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venerdì 9 maggio 2008

MARTIN BUBER

Oggi, e nei prossimi giorni, verranno pubblicate pagine dedicate ai filosofi dell'accoglienza (come è già accaduto in precedenza sporadicamente)

MARTIN BUBER


A cura di Diego Fusaro

Martin Buber nasce a Vienna e studia in svariate università europee, annoverando fra i suoi maestri pensatori del calibro di Simmel e Dilthey, che molto incideranno sulla sua formazione. Dopo un periodo di "dispersione", egli tornò nel seno dell’ebraismo, aderendo al movimento sionista. Docente a Francoforte, dopo l’avvento del nazismo perse la sua cattedra e nel 1938 si trasferì a Gerusalemme, dove ricoprì la cattedra di Filosofia sociale e difese l’ideale di una pacifica convivenza fra Arabi ed Ebrei. La morte lo colse nel 1965. Nel 1923 pubblicò una delle opere più famose, Io e Tu, proprio nell’anno in cui cominciò ad insegnare a Francoforte. Nel 1925 incontrò Franz Rosenzweig, con il quale tradurrà la Bibbia (impresa che porterà a termine nel 1962). Fra gli scritti successivi, meritano senz’altro di esser ricordati: Il problema dell’uomo (1943) ed Eclissi di Dio (1952), oltrechè i suoi interessantissimi studi sullo hassidismo, ovvero su quel movimento dell’ebraismo europeo orientale sorto nel XVIII secolo e caratterizzato dall’importanza attribuita all’azione. Buber elabora innanzitutto una prospettiva di pensiero il cui cardine sono i temi del dialogo e della relazione: infatti, a partire dall’idea secondo cui l’uomo non è una sostanza, ma una fitta trama di rapporti e di relazioni, egli è pervenuto a quella che si potrebbe definire una sorta di relazionismo personalista. Ad avviso di Buber, il mondo è duplice, giacchè l’uomo può porsi dinanzi all’essere in due modi distinti, richiamati dalle due parole-base (Grundworte) che può pronunciare al suo cospetto: Io-Tu e Io-Esso. Di primo acchito, si potrebbe essere indotti a pensare che la parola Io-Tu alluda ai rapporti con gli altri uomini e la parola Io-Esso si riferisca invece a quelli con le cose inanimate. In realtà la questione è più complessa, in quanto l’Esso può comprendere anche Lui o Lei. L’Io-Esso, allora, finisce piuttosto per coincidere con l’esperienza, concepita come l’ambito dei rapporti impersonali, strumentali e superficiali con l’alterità – sia umana sia extraumana -; tale schema dualistico – corrispondente almeno in parte a quello propsettato da Marcel tra essere e avere – presuppone che l’Io dell’Io-Esso sia l’individuo, mentre l’Io dell’Io-Tu sia la persona: con la precisazione, però, che "nessun uomo è pura persona, nessuno è pura individualità. […] Ognuno vive nell’Io dal duplice volto" (Io e Tu). Agli occhi di Buber, l’Ioa utentico (la persona) si costituisce unicamente rapportandosi con le altre persone – sullo sfondo vi è la lezione hegeliana (Fenomenologia dello Spirito) dell’autocoscienza che si relaziona ad altre autocoscienze -, giacchè l’Io "si fa Io solo nel Tu". Ma asserire che la realtà umana è costitutivamente relazione equivale a dire che essa è costitutivamente dialogo, per cui, se la dimensione dell’Io-Esso è la superficiale dimensione del possesso e dell’avere, la dimensione dell’Io-Tu, di contro, è la profonda ed intima dimensione del dialogo e dell’essere: Io-Tu corrisponde all’essere, Io-Esso all’avere. Tale dialogo trova la sua compiuta manifestazione nel rapporto teandrico, ovvero nel Rapporto instaurantesi fra l’Io e Dio stesso: "ogni singolo Tu è un canale di osservazione verso il Tu eterno. Attraverso ogni singolo Tu la parola-base si indirizza all’eterno" (Io e Tu). Un Tu eterno – precisa Buber – che non può esser ridotto in nessun caso all’Esso, ossia ad oggetto di possesso e di conoscenza: "guai a colui che è invasato a tal punto da credere di possedere Dio", ammonisce Buber. Di conseguenza, il Dio-oggetto della teologia è un falso Dio: il vero Dio, quello vivente della Bibbia, è un Tu con cui si parla e non un Tu di cui si parla, è un Dio a cui l’uomo rende testimonianza non già con la scienza, bensì con il suo impegno nel mondo a favore del prossimo:
"Quando io ero bambino, lessi una vecchia leggenda ebraica che allora non potevo capire. Raccontava nient’altro che questo: ‘dinanzi alle porte di Roma sta seduto un mendicante lebbroso ed aspetta. E’ il messia’. Mi recai allora da un vecchio e gli chiesi: ‘che cosa aspetta?’ e il vecchio mi dette la risposta ch’io allora non capii e che ho imparato a capire molto più tardi. Egli mi disse: ‘Te’". (Sette discorsi sull’ebraismo)
Nel suo scritto Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Buber nota come attraverso i tempi si sia eccessivamente abusato della parola "Dio", a tal punto che il suo significato è diventato opaco e vuoto; ciò non toglie, tuttavia, che tutte le volte che qualcuno la impiega per riferirsi al Tu assoluto, allora essa acquista un insostituibile valore esistenziale:
"‘Sì’, risposi, è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Nessun’altra è stata tanto insudiciata e lacerata. Proprio per questo non devo rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con la loro divisione in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue. Dove potrei trovare una parola che gli assomigliasse per indicare l'Altissimo? Se prendessi il concetto più puro e più splendido dalla tesoreria più riposta dei filosofi, vi potrei trovare soltanto una pallida idea ma non la presenza di colui che intendo, di colui che generazioni di uomini con le loro innumerevoli vite e morti hanno onorato e denigrato. Intendo parlare di quell’Essere a cui si rivolge l’umanità straziata ed esultante. Certamente essi designano caricature e scrivono sotto ‘Dio’; si uccidono a vicenda e lo fanno ‘in nome di Dio’. Ma quando scompare ogni illusione e ogni inganno, quando gli stanno di fronte nell’oscurità più profonda e non dicono più ‘Egli, Egli’, ma sospirano ‘Tu, Tu’ e implorano ‘Tu’, intendono lo stesso essere; e quando vi aggiungono ‘Dio’, non invocano forse il vero Dio, l’unico vivente, il Dio delle creature umane?" (L’eclissi di Dio).
Ciò non toglie, però, che proprio il Dio vivente appaia, oggigiorno, irrimediabilmente perduto, quasi come se si fosse eclissato: e questo in virtù del prevalere della relazione Io-Esso e dell’esaltazione soggettivistica della filosofia moderna: l'essere è stato scalzato dall'avere, Dio dall’uomo. A proposito del primo punto, Buber così si esprime:
"Nel nostro tempo la relazione Io-Esso si è molto gonfiata e, quasi incontrastata, ha assunto la direzione e il comando. Signore di quest’ora è l’Io di tale relazione, un Io che tutto possiede, tutto fa e a tutto si adatta, incapace di pronunciare il Tu e di andare incontro a un’esistenza con autenticità. Questo Ego (Ichheit) ormai onnipotente, con tutto quell’Esso intorno a sé, non può naturalmente riconoscere né Dio, né un reale Assoluto, che manifesta la sua origine non-umana all’uomo. L’Ego si inserisce in mezzo, oscurandoci la luce del cielo" (L’eclissi di Dio).
A proposito del secondo punto, poi, Buber nota:
"il soggetto, che sempre apparve annesso all’essere per prestargli il servigio della contemplazione, dichiara di aver generato e di generare esso stesso l’essere […] lo spirito umano dice di essere il signore delle sue opere e annichila concettualmente l'’ssolutezza e l'Assoluto"(L'eclissi di Dio).
Contrapponendosi con forza a Nietzsche e al nichilismo moderno, sfociante nell’ateismo, Buber dichiara che Dio non è definitivamente morto, ma si è solo temporaneamente eclissato (non del tutto diversamente, Horkheimer – di fronte alle atrocità del nazismo – aveva parlato di "eclissi della ragione"): da ciò nasce la fiducia nel Suo ritorno. "L’eclissi della luce di Dio non è l’estinguersi, già domani ciò che si è frapposto potrebbe ritirarsi" (L’eclissi di Dio): in particolare, ciò che si è temporaneamente frapposto tra noi e Dio, eclissandolo, è – per così dire – la nube dell’Esso e dell’Ego, nube che fa sì che il profondo rapporto Io-Tu sia oscurato da quello superficiale Io-Esso. Buber ha riproposto inoltre, con grande attenzione, la questione dell'identità ebraica. Quali sono le caratteristiche dell'ebraismo? Una prima caratteristica è la coscienza della scissione e l'anelito all'unità; una seconda è la ricerca di una relazione tra morale e religione, intendendo la religiosità come azione e come spinta messianica verso il futuro. Questi princìpi - unità, azione e futuro - sono i princìpi validi anche per l'umanità: un autentico ritorno all'ebraismo coincide per lui ad un ritorno verso la vera umanità.
SUL DIALOGO: "L’autentico dialogo e quindi ogni reale compimento della relazione interumana significa accettazione dell’alterità. […] L’umanità e il genere umano divengono in incontri autentici. Qui l’uomo si apprende non semplicemente limitato dagli uomini, rimandato alla propria finitezza, parzialità, bisogno di integrazione, ma viene esaudito il proprio rapporto alla verità attraverso quello distinto, secondo l’individuazione, dell’altro, distinto per far sorgere e sviluppare un rapporto determinato alla stessa verità. Agli uomini è necessario e a essi concesso di attestarsi reciprocamente in autentici incontri nel loro essere individuale". (Separazione e relazione)
IO, TU E ESSO: "Lo scopo della relazione è la sua stessa essenza, ovvero il contatto con il Tu; poiché attraverso il contatto ogni Tu coglie un alito del Tu, cioè della vita eterna. Chi sta nella relazione partecipa a una realtà, cioè a un essere, che non è puramente in lui né puramente fuori di lui. Tutta la realtà è un agire cui io partecipo senza potermi adattare a essa. Dove non v’è partecipazione non v’è nemmeno realtà. Dove v’è egoismo non v’è realtà. La partecipazione è tanto piú completa quanto piú immediato è il contatto del Tu. È la partecipazione alla realtà che fa l’Io reale; ed esso è tanto piú reale quanto piú completa è la partecipazione" (Io e tu).

tratto da www.filosofico.net/

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