo, ma è nata e cresciuta troppo in fretta, e ne è sortita una cosa vecchia, somma di partiti (IdV, Pdci, Rc, Verdi) che per non andare alla deriva tentano di salvarsi salendo sulla scialuppa guidata da un magistrato impolitico. Rischia di rimanere fuori dal Parlamento, e se superasse lo sbarramento ad entrare sarebbero gli esponenti di quei partiti (basta vedere i primi nelle liste) e la società civile rimarrà nei proclami.
La lista di scopo dei Radicali, Amnistia Giustizia Libertà, poteva essere una buona idea, ma ha praticamente deciso di autoescludersi dalla competizione. Troppi salti mortali, è caduta senza rete.
Resta la coalizione di centro-sinistra (Pd, Sel, Centro democratico) che ha buone probabilità di vincere le elezioni e governare.

IL VOTO OGGI
A questo punto cosa posso fare? Il voto è l’espressione di una volontà, ma può esserlo anche di una negazione. Scelgo il meno peggio? Decido di favorire chi ha più possibilità di stoppare il peggiore?
Queste elezioni rappresentano probabilmente un passaggio difficile e decisivo per il futuro del paese. La cosiddetta seconda repubblica è stata un fallimento, ha smantellato lo stato sociale, ha impoverito la classe media, ha aumentato a dismisura le spese militari. La transizione a qualcosa di nuovo e di diverso sarà molto delicata. Il rischio è quello di una disgregazione sociale, o del ritorno a  scelte autoritarie. E’ il modello di sviluppo che deve essere messo in discussione, e quindi è importante saper governare il passaggio dal vecchio al nuovo. Ci vorrà tempo, e capacità, e saggezza.
Il primo passo, urgente, è fermare definitivamente i malandrini. Poi bisognerà rieducarci tutti ad una consapevolezza di cittadinanza. Prima ancora dei politici, sono gli elettori da riformare. E per questo ci vuole un profondo lavoro culturale.
Dunque questa volta darò un voto in negativo per fermare il ritorno del caimano (al Senato Pd), e un voto in positivo per dare forza di governo a chi terrà il baricentro a sinistra (alla Camera Sel).
Non sono questi i miei partiti, non mi ci riconosco, non mi iscriverei, anche se questa volta affido a loro il mio voto. Non è una resa all’idea del “voto utile” (che tante volte è stata usata anche contro di noi), ma è la consapevolezza che questa volta ci vuole un “voto necessario” per non cadere nel baratro.

PER IL FUTURO
Recita la Costituzione italiana all’articolo 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Già, perché no?
Il partito che sogno non ha il nome di una persona nel simbolo, perchè è la visione comune che ci dovrà unire e guidare.
Dal confronto con altre amiche e altri amici della nonviolenza potrà nascere la volontà comune di iniziare un nuovo/antico processo.
La nonviolenza è politica: dentro e fuori le istituzioni, nelle case e nelle piazze, nei Comuni e nel Parlamento. Liste politiche di amici della nonviolenza risolverebbero a molti noi il problema: il mio voto potrei darlo con speranza e fiducia, e sarebbe un voto come lo vuole la Costituzione: “personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”.
In attesa di poter votare, un giorno, i migliori, perché ora …  “ha da passà ‘a nuttata”
http://maovalpiana.wordpress.com/2013/02/21/il-voto-e-mio-e-lo-gestisco-io/

giovedì 21 febbraio 2013

VALUTARE E PUNIRE. UNA CRITICA DELLA CULTURA DELLA VALUTAZIONE



Valeria Pinto
Valutare e punire.
Una critica della cultura della valutazione
Cronopio, Napoli 2012, pp. 190
euro 13,00  ISBN 9788889446805
In un’epoca di conformismo gregario travestito da individualismo radical chic, e in un’università, come quella italiana, giunta a sua volta ad uno snodo epocale (ovvero alla definitiva trasformazione in agenzia formativa tra le altre, che vende saperi spendibili su un mercato del lavoro cognitivo ormai tragicamente saturo), Valeria Pinto, che in quest’università insegna come professore associato di filosofia teoretica, ha deciso di prendere posizione – una posizione abbastanza solitaria e quindi scomoda, per non dire paradossale, visto che il suo libro, foucaultiano fin dal titolo e documentato con un’acribia ironicamente coniugata all’impegno teorico, attacca frontalmente la logica della valutazione che ha generato il decreto ministeriale in virtù del quale la stessa Pinto dovrà essere valutata per accedere, o almeno aspirare al ruolo di professore ordinario.
Poiché mi sono formata nella stessa università nella quale si è formata e attualmente insegna Valeria Pinto (la “Federico II” di Napoli), e poiché sono reduce da un’animata discussione intorno a questi temi svoltasi nella sede della casa editrice che l’ha pubblicato (Cronopio), la mia recensione, più che illustrare il contenuto del volume (già ampiamente recensito su quotidiani e riviste) sarà una riflessione su quell’incontro ed anche – in parte – un dialogo con coloro che colà sono intervenuti.
Ciò premesso, il principale merito genealogico di questo libro rischiosamente ‘militante’ ma, come vedremo, assolutamente impolitico, consiste nel mostrare fino a che punto ciò che sembra ormai a molti docenti (universitari e non) qualcosa di assolutamente naturale, apriorico e indiscutibile – la docimologia quantitativa, il sistema dell’istruzione come sistema di servizio per un’utenza e, dulcis in fundo, le famose mediane dell’abilitazione scientifica nazionale – sia in realtà qualcosa di costruito, artificiale, storico, per non dire basso e volgare: allo sguardo illuminante e indocile della critica1, la sacra triade ‘trasparenza, valutazione e merito’ non appare affatto come natura, ma come storia, così come storica e impura è la logica concorrenziale che si è innestata nelle menti dei valutatori.
Come nota Pinto, la valutazione implica i valori nel senso economico, ovvero la valùta, la quantificazione monetaria che è anche normativa, lo standard che però tende ossessivamente al miglioramento continuo e infinito, al perseguimento dell’eccellenza, o, potremmo aggiungere, alla metamorfosi cognitivo-operazionale della formula marxiana D-M-D’. In termini foucaultiani, siamo di fronte al potenziamento performante della disciplina2: normale non è più la risposta media all’addestramento (nelle parole di Canguilhem: normale è il prototipo scolastico come lo stato di salute organico), ma il comportamento di quella che Pinto, con la battuta migliore del libro, definisce la zecca 2.0, ovvero la meccanicità ottusa e in fondo parassitaria del perfezionamento esecutivo nascosta sotto l’assicurazione meramente procedurale della qualità, un po’ come accadeva nei lager nazisti, dove nell’eliminazione dei ‘parassiti’ ebrei si dispiegava la stupidità (più che la banalità) del male: “rigore, disciplina, risultati ripetibili” (p. 121) e sempre perfezionabili (del tipo: quanti ‘pezzi’ sono stati prodotti/eliminati oggi? quanti ne possiamo produrre/eliminare domani per ottimizzare i risultati, cioè per crescere ancora?).
Ironia amara a parte, nello scenario delineato da Pinto ad essere concettualmente fuori gioco è il giudizio (l’Urtheil), che contiene in sé kantianamente il movimento della critica ed è molto più profondo della valutazione quantitativa che la Pinto, appunto, critica: in quanto sovrano, il giudizio è comparativo ma non esercita un potere prestazionale su ciò o su colui che giudica. Si potrebbe dire che, a differenza della valutazione, la quale mira ad ottenere un effetto illimitatamente migliorativo sul (s)oggetto valutato, il giudizio è crudelmente ineffettuale. Da questo punto di vista, alla domanda ‘chi valuta i valutatori?’ Pinto risponde in modo nietzscheano, prospettico, mostrando che nessuno, in effetti, li valuta (che nessun Big Brother ha pianificato la strategia dell’ANVUR e di tutte le agenzie che l’hanno preceduta), ma così facendo li giudica.
Per rincarare la dose di giudizio, aggiungerei che, in termini adorniani3, quella della valutazione non è affatto una cultura, come recita il sottotitolo del volume (non è una Bildung, che non è misurabile e forse neppure valutabile, ma solo, appunto, giudicabile), e non può neppure essere considerata come l’espressione di una civiltà (Kultur), magari della civiltà digitale che ha spodestato la civiltà del libro, quanto piuttosto una pseudo-cultura: la valutazione, direbbe Adorno, è Halbbildung. Non a caso Pinto ricorda che il pensatore francofortese venne attaccato come ‘prescientifico’ da Paul Lazarsfeld e da quella sociologia anglosassone (cfr. pp. 81 e sg.4) che, a partire dagli anni sessanta del novecento, ha fatto diventare “socialmente dominante” (direbbe Adorno) la valutazione come misurazione del sapere. Non si tratta dunque di un totalitarismo culturale (cfr. p. 28), ma pseudo-culturale: la valutazione come analisi ossessiva e pervasiva dei costi e dei benefici applicata all’universo della cultura non è che la forma logica e storicamente prevedibile dell’Halbbildung tardo capitalistica che Adorno aveva visto sorgere già negli anni cinquanta, resa ormai “socialmente dominante” da ciò che lo stesso Adorno definiva integrazione delle masse dietro il velo dell’istruzione, e che Pierre Bourdieu ha definito acculturazione5. Il termine, si badi, non dev’essere inteso in senso gramsciano, cioè come democratica metamorfosi politica, reale emancipazione del popolo attraverso la cultura fornita dalla componente intellettuale del partito, bensì al contrario come riproduzione di habitus mentali conformi alla struttura socio-economica classista dello stato borghese, realizzata attraverso il funzionamento fintamente democratico e meritocratico del sistema dell’istruzione pubblica: in una prospettiva foucaultiana, l’acculturazione capitalistica non è che la diffusione strategica di quei saperi che hanno permesso e permettono di implementare nei futuri lavoratori soggettivazioni ‘di mercato’, soggettivazioni governabili perché autogovernantesi. L’acculturazione è insomma la base disciplinare della biopolitica, lo humus cognitivo dell’homo oeconomicus.
Come nota Pinto nella parte forse più psico-sociologica del libro, i valutatori non debbono avere lo stesso livello di cultura, di conoscenza dei valutandi (cfr. p. 39); semplicemente acculturati, essi devono piuttosto essere macchine da problem solving, cioè devono semplificare (cfr. p. 47), rendicontare e convincere, più che obbligare gli altri (tutti) a rendicontare. Bisogna condividere psichicamente e socialmente le ‘buone pratiche’ (cfr. p. 41): in quanto insegnante di liceo, vorrei far notare a mia volta come quest’espressione assurda sia entrata anche nella scuola (al suo ingresso solo alcuni di noi, insegnanti di filosofia, abbiamo riso); si tratta di un’espressione pastorale (non a caso Pinto sottolinea come nell’università si parli ormai di ‘conversione’ dei giovani studiosi alle buone pratiche di ricerca, quasi fossero dei novizi), di un’espressione ‘calda’, ‘etica’. Il docente di liceo vi si sottomette rassegnato perché la svalutazione sociale di cui è fatto oggetto da almeno quindici anni è direttamente proporzionale all’ossessione valutativa di cui è divenuto soggetto: spera di sfuggire alla prima convertendosi alla seconda, mentre così facendo si auto-svaluta sempre di più dal punto di vista socio-culturale, in una spirale perversa. Ed è stato il sistema dell’educazione nazionale ‘disciplinare’ a creare gli habitus mentali docili che hanno permesso l’inserimento della valutazione nella scuola italiana, in un clima di rassegnata passività e dentro il cavallo di Troia dell’autonomia.
Del resto, chi non si converte alla valutazione, sia nelle scuole che nelle università, è stigmatizzato come reazionario. In uno dei capitoli centrali del libro, Il freddo e il caldo, Pinto denuncia come i criteri che sottostanno alla valutazione siano opachi e indimostrabili – ma non come i postulati di Euclide, che sono intuitivi: sono criteri dogmatici e freddamente economici (sia detto per inciso, quest’oscurità dell’expertising è stata denunciata con largo anticipo da Debord nei suoi Commentari alla società dello spettacolo del 1988) che devono essere perciò ‘riscaldati’ dal ricorso ansiolitico all’assicurazione previsionale (nei termini di Beck, è la gestione del rischio nella Risikogesellschaft; nei termini di Foucault, la cessione di libertà camuffata da tutela della sicurezza), ma anche dalla componente moralistica del merito, la quale catalizza il risentimento degli esclusi, e presenta la valutazione come una necessità di controllo dal basso, di trasparenza, di democrazia, ecc., mentre in realtà non c’è nulla di trasparente e democratico.
In sostanza, come Pinto non manca di notare in alcune pagine straordinariamente documentate del libro, il carattere pseudo-democratico della valutazione è coerente con quello che Deleuze, sulla scorta di Foucault, ha definito come passaggio dalla società disciplinare alla società di controllo, ma anche con la messa fuori gioco della cultura (la Bildung che, in un’immaginaria linea Nietzsche-Adorno-Deleuze, è sempre tragicamente, esteticamente aristocratica). È stato Deleuze a capire che nella società di controllo la logica dell’impresa si sarebbe diffusa come un gas, così come Foucault, nel corso su Nascita della biopolitica, aveva analizzato i processi di soggettivazione imprenditoriali e autovalutativi innescati dalla governamentalità neoliberale: abbandonata la coercizione, il governo delle condotte si doveva attuare mediante la loro autoregolazione, e questa mediante investimenti (prevalentemente educativi e cognitivi) sul capitale umano, per realizzare, sul lungo periodo, la produzione di soggettività conformi al mercato. In tale prospettiva, l’attuale nesso autonomia-valutazione impostosi nel sistema dell’istruzione superiore, la sua economicità e la sua interiorizzazione, non sono che il logico sviluppo di ciò che Foucault e Deleuze avevano intravisto tra la fine degli anni settanta e l’inizio dei novanta. In altre parole, chi studia la biopolitica non può meravigliarsi molto di ciò che sta accadendo oggi nell’università italiana.
Perché dunque gli universitari – soprattutto gli umanisti e in particolare i filosofi, tra cui Valeria Pinto – se ne accorgono soltanto ora? Perché queste letture tardive di Foucault e Bourdieu, come ha accusato lo stesso Andrea Bonaccorsi dell’ANVUR? La risposta, a mio giudizio, non va cercata in Foucault, ma, appunto, in Bourdieu.
Dopo anni di lavoro capillare e sotterraneo, il sistema procedurale e meramente quantitativo di valutazione, autorizzato dal politico, è arrivato ad attaccare sia simbolicamente che soprattutto economicamente il sistema d’istruzione superiore statale: con una logica che sembra vendicativa (più che punitiva) sia a chi la utilizza che a chi la subisce, il nuovo sistema avrebbe smesso di far vivere indisturbato il vecchio nel suo orticello, di fargli giocare il suo gioco di campo, cambiando le sue regole e minando le sue ‘oziose’ poste: ora lo valuta come servizio prestato all’utenza, ovvero, come sostiene Pinto, non lascia più la scienza (e le scienze umane ridotte ad esser tali) libera di autorganizzarsi: “la scienza va lasciata autorganizzarsi sul presupposto della sua naturale fecondità per il progresso economico-sociale […] Con l’entrata in scena dei ‘legittimi portatori di interesse’ e della parola d’ordine value for money (sono soldi pubblici, bisogna renderne conto pubblicamente), si indicano alla ricerca le vie da battere, i rami secchi da tagliare, le relazioni da stringere, i partner da privilegiare, i modelli da assumere” (pp. 33-4).
In realtà, come Bourdieu ha ampiamente dimostrato da sociologo, e non da filosofo, la scienza non è mai stata veramente libera di autorganizzarsi: la sua era una finta libertà, non meno finta e ideologicamente feticizzata di quanto non sia stata, a partire dagli anni sessanta, l’acculturazione democratica e meritocratica promossa dall’istruzione di massa6. Il problema è dunque squisitamente economico politico: dal privilegio non sempre e soltanto borghese della cultura, cioè dal privilegio di un ozio non politicamente libero, non sprecato, perché comunque pagato in denaro (denaro che equivale a una certa quantità di tempo del docente come impiegato statale7), e che tuttavia si vantava di essere indipendente, come sapere, dal campo economico politico del potere, si è passati al privilegio dell’eccellenza quantitativamente ed economicamente misurata dal politico trasformato in contabile. Germinata e nutrita dallo stato nazione, l’università europea moderna (quella, per intenderci, sorta nell’ottocento a partire dal progetto humboldtiano tardo settecentesco) non poteva essere del tutto consapevole di questo movimento, in quanto disconosceva (in termini freudiani) la sua dipendenza economica dal campo politico – il quale veniva da essa culturalmente, quindi simbolicamente legittimato, nella misura in cui lo stato legittimava a sua volta simbolicamente l’università conferendole una superiorità, un’aura, un appeal socio-culturale.
Applichiamo quest’ipotesi di rafforzamento reciproco al mondo accademico italiano. Diciamo che fino agli anni ottanta del secolo scorso lo stato sembrava concedere (non ‘investire’) finanziamenti all’università statale senza chiederne conto, a fondo perduto, in modo apparentemente disinteressato. I due principali partiti di massa (DC e PCI), divisi a livello di governo esecutivo ma sempre più accomunati dalla governamentalità neoliberale, sono riusciti a formare in questo modo un ampio consenso socio-culturale, intorno a quello che Jean-Claude Milner definirebbe il loro rispettivo campo ideologico. Per fare un esempio concreto, con la riforma Ruberti del 1980 gli assistenti sono diventati automaticamente ricercatori, cioè sono entrati ope legis nel sistema universitario a tempo indeterminato e a fondo perduto, senza essere stati quantitativamente ‘valutati’; sono stati piuttosto cooptati, cioè giudicati profondamente conformi al codice culturale e comportamentale accademico. Il denaro con cui venivano pagati doveva ritornare allo stato in forma di riconoscimento simbolico della sua politica culturale, e viceversa: la loro produzione culturale, ancorché scarsa e/o fuori mercato, veniva simbolicamente riconosciuta dallo stato come ‘valida’, più che valutabile. L’università (molto più della scuola) si è crogiolata per almeno un secolo nell’inlusio (nel senso bourdieusiano di coinvolgimento nel gioco di campo) della sua superiorità (della superiorità del suo codice culturale, rispetto all’economia e rispetto alla stessa scuola); questa convinzione si rispecchiava nell’inlusio della sua indipendenza dallo stato, della sua libertà accademica come forma superiore di libertà d’insegnamento (garantita anche nella scuola) che si traduceva spesso (e in entrambe) in disprezzo gentiliano della didattica. In realtà l’università, in quanto pubblica, dipendeva totalmente allo stato, e lo stato la proteggeva economicamente soltanto perché ne traeva una legittimazione simbolica – di cui però oggi non sa più che farsene, poiché, come la stessa Pinto non manca di rilevare sulla scorta di Deleuze e Foucault, siamo passati dallo stato-nazione (prima gentiliano-fascista-autarchico, poi, dopo la II guerra mondiale e la Resistenza, democratico-repubblicano-filoamericano) allo stato azienda-amministratore.
Va notato che questo passaggio, ormai macroscopico, è cominciato microscopicamente negli anni sessanta – gli anni della contestazione – ed ha avuto uno snodo significativo negli anni successivi al ‘68. L’istruzione di massa (si pensi alla riforma della scuola media italiana nel ’62) ha preparato il ’68, mentre il ’68 ha per così dire interpretato politicamente, e quasi feticizzato l’istruzione di massa. Dopo aver abbattuto le soglie classiste della formazione (ad esempio la rigida divisione tra liceo e formazione tecnico-professionale), negli anni settanta-ottanta lo stato-nazione ha dovuto (e ideologicamente voluto) assorbire insegnanti, sia nella scuola che nell’università; ma, al di là delle ricadute positive che questo fenomeno ha avuto in termini di allargamento delle possibilità di accesso alla cultura (sic!), negli anni novanta si è assistito a un fenomeno nuovo che andava ad innestarsi sulla rottura del classico binomio ricerca/insegnamento, sbilanciandolo economicamente a favore di quest’ultimo: all’ombra dello stato-nazione ma anche al di fuori di esso (con la nascita e la crescita delle università private) vi è stata una proliferazione non più solo nepotistica di cattedre, e, non solo nelle università scientifiche (che tuttavia ne rappresentano il terreno ideale), una diffusione dello specialismo più mediocre e auto-referenziale (peraltro già abbastanza diffuso nella vecchia università selettiva). Gli anni novanta e anche i primissimi anni duemila (che hanno visto la nascita della formula 3+2, l’affermazione del sistema dei crediti e la licealizzazione dell'università) sono stati, a giudizio di chi scrive, gli anni della deregulation economico-culturale e (a giudizio di molti altri) della narcosi politica delle accademie, sia nel campo studentesco che, soprattutto, in quello professorale: la cultura (Bildung) universitaria è divenuta sempre più una forma ‘superiore’ di acculturazione (Halbbildung), che riproduceva in forme sempre più semplificate e, se vogliamo, più cafone, gli habitus mentali necessari al mercato. In altri termini, poiché è stata realizzata in una società classista e capitalistica, l’istruzione di massa, dopo aver democraticamente allargato l’accesso al sapere, ha lentamente sedato la protesta politica giovanile nata nel ’68, e innescato suo malgrado la mediocrizzazione dell’università. L’università non è più, come negli anni settanta, un vivaio della sinistra. Ma può ancora essere ancora un vivaio di idee?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo ritornare, cum grano salis, al discorso di Valeria Pinto. Nell’era della globalizzazione lo stato-nazione appare ormai assoggettato al mercato: lo stato, direbbe Foucault, governa per il mercato, e dunque per sopravvivere, o meglio per mimetizzarsi o sovrapporsi senza residui al mercato, deve assoggettargli anche l’università e più in generale la conoscenza, tagliando sia la cultura (che è molto più profonda ma anche più inutile della semplice conoscenza) sia la mediocre deregulation di cui sopra. Ecco che ora lo stato impone un’altra proliferazione, che ricalca la logica dei tagliatori di teste nelle grandi aziende: publish or perish!; la tirannide della produttività e della crescita dilaga anche nel campo accademico.
Non credo come ritiene Pinto, che la fine del bipolarismo est-ovest e la conseguente globalizzazione economica (= il mercato mondiale con niente fuori o in alternativa), abbia avuto un ruolo maggiore di quello della massificazione dell’istruzione, nell’imporre il dispiegamento dei sistemi valutativi: i due processi vanno di pari passo e si coimplicano, poiché l’istruzione di massa ha fatto da base disciplinare e poi biopolitica al mercato, ha cioè favorito in termini marxiani la sussunzione reale della vita e delle relazioni sociali al capitale (ciò che Baudrillard chiamava la culturalizzazione della merce); inoltre il modello ottuso ed efficientista della valutazione, come la stessa Pinto riconosce, era già perfettamente funzionante nell’URSS, e non meraviglia che sia stato così, data la sua origine militare (cfr. il capitolo Logistica del sapere). Del resto Pinto evidenzia seppur implicitamente l’idiozia nascosta nel modello del capitalismo cognitivo, il delirio autoreferenziale del mercato e della concorrenza come forma meramente quantitativa di comparazione: una stupidità di fondo della valutazione che si manifesta ormai nella saturazione dei dispositivi di misurazione e nel fallimento del benchmarking.8
Da questo punto di vista, la vittoria della valutazione è una vittoria apparente, una vittoria di Pirro che deforma in modo quantitativo-operazionale, cioè trasforma in un “gioco formale di diseguaglianze” (Foucault), il carattere comparativo dell’uomo già rilevato da Nietzsche (come ricorda Pinto citando Il viandante e la sua ombra:“l’uomo [Mensch] è colui che misura [messen]”) e da molti altri prima di lui. Ora, non c’è niente di male in questo (senza la capacità di misurare e confrontare saremmo ancora a nutrirci di bacche), ma questa è anche l’origine della moralità come forma pastorale, fintamente superiore, di valutazione dell’altro – come forma perversa di comparazione. Quando infatti l’angoscia della comparazione (inevitabile, poiché non possiamo percepire il valore dell’altro in sé, come invece sembra sostenere Pinto a p. 162, trasformando in una sorta di utopia etica un concetto tratto dall’Epistola XXI di Spinoza e citato a p. 161: solo la comparazione introduce la mancanza – ma noi diveniamo socialmente individui, unici, proprio attraverso la comparazione), quando quest’angoscia, dicevo, diventa insopportabile (perché ci si scopre incapaci di essere ciò che l’altro è), è allora che ci si mette all’ombra di un potere in cui vengono valorizzate e valutate differenze formali, artificiali, per rovesciarla in competizione.9
Qualunque potere-sapere misura e valuta, giudica e sanziona, in particolare nelle sue forme o metamorfosi pastorali. Ma il potere-sapere tardo capitalistico, che non giudica ma valuta soltanto quantitativamente, che misura le differenze economiche e non accetta le differenze reali (quelle che Foucault chiamava qualità morali, ma che in realtà sono qualità amorali), è un potere ottuso: è la metamorfosi più stupida del potere pastorale, che come tale fomenta il risentimento (cfr. pp. 162 e sg.). Per avere un esempio scolastico di questo risentimento, si pensi all’attuale percezione del rapporto sforzo-risultato da parte di molti studenti (anche universitari), che è ormai molto simile al rapporto stimolo-risposta del vecchio comportamentismo skinneriano: se studio dieci ore, devo avere un voto alto (in proporzione numerica, dieci), o un certo numero di crediti; non accetto di essere inferiore a chi studia dieci minuti e va meglio di me. La negazione della differenza reale (che in fondo non è valutabile se non come riconoscimento simbolico di un essere soggettivo), ovvero il risentimento, fa introiettare la valutazione come misurazione quantitativa, oggettiva della performance.
Nel libro di Pinto vi sono alcuni passi direi drammatici sul risentimento, delle estremizzazioni quasi narrative che mostrano molto bene che tipo di squallore comparativo alligna nell’università italiana, ma qui provo a schematizzare. Il sistema universitario tradizionale, baronale, faceva il contrario di quello che vuole fare oggi l’ANVUR, secondo Pinto in senso vendicativo (cfr. p. 171): lasciava entrare molti studiosi mediocri col metodo della cooptazione concorsuale, che giungeva al termine di un logorante servaggio intellettuale e a volte anche esistenziale, psicologico, e che quindi è degradante, ma tra questi passava anche qualche studioso ‘di valore’, a patto che in nome della sua ‘vocazione’ fosse disposto a subire la crudeltà del sistema (cfr. il famoso passo di Weber citato a p. 161), mentre alcuni, ancorché geniali, rimanevano fuori (caso esemplare: Walter Benjamin). Il sistema di valutazione quantitativo della ricerca sembra invece disposto a sacrificare qualche studioso di valore perché non ‘riconosciuto’ dalle mediane, a patto di eliminare molti mediocri improduttivi – e qui fallisce, o fallirà, primo perché per definizione un sistema quantitativo non scova i mediocri ma li aiuta a mimetizzarsi (l’ingiunzione ossessiva a pubblicare non implica automaticamente la capacità di scrivere), secondo perché, ad esempio attraverso la precarizzazione dei ricercatori, non elimina affatto il sistema precedente, semplicemente lo asserve alle sue logiche valutative. Come ha accennato la stessa Pinto in un’intervista, le baronie diventano tecno-baronie, con una pericolosa (e perversa: nessun senso di colpa) ibridazione tra valutazione quantitativa e valutazione tra pari, entrambe anonime e vendicative.
I due sistemi insomma non si escludono affatto, o fingono di scontrarsi: in realtà fanno, o faranno presto sistema tra di loro, troveranno o stanno già trovando il modo di coesistere, ovviamente a discapito della critica, cioè della filosofia e di tutti quegli atteggiamenti intellettuali non specialistici che minano l’operazionalità della pseudo-cultura, che è anch’essa uno specialismo – ma anche a discapito delle decennali glosse a pensatori totalmente irrilevanti nella storia delle idee ma utili a costruire carriere: qui ben venga la mannaia della valutazione. Da questo punto di vista, sono in completo disaccordo con la difesa dello studioso perso nella biblioteca fatta da Pinto a p. 178: non tutti covano il capolavoro mentre perdono tempo. Sono inoltre molto pessimista: oggi lo studioso ‘di valore’ o addirittura il genio invalutabile, sia dentro che fuori dell’università, è sempre più raro. Il sistema degradante si è inevitabilmente degradato. I processi di soggettivazione del tardo capitalismo rendono sempre più difficile la sua formazione, la sua comparsa, e ovviamente la sua affermazione: sempre più spesso chi oggi accetta di passare sotto le forche caudine del tecno-baronaggio non lo fa (più o soltanto) per vocazione, ma per diventare una star accademico-mediatica capace di attrarre finanziamenti.
Forse per questo il libro di Valeria Pinto, come accennavo all’inizio di questa recensione, si annuncia fin dalle prime pagine malinconicamente impolitico: “Non spetta d’ufficio a chi svolge un esercizio di critica presentare soluzioni, individuare …alternative, anzi …finalità oltre la prassi critica medesima” (p. 17). Forse invece bisognerebbe farlo, per rivendicare (anche contro il proprio giustificato pessimismo intellettuale) la dimensione politica del pensiero, e bisognerebbe farlo a partire dalla pratica didattica, che è quella nella quale, in fondo, si insegna la critica. La critica in un certo senso è la soluzione, ma a patto che sia proposta sistematicamente come forma politica di soggettivazione. La responsabilità etica che l’università pubblica si trova oggi a sostenere non riguarda tanto la necessità di continuare a fornire una valutazione qualitativa degli studenti e della stessa ricerca, quanto una possibile ri-politicizzazione dell’insegnamento capace di ridicolizzare, giudicare e quindi distruggere, la valutazione economico-amministrativa del sistema dell’istruzione superiore – pena la sua distruzione, e la distruzione della filosofia come “modo di vivere”.
A mio giudizio l’università italiana, in questo particolare momento storico-politico, non è in grado di farlo, di sostenere questa responsabilità e rilanciare politicamente il nesso insegnamento/ricerca, non solo perché attaccata dall’interno (cioè in modo parassitario) dall’ANVUR, ma perché ormai sempre più veicolo di pseudo-cultura, soprattutto nelle facoltà scientifiche (le uniche che ‘tirano’), cioè colonizzata da acculturati, da specialisti. Il vero rischio, in tale situazione, è che non si creino più concetti – per citare il Deleuze con cui Pinto chiude efficacemente il suo libro. Infatti i concetti non si creano e non esistono mai individualmente, bensì solo comparativamente, a confronto con i concetti altrui – come le differenze. In altre parole, i concetti si devono non solo creare, ma anche insegnare, e con ciò insegnare a crearli. È forse questo l’unico compito paradossale, e politico, rimasto alla filosofia.
Note con rimando automatico al testo
1 M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, forse il principale riferimento teorico del libro insieme a Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-79, Feltrinelli, Milano 2005.

2 Come notava Pierandrea Amato nella succitata discussione sul volume di Pinto, nel codice valutativo elaborato dall’ANVUR ciò ha portato, o sta portando ad un devastante irrigidimento delle soglie disciplinari, peraltro già molto marcato nell’università italiana: vietato ibridare tra settori disciplinari diversi, pena la invalutabilità del ‘prodotto’.

3 T.W. Adorno, Teoria dell’Halbbildung, il nuovo melangolo, Genova 2010.

4 Una sociologia ironicamente ‘quantistica’ e non quantitativa, visto che la meccanica quantistica ha portato l’aleatorietà nel mondo della fisica e più in generale nel mondo delle cosiddette scienze dure.

5 P. Bourdieu, La riproduzione. Per una teoria dei sistemi di insegnamento, Guaraldi, Bologna 2006. Questo, come altri testi capitali di Bourdieu sulla riflessività applicata al campo o, in termini foucaultani, al pastorato accademico (penso a Homo academicus, Meditazioni pascaliane, ecc.), non vengono utilizzati da Pinto, che si limita a citare Il mestiere di scienziato. Corso al Collège de France 2000-2001, Feltrinelli, Milano 2003.

6 Su ciò cfr. sempre P. Bourdieu, La riproduzione, cit.

7 Su ciò cfr. (indicazione di Bruno Moroncini) J.-C. Milner, Le Salaire de l’idéal, Le Seuil, Paris 1997. Sia detto en passant: questo filosofo ebreo francese di origini lituane, althusseriano e lacaniano, ha (giustamente) accusato Chomsky di essere un pensatore ideologico e naif, ma nel 2007 avrebbe definito I delfini (1964; trad. it. Guaraldi, Bologna 2006) un libro antisemita; ebbene, sfido chiunque a leggere il libro di P. Bourdieu e J.-C. Passeron e a giudicarlo antisemita.

8 Si potrebbe addirittura sostenere che questo tipo di mentalità sia in parte responsabile dell’attuale crisi economica, poiché è chiaro che i modelli autoavverantisi di gestione del rischio sono saltati, o stanno saltando, si stanno rivelando sempre più fallaci quando e perché applicati allo stesso capitalismo, che si autovaluta ossessivamente.

9 Su ciò mi permetto di rimandare al mio Il potere della comparazione. Un gioco sociologico, Mimesis, Milano-Udine 2012.
http://www.kainos-portale.com/index.php/recensioni-portale/280-valutare-e-punire


Recensione di Emanuela de Conciliis
(in precedenza era 'saltata' la citazione)

martedì 19 febbraio 2013

"PER IL CAMBIAMENTO" APPELLO AL VOTO DEGLI INTELLETTUALI (con una postilla mia)

"PER IL CAMBIAMENTO" appello al voto degli intelettuali.


Siamo alle ultime battute di una campagna elettorale confusa, rissosa, e da parte di taluni estremamente menzognera. Due scenari inquietanti si profilano come possibili dall'esito del voto: o un caos ingovernabile; o il ritorno al potere di uomini e di forze che negli anni passati hanno già portato il Paese verso la catastrofe.
Per evitare tutto questo, l'unica strada è votare la coalizione di centro-sinistra, assicurandole l'autosufficienza, che le consentirebbe di mettere in piedi un Governo stabile, autorevole, rispettabile a livello europeo, in grado di gestire al meglio politiche e alleanze.
L'Italia ha un disperato bisogno di trasparenza politica e di giustizia sociale: se nei prossimi cinque anni non saremo in grado di restituire dignità alle istituzioni, rispetto per la politica, fiducia nei partiti, strategie di sviluppo e insieme un colossale mutamento di rotta nei confronti delle classi lavoratrici e dei ceti disagiati, ci ritroveremo, come altre nazioni europee, nel baratro.
Questo è vero per l'intero territorio nazionale. Ancor più vero in quelle regioni "a rischio" (dalla Lombardia alla Sicilia), dove poche decine di migliaia di voti possono fare la differenza tra un nuovo inizio e una pessima fine.
Ogni voto è perciò prezioso a questo scopo: chiediamo all'opinione pubblica e agli elettori di scegliere come una ragione responsabile spinge inequivocabilmente a fare. E chiediamo ai cittadini che lo condividano a sottoscrivere e promuovere questo appello.

Primi firmatari - Umberto Eco, Stefano Rodotà. Gustavo Zagrebelsky, Claudio Magris, Alberto Asor Rosa, Andrea Camilleri, Tullio Di Mauro, Barbara Spinelli, Nadia Urbinati, Guido Rossi, Natalia Aspesi, Giorgio Parisi, Vittorio Gregotti, Alberto Melloni, Sandra Bonsanti, Luigi Ferrajoli, Filippo Gentiloni, Piero Bevilacqua.

Postilla mia
Cari amici intellettuali,
finora mi sono ben guardato dal commentare la campagna elettorale. Un po' per la stanchezza psicofisica che mi attanaglia, un po' per la lontananza che provo verso le forze politiche in gioco. Sia chiaro, non sogno certo  un ritorno di Berlusconi e dei suoi amici (e men che meno, degli amici degli amici). Il problema è che i 'competitor' sono espressioni di una stessa visione del mondo: sono, in sostanza, liberali e liberisti, di destra, di centro e di 'sinistra'.
Non solo: gli schieramenti sono concordi nel finanziare le missioni di 'pace' (?): paradigmatica è stata la vicenda degli F35. Sono stati commissionati alla Lockeed (i più anziano se la ricorderanno...) dal Governo D'Alema, confermati dal Governo Berlusconi e dal suo successore Monti. Bersani solo recentemente si è convertito al taglio della spesa (convertendosi sulla via...delle elezioni visto che quella di Damasco è un po' impraticabile).
Chi difende, per farla breve, gli interessi dei ceti meno abbienti? chi difende il futuro dei giovani? chi si preoccupa della Sanità e/o della Scuola Pubblica? Chi chiede, per tornare al discorso di prima, il taglio delle spese militari? Del resto, che ce ne facciamo dell'esercito? A che serve?
Probabilmente voterò SEL, ma è una scelta controvoglia e messa in atto con un po' di riluttanza e di disincanto. Anche perchè è il compare di Bersani...Del resto, Grillo mi fa senso (politicamente parlando, ovviamente!); Ingroia e la sua rivoluzione civile non mi convince. Rimane ilPartito Comunista dei Lavoratori. Conosco Marco Ferrando da un sacco di tempo: una volta mi ha candidato al Consiglio Comunale di Savona per la lista di Democrazia Proletaria. Ho preso 1 (uno) voti: non il mio perchè ero residente in un comune vicino. Sono anni che chiedo chi mi abbia votato e l'interlocutore di turno mi dice "Votare per te? Figurati!" Comunque, l'ho ascoltato su Rainews quando sulla RAI imperversava il Festival di San Remo. Se non avessi saputo che ha militato per anni nella IV Internazionale, sembrava un esponente della III Internazionale...in ritardo di 90 anni! Stesso linguaggio, setsse ricette, stesse analisi. Che tristezza!

lunedì 11 febbraio 2013

BENEDETTO XVI E CELESTINO V


Papa Benedetto XVI si è dimesso. Non è un fatto che accada tutti i giorni! Prima di lui, 700 anni or sono, si era dimesso Celestino V, il papa del gran rifiuto. Chi era Celestino? La sua figura si delinea sullo sfondo della Chiesa del suo tempo, delle lotte intestine tra chi vede la fede come scelta di vita e di povertà evangelica e chi la vede come strumento di ricchezza e potere. C’è un bel libro su Celestino, ed è stato scritto da Ignazio Silone (edito da Mondadori).
La citazione che segue  è tratta da questo testo. È  un discorso del (suo) papa Celestino V ai predicatori napoletani adunati nella sua residenza provvisoria in Castelvecchio presso il Molo a Napoli. Celestino non ha mai messo piede a Roma: Ubi papa est ibi Roma ha sentenziato il Cardinal Caetani, suo avversario, persecutore e, infine, successore col nome di Benedetto VIII. Per una migliore comprensione del brano, occorre ricordare che Pietro Angelerio (nome di Celestino prima di essere eletto papa) ha una formazione intellettuale che lo stesso Silone definisce «piuttosto rudimentale», essendosi formato per tre anni presso la badia molisana di Faìfoli dove apprende il latino della liturgia e dei libri sacri In quest’occasione, Silone fa dire al papa:

 “Diletti figli, anche quelli di voi che ancora non mi conoscono di persona, sanno che non debbono aspettarsi da me una lezione di oratoria sacra. So che un’arte simile esiste, con regole e modelli; ma, ve lo confesso umilmente, io non l’ ho studiata, mentre ho sentito dire che alcuni di voi sono in essa espertissimi e addirittura celebri. Tenete anche conto che per molti anni ho fatto vita eremitica, che è un genere di vita in cui si parla poco. Mi intratterrò dunque con voi alla buona, da padre a figlio, e in anticipo vi chiedo scusa se sarò noioso, come spesso lo è il padre che parla a figli più istruiti di lui. Mi limiterò pertanto a due sole raccomandazioni. Devo anzitutto dirvi che nel predicare, se vi è possibile, cercate di essere semplici. Ah, so bene che non è facile parlare con semplicità. Per riuscirvi sarebbe necessario, questo va da sé, di essere interiormente semplici, e la vera semplicità è una conquista assai difficile. L’intera esistenza d’un cristiano, si può dire, ha appunto questo scopo: diventare semplici. Ma se la semplicità non è ancora per qualcuno di voi un dono meritato, egli faccia almeno lo sforzo di ottenerla nel modo di esprimersi. Dunque, vi supplico paternamente di adoperare nelle vostre prediche parole che tutti capiscano. La parola di Dio si rivolge a ogni creatura e in particolare alle più umili. A quelli, cui il parlare semplice riuscisse più difficile, posso consigliare un espediente. Ognuno di voi, immagino, ha relazione con qualche persona incolta, un uomo di fatica, che conosce appena il proprio mestiere e nient’altro. Ebbene, prima di profferirla in pubblico, recitate a lui, privatamente, la vostra predica e sopprimete ogni parola che lui non capisca. La mia seconda avvertenza è più importante. C’è un proverbio che dice: bada a quello che il prete dice e non a quello che il prete fa. Probabilmente è un proverbio inventato, proprio per comodo, da qualche predicatore. Ma vi assicuro che il popolo cristiano la pensa e giudica il contrario e, a mio avviso, esso ha perfettamente ragione. Esso bada di più a quello che i preti o i frati fanno che a quelli che essi dicono. Il cristianesimo infatti non è un modo di dire, ma un modo di vivere. E non si può decentemente predicare il cristianesimo agli altri, se non si vive da cristiani. Questa è dunque la mia paterna avvertenza; predicatori miei cari, volete essere creduti? Cercate di essere dei buoni cristiani, fate il bene e fatelo di cuore. Non lo fate per furberia, non per tornaconto, non per essere popolari, non per far carriera. Fate il bene gratuitamente e non raccontatelo a nessuno. Tanto più che Dio in ogni caso vi vede e vi ricompenserà, se non in questo, nell’altro mondo. Ma anche se Dio non vi badasse o trovasse la vostra virtù del tutto naturale –ci vuole una grande presunzione ad esigere che Dio si occupi di ognuno di noi- anche allora fare il bene è una buona cosa, ed è una bella cosa. Francamente, che c’è di più bello? Mi pare di avervi detto quello che volevo, vi ringrazio di avermi ascoltato e vi benedico (Ignazio Silone, L’avventura di un povero cristiano, pp. 99-100).

Poco prima, lo stesso Silone aveva scritto:
“Se l’utopia non si è spenta, né in religione, né in politica, è perché essa risponde a un bisogno profondamente radicato nell’uomo. Vi è nella coscienza dell’uomo un’inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare. La storia dell’utopia è perciò la storia di una sempre delusa speranza, ma di una speranza tenace. Nessuna critica razionale può sradicarla, ed è importante saperla riconoscere anche sotto connotati diversi” (p. 35).


sabato 9 febbraio 2013

LE PROMESSE DI SILVIO BERLUSCONI: SCOOP PER QUESTO BLOG!

Fonti bene informate mi dicono che abbia creato sconcerto in Vaticano la notizia che Silvio Berlusconi, ai margini di un comizio, abbia dichiarato che, se eletto, concederà l'indulgenza plenaria. Prima di tutto a se stesso, dopo agli amici, e soprattutto alle amiche. Senza dimenticare gli elettori.

"Il popolo vuole una nuova rivoluzione!ì". La Tunisia dopo l'assassinio di Belaid


di Annamaria Rivera

Come quasi sempre allorché si tratta di paesi a maggioranza arabofona, i media italiani si distinguono, con alcune eccezioni, per sciatteria e ignoranza. Queste li hanno contraddistinti anche in occasione dell’assassinio politico di Chokri Belaid, avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani, dirigente politico senza peli sulla lingua, figura carismatica dell’opposizione tunisina di sinistra. 

Grazie a una velina passata da chissà chi, il 6 febbraio, come un sol uomo, i quotidiani mainstream, dal Corriere della Sera alla Repubblica, passando per l’Huffington Post e altri, hanno descritto Belaid come esponente politico di Nida Tounes: cioè del partito neo-bourguibista fondato da Beji Caid Essebsi, tre volte ministro e poi presidente della Camera ai tempi di Bourguiba, infine capo del secondo governo transitorio post-rivoluzione. Nell’edizione online dello stesso 6 febbraio La Repubblica ha definito Belaid non solo come massimo esponente di Nida Tounes ma anche, e nel contempo, come leader di un partito inesistente, il “Partito unificato democratico nazionalista”. Ancor più sublime Il Corriere della Sera che, senza alcuna rettifica esplicita, nell’edizione del giorno dopo si limita a spostare l’etichetta “Nida Tounes” dalla vittima al suo presunto carnefice.

Chi scrive ha avuto l’onore di conoscere Chokri Belaid il 24 aprile 2011, nel Palazzo dei congressi di Tunisi. Vi si svolgeva l’assemblea che avrebbe sancito l’unificazione tra due formazioni che si definiscono marxiste-leniniste e panarabiste, nate dalle lotte degli anni ’70, soprattutto nelle università: l’Mpd (Movimento dei patrioti democratici) e il Ptpdt (Partito del lavoro, patriottico e democratico). Da questa fusione è nato il Partito dei patrioti democratici unificato, del quale Belaid era segretario generale, partito che poi ha aderito al Fronte popolare (Al Jabha Chaâbia), una coalizione fra partiti di estrema sinistra comparabile alla greca Syriza.

Forse l’attribuzione di Belaid a Nida Tounes è stata dettata dal desiderio inconscio di annacquare la biografia di questo “martire”, occultare la sinistra radicale d’ispirazione marxista cui egli apparteneva, nascondere che è anche grazie a essa che oggi il pericoloso impasse istituzionale tunisino ha ricevuto una scossa e le masse popolari – insieme con “la società civile” – sono tornate a riprendersi le piazze da protagoniste. Quali siano i loro sentimenti e aspirazioni è ben mostrato da uno degli slogan gridati nel corso delle manifestazioni spontanee che hanno percorso quasi l’intero paese subito dopo la morte di Belaid: “Il popolo vuole una nuova rivoluzione”. 

E’ vero: una seconda rivoluzione sarebbe necessaria. Infatti, non potrebbe essere più profonda la frattura tra il paese ufficiale e quello reale: soprattutto il paese delle masse diseredate e abbandonate al loro destino di emarginazione, disoccupazione, precarietà, povertà, assenza di protezione sociale. Su questo versante, a due anni di distanza, niente è cambiato dopo la rivoluzione del 14 gennaio. Per meglio dire, i già gravi problemi economici e sociali e le profonde disparità regionali si sono inaspriti con la fuga degli imprenditori e dei capitali esteri, il crollo del turismo, l’aumento vertiginoso della disoccupazione e del costo della vita, l’inerzia e l’insipienza dei governi provvisori, soprattutto dell’ultimo. 

Anche sul piano degli apparati giudiziario e repressivo i cambiamenti sono meno che esigui. Basta considerare i numerosi processi per reati di opinione, talvolta finiti con condanne assai pesanti, nonché la violenza e l’arbitrio che guidano la repressione poliziesca delle manifestazioni e soprattutto delle rivolte spontanee: queste ultime, un dato endemico e irriducibile del panorama sociale tunisino. Usando le parole di Fausto Giudice, piccolo editore a Tunisi e attento osservatore, potremmo azzardarci a dire, in sintesi, che è ancora in piedi il vero potere, cioè “la mafia affaristico-burocratico-poliziesca” del regime benalista, “alcuni pilastri del quale si son fatti crescere la barba”. A loro volta, i “pilastri con la barba” e i loro servitori – salafiti jihadisti e predicatori wahabiti ingrassati a forza di petrodollari – hanno potuto godere finora dell’indulgenza di una parte di Ennhadha, il partito islamista “moderato” che domina la coalizione governativa attuale. Si aggiunga che i nuovi esponenti delle istituzioni non hanno la forza e la capacità di sottrarsi alle ingiunzioni dei potenti organismi internazionali che dettano le regole dell’economia neoliberista, e non solo di essa. 

Per complicità, omissione o insipienza, Ennhadha finito per favorire l’escalation di violenza politica culminata con l’assassinio di Chokri Belaid, probabilmente compiuto da sicari di professione. A denunciarla a più riprese, ad additarne la pericolosità rispetto alla sorte della transizione, era stato lo stesso Belaid. Il quale, non certo per doti profetiche bensì per lungimiranza politica, aveva previsto perfettamente l’impennata drammatica che avrebbe avuto il ciclo di attacchi premeditati a esponenti e sedi dell’opposizione. 

Una tappa di questa escalation era stata l’assassinio di un dirigente locale di Nida Tounes: il 18 ottobre scorso, a Tataouine, Lotfi Naqdh era stato linciato a morte a colpi di spranga e di martello dalle famigerate “Leghe di protezione della rivoluzione”, milizie armate al servizio di Ennahdha (o di una sua fazione). Quanto alle tappe più recenti, i primi giorni di questo febbraio avevano registrato ben sei aggressioni in 48 ore, tutte compiute dalle medesime milizie, spalleggiate talvolta da gruppi di salafiti jihadisti. A questo triste computo dovrebbero aggiungersi le aggressioni ai giornalisti: per dire solo dell’ultima, il 2 febbraio scorso Nabil Hajri, dell’emittente Zitouna Tv, era stato ferito gravemente a colpi d’arma bianca. Temiamo che il catalogo funesto non si chiuda con la morte di Belaid: l’Ugtt, la principale centrale sindacale, ha informato che da due giorni riceve minacce di morte contro Hocine Abassi, il segretario generale, e suo figlio. 

La vasta e possente risposta popolare all’assassinio di Belaid ha reso possibile all’opposizione di sinistra di proporre il ritiro dei propri rappresentanti dall’Assemblea costituzionale, chiedere le dimissioni del governo provvisorio guidato da Hamadi Jebali, prospettare lo sciopero generale per il giorno dei funerali della vittima illustre: appello accolto dal resto dell’opposizione e, cosa assai rilevante, dalla stessa Ugtt. Jebali ha risposto subito proponendo un governo di tecnici che guidi il periodo di transizione fino alle elezioni, ma non è affatto scontato che il suo partito lo appoggi unanimemente. Abdelhamid Jelassi, vice-presidente e portavoce di Ennahdha, ha già dichiarato che il partito disapprova. 

Dato il quadro appena tracciato, azzardata è ogni previsione, infondati sono sia l’ottimismo ingenuo di certi commentatori tunisini che gridano alla vittoria della piazza e alla svolta politica, sia il pessimismo interessato dei profeti di sventura occidentali che evocano la guerra civile. L’unica cosa certa è che le strade e le piazze tunisine continueranno a risuonare degli slogan di folle di manifestanti che chiedono pane e lavoro, libertà e giustizia sociale, uguaglianza e dignità. A farli tacere non servirà intensificare i lanci di granate asfissianti e pallettoni da caccia. 

P.S. Domenica 10 febbraio, dalle 10 alle 14, si svolgerà a Roma un sit-in davanti all’Ambasciata tunisina (via Asmara 7), per stigmatizzare l’assassinio di Chokri Belaid e solidarizzare con i suoi familiari e compagni, e con i manifestanti tunisini. 

(7 febbraio 2013)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/%E2%80%9Cil-popolo-vuole-una-nuova-rivoluzione%E2%80%9D-la-tunisia-dopo-l%E2%80%99assassinio-di-belaid/