Riporto integralmente una mail di edscuola inerente un articolo su don Milani. Trovo il testo molto interessante e condivido appieno quanto scrive Enzo Mazzi.
Mi permetto di sottoporre alla vostra attenzione, l'articolo uscito domenica sul Manifesto, scritto da Enzo Mazzi, ex parroco dellacomunità dell’Isolotto di Firenze negli anni '60.
É un tentativo di riportare Don Milani nel suo contesto storico, contro ogni uso e abuso della sua lezione, al fine di poterla riprendere e proseguire.
É anche un ricordo personale di un momento di per sé irripetibile ma che in forme nuove, con nuovi soggetti (inuovi poveri, i nuovi sfruttati) potrebbe ritrovare vigore e slancio,se ci fosse una chiara coscienza della posta in gioco, del ruolo edella funzione della scuola pubblica, contro gli interessi del“riformismo da allevamento”, come lo chiama Mazzi, che invece sta cercando di affondarla.
Un caro saluto.
Marino.
La figura del sacerdote di Barbiana è messa sull'altare per ridurlo a un innocuo feticcio, un mito per tutte le stagioni. Ricordare Don Milani a quarant’ anni dalla sua morte vuol dire fare i conti con il contesto nel quale operò. E registrare i cambiamenti avvenuti per rinnovare la sua esperienza di Enzo Mazzi
C'è una affermazione che racchiude credo il senso della vita di don Milani: "Il mondo ingiusto l'hanno da raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l'avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato ascuola". È una frase problematica, letta oggi. Perché i poveri hanno avuto ed hanno la scuola. Ma il mondo non sembra che sia stato raddrizzato. Guardando però quella frase come paradigma ideale della grande transizione storica della nostra epoca, essa racchiude il progetto, la positiva presunzione di Barbiana: vivere la crisi della società arcaica e la caduta di secolari barriere per soddisfare l'altrettanto secolare sete di protagonismo, anzi di sovranità delle classi popolari; e in secondo luogo far propri gli strumenti offerti dalla società moderna, cioè la diffusione delle conoscenze e del senso critico, giungendo a usare tali strumenti contro lo stesso progetto di trasformazione delle classi dominanti. Un unico filo lega fra loro tutte le altre esperienze di quel laboratorio culturale, ecclesiale, sociale e politico che si èsviluppato nella Firenze degli anni '50-'70: vivere la grande transizione storica facendo spazio ai valori di giustizia, solidarietà, protagonismo e partecipazione di cui, seppur con grandi contraddizioni, erano portatrici le classi popolari. Le cose non sono andate secondo le aspettative di quel paradigma ideale che ci animava. Ma non sarà che a quello stesso paradigma si dovrà ritornare come unica risorsa per risalire dall'orrido baratro in cui stiamo scivolando? Esplorare l'ignoto. Quando, nell'immediato dopoguerra, studiavamo teologia nel Seminario fiorentino, la nostra ansia culturale e intellettuale, la tensione morale e la ricerca di fede erano tutte protese a uscire dalla prigione della sintesi sacrale del medioevo, evitando però l'abbraccio mortifero di una modernità che aveva sì riaperto lo spazio dell'autonomia e della libertà ma, per estrema contraddizione, aveva anche sottomesso il mondo al clima di terrore della guerra totale. La cupola del tempio, imponente utero materno, non racchiudeva più i cuori e le menti di alcuni giovani seminaristi. Avevamo bisogno di volare alto. Ma la cupola di fuoco della bomba si presentava come un approdo altrettanto oppressivo. Fra questi poli, simbolicamente espressi dalle due cupole, nasceva una appassionata ricerca di sintesi nuove, di percorsi creativi, di tentativi inediti. Eravamo ingenui, ma non stupidi; idealisti, ma non privi di quel realismo autentico che è la dote di chi non ha altra scelta che tentare l'inesplorato. Non sapevamo che il mondo operaio e contadino era agli sgoccioli. Ma non eravamo neppure in attesa della sua messianica vittoria. Ci premeva l'affermazione e la penetrazione dei valori umani ed evangelici dei poveri nella società e nella Chiesa. Quei valori, fra l'altro, che alcuni di noi, provenienti da famiglie proletarie di sinistra, avevano succhiato col latte materno e che poi entrando in seminario avevano abbandonato non senza un senso di rottura e quasi di tradimento. Ora si trattava di immergersi di nuovo in quella realtà dalla quale si proveniva. Non era il caso di don Milani che proveniva da una famiglia alto borghese e che nell'intimo sentiva il bisogno di una specie di lavacro. Con un tale desiderio di incarnazione nel «mondo dei poveri», uno dopo l'altro uscimmo di seminario. Ci trovammo immersi in un crogiolo che andava ben oltre la nostra immaginazione e i nostri progetti. Si preparava la metafora di uno di quei magici tempi della evoluzione della specie in cui nasce un essere nuovo: una rivoluzione copernicana. Ci accorgemmo ben presto, già alle prime esperienze di pratica pastorale, che non si trattava solo di una questione di preti, di Chiesa o di Vangelo. La società intera era investita da una trasformazione profonda e ambigua. Proprio per questo però l'opportunità che si apriva per il Vangelo e per la Chiesa era di incalcolabile valore. Bisognava scommettere la vita intera e la stessa fede. È quello che tentammo di fare, giovanissimi preti, chi in fabbrica, chi nelle parrocchie, perseguendo esperienze che insieme a tante altre analoghe avrebbero preparato e alimentato la rivoluzione copernicana del Concilio e la rivoluzione culturale e sociale del '68.
Isolare don Milani da questo contesto non serve a lui e non serve alla storia. In particolare chi ha amore alla scuola e cerca e sperimenta la fatica di percorsi innovativi non ha bisogno di miti. Quanto piuttosto, io credo, di annodare i fili di tante esperienze, individuando, anche nella scuola di Barbiana, le costanti o gli orientamenti di fondo di un processo di emersione e di riscatto delle culture negate. O la scuola infatti si porrà come fondamentale l'obbiettivo di levatrice dell'intreccio fra le culture che finora non hanno avuto accesso alla visibilità o sbatterà la testa contro l'impotenza di un riformismo da allevamento. Barbiana in questo è preziosa; purché non se faccia unquadretto da «presepio di Greccio». I poveri oggi hanno la parola e restano poveri. Molti immigrati che puliscono le nostre fogne sono laureati. Essi non hanno bisogno di maestri. Barbiana a loro non serve come esempio di scuola ma come esperimento di comunità oltre i confini. Dunque don Milani è stato smentito? Se si isola e si mitizza il messaggio della persona, direi di sì. E qui ritorna il tema della comunità oltre i confini. È vero che don Milani era lontano dall'esperienza delle comunità di base e dalla stessa riforma conciliare. Lui diceva infatti: «la religione consiste solo nell'osservare i dieci comandamenti e confessarsi presto quando non si sono osservati. Tutto il resto o sono balle o appartiene a un livello che non è per me e che certo non serve ai poveri». Non l'abbiamo mai avuto vicino quando alimentavamo, ispiravamo e sostenevamo la battaglia dei padri conciliari, tipo il cardinale Lercaro o dom Franzoni, per la Chiesa povera e dei poveri e per la Chiesa-comunità di comunità aperta e in cammino. Questo significa che lui non ha dato il suo contributo? Ma niente affatto. Se lo si stacca dal contesto può anche essere. Ma collocato dentro il processo storico don Milani ha dato sostegno a tanti come me nella nostra esperienza e nella stessa lotta per l'attuazione del Concilio. Barbiana non èun'esperienza conciliare nella forma e nelle intenzioni, ma lo è nella sostanza. É per questo che io sento vivo Lorenzo, lo sento attuale, perché è vivo e attuale il processo storico di umanizzazione sociale dal basso al quale egli ha dato il suo prezioso contributo.E qui vorrei spendere ancora una parola di critica verso la mitizzazione del personaggio. Non ci serve anzi è di ostacolo il mito don Milani che si sta affermando. Centrare tutta la luce sulla sua persona oscura ancora una volta i poveri, la gente umile. Milani, Milani, sia pure, ma dove sono finiti i contadini, le contadine e gli operai che mezzo secolo fa animavano ancora i monti del Mugello, insignificanti formiche per la cultura borghese, in realtà per noi grandi personalità della cultura popolare? Ne ho conosciuti diversi e mi sono rimasti nell'anima e nella mente. Un fiore all'occhiello. Ho proposto agli amministratori di alcuni comuni del Mugello, che fanno convegni, ricerche, pubblicazioni su don Milani, di fare una ricerca sulla cultura popolare e i suoi personaggi prima dell'inurbamento. Non ci sentono. Milani è un fiore all'occhiello da sfruttare per far cassa? Non bisognerebbe mai dimenticare quanto egli scrive all'amico Giorgio Pecorini come in un testamento in una delle sue ultime lettere:«Ma devi fare qualcosa per me. Prima di tutto perché è vero quello che ti dico cioè che il lavoro è tutto dei ragazzi... Non voglio morire signore cioè autore di un libro, ma con la gioia che qualcuno ha capito che per scrivere non occorre né genio né personalità ... Così la classe operaia saprà scrivere meglio di quella borghese. É per questo che io ho speso la mia vita e non per farmi incensare dai borghesi come uno di loro». Mettiamo via gli incensieri!
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