Pagine

domenica 15 maggio 2011

L'incontro tra culture, l'Occidente, l'Islam, gli ebrei

di Giorgio Gomel, Lettera internazionale, n.3/4 2002
1. L'incontro interculturale
L’incontro tra culture e "diversità" è problematico in quanto impone a individui e gruppi di ripensare la definizione di sé, l’identità. L’identità umana si forma come intersezione di molteplici riferimenti o appartenenze collettive. All’ossessione della differenza e delle gerarchie fra identità, propria di atteggiamenti razzisti, non bisogna però opporre il mito di un’uguaglianza astratta fra gli uomini, perché le differenze esistono ed à il confronto fra di esse a generare progresso. Occorre evitare "l’avvento di un mondo in cui le culture, animate da una passione reciproca, non aspirassero ad altro che a celebrarsi l’un l’altra, in una confusione in cui ciascuna di esse perderebbe il fascino che avrebbe potuto esercitare sulle altre, e la propria ragione di esistere"(1).
La tolleranza dell’altro, come principio su cui fondare le relazioni umane, poggia sulla capacità di affermare la propria identità e nello stesso tempo di riconoscere nell’altro le differenze e un uguale diritto di affermazione. L’identità non va però affermata in modo esclusivistico, etnocentrico. L’individuo o il gruppo devono essere disposti a mettere in dubbio i propri riferimenti culturali ponendoli in rapporto e anche in conflitto con quelli dell’altro. Nella storia dell’Occidente troppo spesso concezioni falsamente universalistiche, totalizzanti – di matrice cristiana, illuministica o marxista – hanno negato le differenze, "rifiutando come residuo o reazione al progresso o alla redenzione ogni specificità culturale altrui. Gli universalismi hanno agito come forza di assimilazione e omologazione a un modello dominante, come a voler recidere alle radici le identità storiche collettive"(2).
In generale non ritengo che vi siano ricette facili per lo sviluppo di società multiculturali. Pensare che il conflitto tra culture possa essere soppresso è illusorio, ma trovare gli antidoti perché le relazioni interculturali siano sì dialettiche, ma non di dominio non è possibile, se non si abbandona la vecchia prassi per cui la cultura minoritaria è chiamata ad assimilarsi a quella egemone. 2. La Diaspora ebraica e Israele
La condizione degli ebrei della Diaspora, in quanto popolo disperso fra le genti, è stata quella di una minoranza che, sulla base di un’identità sedimentatasi fondendo elementi di religione, cultura, appartenenza comune, ha interagito strettamente con le società nelle quali si è storicamente inserita.
Tale rapporto con le culture circostanti è stato voluto nella forma di comunità, in cui gli ebrei si aggregavano, non solo come spazio offerto all’individuo. Oggi la condizione ebraica nel mondo è cambiata. Con la nascita dello stato di Israele gli ebrei hanno ritrovato una dimensione politico-statuale, dopo due millenni di esilio senza una terra né uno stato.
La storia del popolo ebraico è stata segnata dall’utopia di fondare una civiltà senza stato: un popolo disperso fra gli altri, in una successione di persecuzioni, esili, ma anche di feconde interazioni culturali. Ma dopo l’orrore del nazismo esso ha dovuto assimilare gli strumenti del potere statuale, la politica, la forza delle armi. Ha esercitato il suo "diritto al ritorno" nella terra di Israele molto tardi, dopo grandi esitazioni e laceranti fratture al suo interno fra sionisti, non sionisti e antisionisti, e si è risolto ad edificare uno stato sovrano solo nel pieno della catastrofe immane del genocidio.
Osserva acutamente Amos Oz: "Sarei lieto di vivere in un mondo nel quale coesistono civiltà che si sviluppano ognuna con il suo ritmo interiore, fecondandosi a vicenda – ma nessuno stato nazionale: né emblema, né passaporto, né inno nazionale. Ma il popolo ebraico ha già inscenato questo spettacolo, da solo e a lungo.. Ma nessuno si è azzardato a imitare questo modello, che gli ebrei sono stati costretti a tener in vita per duemila anni – un modello di nazione senza gli strumenti del potere. Questo dramma è terminato con lo sterminio degli ebrei d’Europa da parte di Hitler. E così sono costretto a giocare anch’io il gioco degli Stati con tutti gli attributi connessi ..e anche giocare alla guerra, se questa è assolutamente necessaria alla mia sopravvivenza" (3).
Si è così realizzato almeno in parte l’obiettivo storico del sionismo sorto appena un secolo fa come movimento di emancipazione nazionale degli ebrei: un luogo, nella terra di Israele, o piuttosto su una frazione di essa, secondo l’idea della spartizione di Eretz Israel o della Palestina, (ovvero, nel moderno lessico della politica e delle risoluzioni delle Nazioni Unite, di "due popoli, due stati"), dove gli ebrei fossero maggioranza, potessero vivere in pace e sicurezza, fossero un popolo "normale". Tale aspirazione si è attuata solo in parte, in quanto la normalità della pace, della sicurezza, dell’integrazione nella regione è ancora lontana.
Come gli eventi di ogni giorno ricordano dolorosamente, uno stato ebraico non significa di per sé sicurezza fisica per i suoi abitanti né la rimozione della condizione ebraica di precarietà e angoscia. Anzi il diritto di Israele a esistere come stato accettato nella sua integrità e sicurezza nel Medio Oriente è oggi messo in forse. Lo è nei fatti, per il pericolo che incombe ogni giorno sulla vita dei suoi abitanti sotto l'azione folle dei terroristi suicidi; lo è per il senso di insicurezza psicologica che questa situazione infonde negli israeliani, l'angoscia di un Israele forte ma anche debole, occupante ma anche assediato, 5 milioni di ebrei in un immenso mare di arabi e mussulmani.
Oggi vi è dunque, nel concreto esistere degli ebrei nel mondo, una bipolarità: Diaspora e Israele, esilio e stato-nazione. Questa dualità non è scevra da conflitti, ma offre agli ebrei una scelta possibile tra l’integrazione nelle società occidentali che si evolvono pur con fatica verso forme multiculturali e un’identità politico-nazionale.
La dualità tra Diaspora e Israele, la separazione tra le due "famiglie" del popolo ebraico sono destinate ad accentuarsi con il tempo, tanto più quanto più Israele diventerà uno stato-nazione "normale", con eguali diritti per i suoi cittadini e pienamente integrato in un Medio Oriente pacificato. Divergono, infatti, gli interessi oggettivi di Israele, dove gli ebrei vivono un'esistenza nazionale indipendente sotto un governo "ebraico", che persegue gli interessi nazionali di uno stato retto da una maggioranza ebraica, e della Diaspora, dove gli ebrei sono cittadini di altri stati, alle cui leggi rispondono, alla cui vita civile e politica partecipano, pur mantenendo un legame affettivo-culturale con la terra e lo stato di Israele (4).
Israele pretende talora di rappresentare gli ebrei nella loro totalità; è una posizione inaccettabile, ma è indubbio che gli atti di Israele si riverberano oggettivamente sugli ebrei nel mondo e che quindi esso non può prescindere da tali effetti nel modulare le sue scelte politiche. Il mondo ebraico d'altra parte è tutt'altro che un soggetto unico e monolitico, percorso come è da forti diversità di identità religiosa, culturale e politica. Nel rapporto con Israele, gli ebrei sono uniti nella difesa del suo diritto irrinunciabile di esistere come popolo e come stato, in pace e sicurezza, ma divisi, spesso critici circa le scelte contingenti dei suoi governi.
Nelle società occidentali, dove gli ebrei prevalentemente oggi vivono, vi è un loro interesse oggettivo a lottare contro ogni forma di discriminazione, perché molte volte nella storia l'ostilità al diverso, il razzismo, il nazionalismo si sono tradotti in odio antiebraico, nonché a vivere in società che siano autenticamente multiculturali, in cui le differenti identità siano rispettate, legittimate a convivere, viste come un beneficio per tutti. Ma c'è poi un qualcosa di soggettivo, un dovere di noi ebrei, come portatori della memoria, di essere particolarmente sensibili a fenomeni di intolleranza e di esclusione al di fuori di noi, di essere solidali con i deboli, gli stranieri, per la nostra stessa esperienza esistenziale di profughi. Le navi cariche di curdi, albanesi, o arabi che arrivano sulle sponde dell'Europa evocano, infatti, assonanze emotive con la nostra storia: con le navi dei sopravvissuti alla Shoà che nel 1946-47 varcavano il Mediterraneo cercando di giungere in Palestina e venivano respinti o internati in campi di prigionia dagli inglesi o con le vicende degli ebrei che prima della seconda guerra mondiale cercavano disperatamente di trovare rifugio dalla furia antisemita in Svizzera, Spagna, Francia o negli Stati Uniti. 3. Occidente e Islam
Il rispetto della diversità di culture, etnie e religioni è concetto che va esteso al di là di una nazione, al mondo nella sua interezza. Nella tensione fra Occidente "cristiano" e Oriente "islamico" gli ebrei vivono una condizione difficile, quasi in bilico. Essi sono parte dell’Occidente e dell’Oriente. L’ebraismo diasporico è oggi infatti quasi esclusivamente occidentale, concentrato negli Stati Uniti e in Europa. Ma Israele è parte del Medio Oriente, destinato a integrarsi in esso in un futuro desiderato di pace e normalità. Da 50 anni è scomparso, per l’esplodere dei nazionalismi, la decolonizzazione, le espulsioni di ebrei conseguenti al conflitto arabo-israeliano, l’ebraismo che per secoli fiorì nei paesi arabi ed islamici. I legami fra ebrei e Islam furono fecondi; quella ebraica fu una condizione di soggezione, di una minoranza tollerata ma raramente oggetto di persecuzioni violente (5). Il ghetto – mostruoso edificio di segregazione, di esclusione dell’ebreo dal corpo della società in quanto diverso e sovvertitore dell’ordine sociale – è stato costruito dalla Chiesa cattolica, non dall’Islam. La storia dell'Occidente è stata segnata fortemente dall’antigiudaismo cristiano – fondamento antico dell’antisemitismo moderno. La macchina hitleriana dello sterminio degli ebrei d’Europa è stata organizzata nella nazione reputata la più civile e istruita dell’Occidente. Lo stato di diritto, il pluralismo, il rispetto della diversità sono soltanto oggi e in maniera incompiuta un’acquisizione delle nazioni dell’Occidente, non certo il risultato di una sua congenita superiorità (6).
La mancanza di democrazia è il limite maggiore del mondo arabo-islamico, dominato da regimi burocratico- autoritari e percorso dall’agitazione di movimenti integralisti che raccolgono il consenso di masse depauperate e oppresse da quei regimi. L’estremismo politico e religioso islamico – o meglio islamista – si nutre del risentimento e della frustrazione degli esclusi dalla società. Così trovano consenso, come soccorritori dei poveri e dei disperati, come fornitori di una rete di assistenza sociale alternativa a quella dello stato burocratico, movimenti come Hamas in Palestina o la Jihad islamica in Egitto. Per questo occorre annientare politicamente e militarmente il terrorismo integralista, che glorifica in un’apoteosi di nichilismo omicida l’atto di "martirio" ; ma bisogna anche comprendere ed estirpare le radici di questo male, con il progresso economico-sociale, la democratizzazione, la liberazione della politica dal dominio della religione.
Resta un caso a parte quello di Bin Laden, figlio dell’oligarchia saudita ben integrata nel capitalismo globalizzato e diventato poi oppositore di quel regime. Quell’Arabia Saudita, dove un regime dispotico e protetto dall’America – per Bin Laden e i suoi seguaci il nemico assoluto in quanto occupa e profana i luoghi santi dell’Islam (7) – non ha mai combattuto l’estremismo islamico purchè operasse fuori dei confini del regno, che ha finanziato attraverso le sue "charities" le attività di Al Qaida e di altri movimenti integralisti, ed è alla radice della violenza terroristica per il conflitto che oppone la famiglia regnante occidentalizzante e i fanatici di un Islam wahhabita, puritano, geloso della purezza originaria delle fede e avverso alla modernizzazione. Lì, in Arabia Saudita, il conflitto si è originato e lì va risolto.
Claude Lévi-Strauss, prefazione a "Le regard éloigné, Plon, 1984", citato in Stefano Levi della Torre, Attualità del razzismo e dell’antisemitismo in Europa, Problemi del socialismo, aprile 1990.
Stefano Levi della Torre, op.cit.
Amos Oz, In terra di Israele, Marietti,1992, pagg. 93-94
La discussione più approfondita di questo tema si trova in David Vital, The future of the Jews, Harvard University Press, 1990.
Cfr. Bernard Lewis, The Jews of Islam, Princeton University Press, 1984.
Questo non significa soggiacere al relativismo culturale più becero, secondo cui i sistemi di valori sono tutti uguali e indistintamente validi. Vi sono diversità "neutre" – attinenti al modo di vestire, di mangiare, di comunicare – che non implicano scale di valori. Ma vi sono diversità relative a valori decisivi (i diritti umani, le libertà individuali, la parità fra i sessi) che distinguono nettamente una società da un’altra.
Cfr. Bernard Lewis, License to Kill: Osama bin Ladin’s Declaration of Jihad, Foreign Affairs, 6, 1998
tratto da http://www.martinbubergroup.org/documenti/art02-2.asp

Nessun commento: