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domenica 4 maggio 2008

PRINCIPI DI NONVIOLENZA

Dal settimanale telematico

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza è in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 162 del 4 maggio 2008

Riprendiamo la prima parte di uno scritto di Aldo Capitini.

Principi di nonviolenza
La nonviolenza risulta dall'insoddisfazione verso ciò che, nella natura,
nella società, nell'umanità, si costituisce o si é costituito con la
violenza; e dall'impegno a stabilire dal nostro intimo, unità amore con gli
esseri umani e non umani, vicini e lontani. La manifestazione più concreta ed anche più evidente di questa unità amore é l'atto di non uccidere questi esseri e di non operare su di loro mediante l'oppressione e la tortura. Questo impegno non é che un punto di partenza (come nessuno nella poesia, nella musica, può pretendere di esaurirle), e le imperfezioni del nostro atto di unità amore non possono essere compensate che dal proposito di essere attivissimi in essa, nel tu che diciamo agli esseri nella loro singola individualità, mai dicendo che basta. La nonviolenza non é l'esecuzione di un ordine, ma é una persuasione che pervade mente, cuore ed agire, ed é un centro aperto: il che significa che ognuno prende l'iniziativa di unità amore senza aspettare che prima tutti si innamorino, e la concreta in modi particolari che egli decide con sincerità, e con dolore per ogni limite e impedimento che lo stato attuale della realtà-società-umanità ancora mette a sviluppare pienamente questa unità con tutti.
Vi sono, dunque, tanti gradi e tante espressioni della nonviolenza, ma, al
punto in cui siamo, esse si concentrano in un modo fondamentale, che é di
non uccidere esseri umani. Mentre si sta stabilendo, oggi più che mai,
anche economicamente politicamente culturalmente, l'unità mondiale
dell'umanità, l'atto di affetto all'esistenza di ogni essere umano ci porta
al punto di questa unità umana. Verso gli altri esseri viventi ma non
umani, come gli animali e le piante, tutto ciò che é fatto nell'affetto e
rispetto alla loro esistenza, apre l'unità amore anche a loro e abitua a
sentire, di riflesso, il valore del non uccidere esseri più complessi e
più simili a noi, come sono gli uomini. La prassi del vegetarianesimo ha
perciò grande importanza.
La nonviolenza non é soltanto contro la violenza del presente, ma anche
contro quelle del passato; e perciò tende a un rinnovamento della realtà
dove il pesce grande mangia il pesce piccolo, della società dove esiste
l'oppressione e lo sfruttamento, dell'umanità nella sua chiusura egoistica
e nelle sue abitudini conformistiche e gusto della potenza. Ma finché diamo col pensiero e con l'atto la morte, non possiamo protestare contro la
realtà che d la morte. E perché la società non torni sempre oppressiva
sotto un nome od un altro, deve cambiare l'uomo e il suo modo di sentire il
rapporto con gli altri: la nonviolenza é impegno alla trasformazione più
profonda, dalla quale derivano tutte le altre; e perciò non si colloca
nella realtà pensando che tutto resti com'é, ma sentendo che tutto può
cambiare, e che com'é stata finora la realtà società umanità non era che
un tentativo secondo i modi della potenza e della distruzione, e che vien
dato un nuovo corso alla vita con i modi dell'unità amore e della
compresenza di tutti.
La nonviolenza é in una continua lotta, con le tendenze dell'animo e del
corpo e dell'istinto e la paura e la difesa, con la realtà dura,
insensibile, crudele, con la società, con l'umanità nelle sue attuali
abitudini psichiche: non può fare compromessi con questo mondo cosi com'é, e perciò il suo amore é profondo, ma severo; ama svegliando alla
liberazione e sveglia alla liberazione amando; quindi distingue nettamente tra le persone e gli esseri tutti che unisce nell'amore, tutti avviati alla liberazione, e le loro azioni, delitti, peccati, stoltezze, assumendo il compito di aiutare questi esseri ad accorgersi del male, e, se proprio non
é possibile altro, contribuendo a liberarli dando, più che é possibile,
il bene.
La nonviolenza é attivissima, per conoscere gli aspetti della violenza e
smascherarli impavidamente; per supplire all'efficacia dei mezzi violenti
col moltiplicare i mezzi nonviolenti, facendo perciò come le bestie piccole
che sono più prolifiche delle grandi; per vincere l'accusa e il pericolo
intimo che essa sia scelta perché meno faticosa e meno rischiosa; per dare
effettivamente un contributo alla società, che ci d, in altri modi. altri
contributi. Proprio in questo tempo la nonviolenza ha il suo preciso posto
nell'indicare una svolta decisiva e nell'inserire il fatto nuovo. Che non si
veda un altro impero romano e un altro impero barbarico, e sempre
oppressioni e rivolte, nascere e uccidere e morire, e l'uomo dolorante e
illusoriamente lieto, perché ancora non ha imparato a fondo quanto
dinamismo rinnovatore hanno l'interiorità, la libertà, l'amore. Proprio
appassionandoci per l'esistenza degli esseri viventi, rispettandoli più che
si può, e dolendoci della loro morte, noi impariamo a sentire immortali i
morti e unità all'intima presenza.
Chi é nonviolento é portato ad avere simpatia particolare con le vittime
della realtà attuale, i colpiti dalle ingiustizie, dalle malattie, dalla
morte, gli umiliati, gli offesi, gli storpiati, i miti e i silenziosi, e
perciò tende a compensare queste persone ed esseri (anche il gatto malato e sfuggito) con maggiore attenzione e affetto, contro la falsa armonia del mondo ottenuta buttando via le vittime.
La nonviolenza é impegnata a parlare apertamente su ciò che é male, costi quello che costi, non cedendo mai su questa libertà, e rivendicandola per tutti; e a non associarsi mai a compiere ciò che ritiene il male. Contro imperialismo, tirannia, sfruttamento, invasione, il metodo della nonviolenza é di non collaborare al male; e di creare difficoltà all'esplicazione di quei modi, senza sospendere mai l'amore per le singole persone, anche autrici di quei mali, ma non esaurentisi in essi; così si riconosce di avere un alleato alla solidarietà che si stabilisce tra gli oppressi, nell'intimo stesso degli oppressori.
Chi é persuaso della nonviolenza tende alla comunità aperta, e perciò a
mettere in comune il più largamente le sue iniziative di lavoro, la
proprietà, non sfruttatrice, che egli possiede, la cultura (partecipando e
celebrando i valori culturali con altre persone), la libertà (favorendola
con altri in assemblee nonviolente per il controllo e lo sviluppo
amministrativo della vita).
(Principi elaborati per il Centro di Perugia per la Nonviolenza costituito
nel 1952)
*
La nonviolenza nella prospettiva individuale e in quella sociale

La nonviolenza é lotta
Agli uomini usciti dalle guerre, agli animi che sentono il peso di
un'immensa stanchezza e il bisogno di un riposo che talvolta é perfino
sogno di annullamento e più spesso é idoleggiamento di uno stato lento,
comodo, col gusto di piaceri che non vengano tolti; prospettare l'idea e le
conseguenze della nonviolenza produce un urto doloroso; ed essi domandano
tra stizziti e allarmati: "ma é cosi difficile ricomporre una vita
tranquilla, una casa, un orario giornaliero, e la fruizione dei beni della
terra; e bisogna invece affrontare un problema cosi sconcertante e
paradossale? Noi vogliamo la pace, l'umanità vuole, merita la pace".
Penso che questa gente abbia una sensazione esatta. É un errore credere che
la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo, matrimoni e
figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna
ammaccatura nel proprio corpo.
La nonviolenza non é l'antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui
tutto infranto, lì tutto intatto. La nonviolenza é guerra anch'essa, o,
per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti,
le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e
il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e
di violenza disperata.
La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il
disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una
situazione tormentosa. La nonviolenza fa bene a non promettere nulla del
mondo, tranne la croce. E quegli uomini che dicevo prima non vogliono la croce: disfatti o disorientati preferirebbero ritagliarsi una parte anonima della vita, con uno stipendio immancabile, e frequenti "bicchierini" per tirare avanti. Gli uomini, la civiltà infine del "bicchierino" per reggere; e il bicchierino può essere liquore, fumo, vincita di lotteria, vita sensuale, un appoggio insomma che ci sia realmente, un qualche cosa di sensibile, che dica all'uomo attraverso un piacere: tu sei.
Questi uomini furono ingannati perfettamente dal fascismo, il quale di rado era scomodo, ma nell'insieme ordinato e piacevole; e quando divenne pieno di punte problematiche quegli uomini gli si ribellarono contro con una sincerità tale come se gli fossero stati avversi dall'inizio.
Per scoprire l'inganno del fascismo sarebbe bisognato non prendere l'ordine per cosa assoluta; e per reagire sarebbe bisognato non prendere per cosa assoluta il comodo proprio e circostante.
I regimi politici che assicurano comunque un ordine trovano sempre
moltissimi che li accettano, senza badare se l'ordine esterno non é tradito
potenzialmente da una mentalità sopraffattrice e avventuriera.
Si diceva durante il fascismo: "Nel '21 c'era il disordine, scioperi, i
treni non partivano; il fascismo ha stabilito l'ordine, la concordia tra
capitale e lavoro". E si diceva cosa insulsa; perché il fascismo non
risolse i problemi del dopoguerra, quelli che generavano il "disordine"; e
se delle due fazioni avesse invece trionfato la socialista, avrebbe essa
stabilito il suo ordine; e allora é da discutere sull'essenza, sulla
qualificazione dell'ordine: ordine fascista o ordine socialista? Che cosa
fosse l'ordine fascista si poteva intrinsecamente gi vedere con l'occhio
alla sua sostanza morale; ma si vide nel fatto: partirono, sì, i treni, ma
sono partite poi anche le stazioni.

La nonviolenza non é appoggio all'ingiustizia
Ma oltre l'equivoco della nonviolenza come pace, io vorrei chiarire e
dissipare un altro equivoco, che é ancor più insinuante e pericoloso.
Nella lotta politica e sociale, necessaria in una società di ingiustizia e
di privilegi, la nonviolenza fa tirare un sospiro di sollievo ai tiranni di
ogni specie; e questo sospiro di sollievo é per noi oltremodo tormentoso.
Se la nonviolenza dovesse essere interpretata, o comunque risolversi in
un'acquiescenza all'ingiustizia, a quella violenza di secoli cristallizzata
in potere e in privilegi decorati ora di una apparente legittimità, non ci
sarebbe una più tentatrice sollecitazione a metterla in dubbio ed
abbandonarla.
La nonviolenza non é soltanto rifiuto della violenza attuale, ma é
diffidenza contro il risultato ingiusto di una violenza passata. Di quanto
più di violenza é carico un regime capitalistico o tirannico, tanto più
il nonviolento entra in stato di diffidenza verso di esso.
Bisogna aver ben chiaro che la nonviolenza non colloca dalla parte dei
conservatori e dei carabinieri, ma proprio dalla parte dei propagatori di
una società migliore, portando qui il suo metodo e la sua realtà. Il
nonviolento che si fa cortigiano é disgustoso: migliore é allora il
tirannicida, Armodio, Aristogitone, Bruto. Due grandi nonviolenti come Gesù
Cristo e San Francesco si collocarono dalla parte degli umiliati e degli
offesi. La nonviolenza é il punto della tensione più profonda del
sovvertimento di una società inadeguata.

La nonviolenza é attiva e modesta
Perciò, e cosi chiariamo il terzo equivoco, la nonviolenza é attivissima.
La nonviolenza é prova di sovrabbondanza interiore, per cui all'uso della
violenza che sarebbe ovvio, naturale, possibilissimo, viene sostituita, per
ulteriore ricerca e sforzo, la nonviolenza.
Sarebbe anche qui falsificazione intendere il nonviolento come un pedante
occupato esclusivamente a torcere il volto davanti ad ogni menomo atto
violento, senza addentrarsi nella vita e nei suoi motivi. Tra il nonviolento
inerte e il soldato che si esercita faticosamente ed arrischia, la
possibilità di un valore morale é più nel secondo che nel primo.
Il nonviolento deve essere attivissimo sia per conoscere le ragioni della
violenza, per individuare la violenza implicita che si ammanta di legalità
e smascherarla impavidamente; sia per supplire all'efficacia dei mezzi
violenti con il moltiplicarsi dei mezzi nonviolenti, facendo come le bestie
piccole che sono più prolifiche (e anche sopravvivono alle specie delle
bestie grandi); sia per vincere l'accusa e il pericolo intimo che la
nonviolenza venga scelta perché meno faticosa e meno rischiosa: il
nonviolento deve portarsi alla punta di ogni azione, di ogni causa giusta,
appunto per curare il proprio sentimento che potrebbe stagnare e per farsi
perdonare dalla società la propria singolarità. É noto che gli obbiettori
di coscienza (cioè coloro che non hanno voluto collaborare alla
coscrizione) sono stati uccisi a migliaia dai governi totalitari; e dove
sono stati tollerati, hanno chiesto spesso servizi rischiosi e dolorosi, per
esempio di sottoporsi agli esperimenti medici o di raccogliere i feriti
nelle prime linee.
E infine sarà opportuno chiarire anche un quarto equivoco, che cioè il
nonviolento pretenda essere superiore per il suo atto di nonviolenza.
Non é l'atto di nonviolenza per se stesso, ma tutto ciò che sta con esso e
all'origine di esso, che può costituire un valore.
L'animo, l'intenzione, l'amore, gli sforzi fatti, quanto di proprio
sacrificio ci sia stato messo: qui é il valore sia dell'atto di violenza
che dell'atto di nonviolenza. É evidentissimo che tra colui che per evitare
l'uccisione di un bambino si slanciasse con l'arma in mano a difenderlo a
rischio di essere ucciso egli stesso, e il nonviolento che se ne stesse ben
lontano e inerte, avrebbe maggior valore il primo, quando il secondo non si
fosse gettato tra l'uccisore e il bambino a persuadere ed anche a offrire il
suo corpo, avanti a quello del bambino, al colpo mortale.

Concetti e modi della nonviolenza
Chiariti e dissolti questi equivoci, sarà bene ora prender contatto con il
concetto stesso della nonviolenza.
Violenza é un concetto relativo all'oggetto sul quale si esercita una certa
azione. Quanto meno io considero quell'oggetto in ciò che esso é per se
stesso, tanto più mi avvio alla violenza contro di esso.
La nonviolenza é una presa di contatto col mondo circostante nella sua
varietà di cose, di esseri subumani, e di esseri umani, é un destarsi di
attenzione alle singole individualità di tutti questi oggetti circostanti
per porsi un problema: "che cosa é questo singolo oggetto? qual é la sua
caratteristica, la sua vita, la sua libertà, il suo formarsi dal di
dentro?".
É la sospensione dell'attivismo che consideri tutto, senza eccezione, come
mezzo, fino a quei casi tipici che sono come il lusso e il gioco di questo
attivismo, come l'incendio di Roma da parte di Nerone per vederne la
bellezza, o il letto su cui il brigante greco Procuste stendeva i suoi
prigionieri stirandoli o stroncandoli secondo che fossero più corti o più
lunghi. Sospensione di attivismo che é attivissima moltiplicazione
d'attenzione, d'interesse, di affetto, potenziamento della vita interiore
proprio mediante questo collegamento in atto di tutto il reale nelle sue
innumerevoli individuazioni con l'intimo nostro.
Ma questo non é che un punto di partenza, perché di qui comincia un
movimento, una tensione.
Ad una parte degli oggetti assegno un compito di collaborazione, prendendo
interamente su di me la definizione del fine del lavoro con cui essi
collaborano; e questi oggetti chiamo cose.
Nei riguardi delle "cose" io non mi pongo altro dovere che di adoperarle
bene, di chiamarle a collaborare ad atti di cui assumo la responsabilità; e
la malvagità sta non nell'usare l'acqua per un bagno, ma se nel bagno
affogo il bambino, invece di lavarlo semplicemente, buttando l'acqua ad
altro destino. Per il carbone fossile stare nell'interno della terra o
muovere una locomotiva può essere indifferente, come per la pietra che sta
nel monte, in un monumento o come polvere sulle strade.
Può darsi che un giorno il nostro occhio scopra altro e diventi possibile
ridurre il campo delle cose, stabilendo con alcune di esse un rapporto di
collaborazione meno imperioso e meno antropocentrico: é un problema questo
non vano, e di un orizzonte vastissimo, schiuso proprio dal principio della
nonviolenza, che é inquietudine continua, passione mai saziata di interesse
per le individualità.
Vi é poi il gruppo di esseri subumani. E c'é come un gruppo di passaggio
in tutti quegli esseri di minima vita, microrganismi e microbi, rispetto ai
quali non possiamo fare che una valutazione di "cose" sempre però con
quella speranza e quel problema, che nuove indagini e nuove intuizioni
permettano una collaborazione migliore: chissà, per esempio, che non si
riesca a trovare il modo di volgere a benefica l'azione malefica di molti
microbi.
Ma quando incontriamo vite più sviluppate, individualità con cui é
possibile stabilire un rapporto complesso, qui sentiamo la gioia di salvarci
con più ragione dalla considerazione di "cose". Ciò non toglie che ci si
possa interessare a cose minime, rispettarle nel loro essere; che io possa
appassionarmi all'individualità di quella farfalla che ho visto nel
boschetto e che vivrà oramai una settimana, di quel filo d'erba, di quel
sasso. Questo prova che la nonviolenza, essendo unità-amore é espressione
nostra, é collocazione e scelta volontaria, non un dogma; e ognuno può a
sua ispirazione (Spiritus ubi vult spirat) dirigerla. San Francesco voleva
che l'ortolano non lavorasse tutto l'orto, ma ne lasciasse una parte dove le
così dette erbacce potessero crescere liberamente, perché per lui la
spontaneità di quel crescere, la bellezza di quelle erbe, e che esse
attestassero e lodassero Dio, era la stessa cosa. E cosi egli preferiva che
l'albero si tagliasse lasciandogli la radice e la possibilità di crescere
nuovamente.
Noi possiamo su tutta la scala degli esseri non umani istituire a noi stessi
delle direttive, che anche se non sempre attuate, provano che in noi vive un
problema, una passione, una direzione.
Preferire, per esempio, di regalare piante intere piuttosto che fiori,
rinunciare alla caccia, adoperarsi per addomesticare bestie selvagge.
Il vegetarianesimo, per esempio, é una cospicua scelta che viene fatta nel
campo degli esseri subumani. Si decide di rinunciare al cibo che comporti
uccisione di animali; e con ciò stesso muta il nostro modo di avvicinarsi
ad essi, il nostro modo di considerarli; si accetta sorridendo ma con
fermezza l'apparente stranezza che galline e pecore, dopo averci dato uova e
lana, "muoiano di vecchiaia": si amplia, al posto della violenza spietata
alle sofferenze e all'uccisione, quel piano di collaborazione in cui
consiste l'incremento della civiltà.
Questa "sospensione" introdotta nella leggerezza sterminatrice e nella
freddezza utilitaria si riflette in accrescimento di valore interiore. Ma
c'é di più e forse di meglio. Io debbo confessare che, pur avendo un
notevole interesse all'esistenza degli animali, mi decisi al vegetarianesimo
nel 1932, quando, nell'opposizione al fascismo, mi convinsi che l'esitazione
ad uccidere animali, avrebbe fatto risaltare ancor meglio l'importanza del
rispetto dell'esistenza umana.
Consideriamo, dunque, la nonviolenza in questi gradi anteriori come un
addestramento che ha due atteggiamenti, quello di considerare ciò che é
altro da noi come "cosa" ma con l'impegno a servirsene per un fine degno e
alto; e l'atteggiamento di considerarlo come "esistente", rispettato e amato
perciò come tale.
Due atteggiamenti, come ho detto, non rigidi, ma in dialettica, in
travaglio, e appunto perciò prova della vitalità interiore di un
appassionamento. Ma sia come un prologo al mondo umano. Noi sappiamo che
tutte le volte che in pedagogia ci si é posti il problema del più basso,
di ciò che é infimo, si é fatto un grande passo: quando si é cercata
l'educazione dei deficienti, o dei molto piccoli o dei molto poveri, si sono
scoperti sempre metodi che hanno dato risultati prodigiosi applicati agli
altri.
E cosi in questo prologo ci siamo posti dei temi: portiamoli ora nel mondo
umano, e sentiremo una risonanza grandiosa.
Riguardo ad esseri umani la nonviolenza é l'appello continuo e intenso alla
comprensione, alla spontaneità, alla capacita che ha l'altro essere umano
di giungere ad una decisione razionale.
Nel campo umano la dedizione a questo appello ha un fondamento più saldo
che per ogni altro essere: basta che io pensi che colui che incontro,
potrebbe essere mio figlio: nulla di eccezionale in questo sentimento di
genitura, per la somiglianza umana che c'é tra noi.
Del resto, io penso che sempre nei riguardi di un essere umano debbo
richiamarmi a un punto interno in cui io mi senta madre di lui; che debbo
abituarmi a costituire costantemente questo atteggiamento nel mio intimo;
che, insomma, almeno per una volta, esaurite e sfogate se si vuole, tutte le
altre possibilità, io debbo domandarmi: "ma mi sono anche considerato pur
per un istante madre di costui? come agirei se fossi sua madre, certo una
madre non stolta, ma pronta a vedere che cosa c'é a favore di lui, a
sperare per lui?".
La nonviolenza, porgendo l'appello alla razionalità altrui, é anche un
potenziamento del tu, e dell'interesse a che l'altro viva, si svolga, e come
un generarlo dall'intimo nostro, una gioia perché l'altro esiste, un
appassionamento alla radice. Come noi potremmo avvicinarci all'infinita
miseria degli esseri umani, alle loro limitazioni, curare le loro
infermità, sopportarli, se non portassimo un infinito compiacimento che
l'altro esiste e proprio come essere umano? In questo atto si va oltre lo
stato di felicità e infelicità, e si vive il sacro per cui ogni essere che
viene alla luce entra in qualche cosa di positivo, di l dalla sua miseria
e dalla sua grandezza. Lo spirito lo tocca, e io posso raggiungerlo col mio
atto: qui siamo nella presenza religiosa, che é più di ogni limitatezza,
deformità, malattia, bruttezza. La nonviolenza mi fa risaltare l'importanza
dell'atto col quale mi avvicino ad uno, atto di presenza aperta, superiore
alla felicità o infelicità, a ciò che può accadermi o accadergli.
E se io voglio che l'altro sia in un certo modo, il ripudio dei mezzi
violenti mi induce ad una tensione interiore perché io anzitutto viva
quello che voglio dall'altro, perché io prenda su di me il compito di
attuare quel meglio, di portarmi a quel grado, di purificarmi, di
sacrificarmi, fino al sacrificio supremo di dare l'atto di nonviolenza al
posto dell'atto di violenza, e di trasferire con atto d'amore nell'intimo
dell'altro il punto a cui ero giunto. In questa nonviolenza si attua la fede
nell'unità di tutti, e nell'efficacia che ciò a cui mi tendo io (o ciò
per cui io prego, per dirla nei termini tradizionali) influisce su di un
altro, pur lontano, quanto più di sacrificio e di purezza interiore io vi
metto.
Sarebbe più agevole che con un mezzo esteriore e violento io agissi
sull'altro, ma quanto perderei di interiorità, di qualità!

Attuazione della nonviolenza
Un principio che sta dentro l'atto della nonviolenza é la potente
sollecitazione dell'impegno della propria persona.
La radice della nonviolenza sta nell'essere nonviolento, internamente, prima
dell'atto rivolto agli altri; e anche questo conferma che la nonviolenza non
é un atto puntuale, ma una disposizione, una formazione, un'educazione,
un'intenzione, un insieme. Se la nonviolenza é promovimento della tua
razionalità, della tua bontà, della tua spiritualità superiore, bisogna
che io anzitutto mi tenda alla mansuetudine e alla ragionevolezza. Non si
può insegnare la nonviolenza con l'odio e le fucilate. Se io voglio che tu
agisca da persuaso interiormente, bisogna che io prima sia in tutto persuaso
e non retore. Se io voglio che nel mondo ci sia qualche cosa, e in questo
caso, un atto di unità-amore insistente fino anche al sacrificio, se non ci
metti tu questo atto, o ancora non ce lo metti, ce lo metto io.
Quanto ai modi dell'attuazione della nonviolenza io vorrei sottrarli a
quella casistica che sorge per ogni proposito di azione, e anche per questo.
Tutti quelli che hanno esperienza di questo proposito, hanno anche
esperienza di una lunga discussione con se stessi e con gli altri sui casi,
sui modi. Più di quindici anni di questa esperienza mi hanno confermato che
é lo spirito che conta, ed é l'approfondimento di questo che fa progredire
la civiltà.
C'é una scala di attuazione, una scelta, una creazione; non é un dogma e
un ordine di chissà chi: la nonviolenza é una creazione che uno attua. Ci
può essere un'attuazione così meticolosa da far sorridere; e non c'é
nulla di male. Una civiltà che consuma tanto suo tempo in mille cose futili
e fatue, può ben consumarlo in questo campo. C'é un eccesso e un ridicolo
che é in funzione del sublime. Un discepolo di San Francesco aveva spinto
così oltre il precetto dell'imitazione della santità, che ripeteva ogni
atto che vedesse fare al Santo, perfino sputare. E San Francesco ne
sorrideva. Tutti sappiamo che vi sono diverse interpretazioni e attuazioni
della nonviolenza, fino a quella che non si può parlare di "violenza"
quando si colpisce per diritto e a giusta ragione. Io qui esporrò
l'interpretazione che risulta dalla mia esperienza.
Considererei come un grande dolore se nel momento della morte di un
qualsiasi essere umano io non desiderassi con tutte le mie forze che quella
morte non avvenisse.
Non posso accettare come veramente mio il mondo dove le persone cadono come
oggetti, ma quello dove tutti sono soggetti, vivono, si svolgono. Se non
sentissi sempre questo, se avessi fatto qualche eccezione a questo, oggi
dovrei moltiplicare la mia tensione per riparare al passato.
E realmente io debbo riparare al passato, che oltre che mio, é di tutte le
civiltà trascorse; e, istruito da questa insufficienza, oggi non sono tanto
disposto a farmi sorprendere dall'indifferenza, e sto attento perché non
perda questa passione fondamentale ad ogni momento in cui la morte si
manifesta in questa realtà.
Perciò é inutile che io raccolga armi vicino a me e mi addestri ad usarle,
se so gi quale sarebbe la mia posizione domani. Da questo si riflette uno
stimolo ad atteggiare il mio fare in modo che senta di non poter far conto
su mezzi violenti, e che a mia disposizione non c'é che il prestigio
dell'esempio, l'intima trasparenza, la razionalità della persuasione, la
forza dell'anima. Potrò, a parte il ripudio della uccisione, ricorrere a
dei mezzi che diminuiscano l'effetto della violenza dell'altro, specialmente
se in uno stato di furia; ma sempre tali che non lo mettano in uno stato di
tortura né in uno stravolgimento della sua possibilità di razionalità.
L'importante é che in quel momento io mi immedesimi col problema
dell'altro, e della sua formazione verso la liberà, la razionalità, la
bontà; e che, assicurate queste dalla parte mia, mi rifiuti ai mezzi che la
turbino nell'altro. La tortura, cioè che io provochi in te il dolore per
ottenere qualche cosa da te, che senza la tortura mi rifiuteresti, non é
per me giustificata da nulla, perché io non voglio mai provocare il dolore,
ma riparare al dolore: essere non al punto in cui si causa il dolore (che é
questa realtà e il mondo della limitatezza), ma al punto in cui si supera
il dolore, che é la realtà autentica, il mondo del valore. Se questo mondo
é la mia croce, ma io sono più del mondo, sono dall'infinito. Come davanti
alla morte, cosi davanti alla sofferenza di un altro, ho la passione di
essere non dalla parte del mondo ma del sopramondo eterno che qui si apre,
non dalla materia ma dalla forma, non dall'esteriorità ma
dall'interiorità, non con un Dio che batte, ma con un Dio che porta nel
valore dell'amore che sempre si accresce, e che, come la libertà, non
esiste, se non si fa ancora più amore, ancora più libertà.

La nonviolenza e la società
A questo punto, dopo aver guardato la cosa dall'individuo, bisogna guardarla
dalla società; altrimenti mi si potrebbe dire che tutto quello che ho detto
é "prima della nascita della società, dello Stato". L'obbiezione più
formidabile é questa: "non faccio questione di me come singolo, della mia
difesa, della mia esistenza, ma della società, del suo ordine, della norma
che io debbo sostenere e contribuire a tener viva, per cui non é lecito che
uno si serva della violenza: come potrò far questo senza l'uso della forza?
come potrà avvenir questo se il cittadino manca al suo dovere di
riconoscere la necessità dell'uso della forza in qualche caso? Una società
non ha connessione senza l'uso parco e regolato della forza".
Qui debbo richiamare quel carattere drammatico della nonviolenza del quale
ho parlato all'inizio. Ho gi detto che per intendere la nonviolenza
bisogna lasciar di guardare l'ordine, la compostezza, la pace: bisogna,
invece, prender su risolutamente una responsabilità, che può essere anche
in mezzo all'avversione e al biasimo; é una scelta severa e tremenda. La
nonviolenza non é per conservare alcuna cosa di questo mondo, sia
dell'individuo o della società: non il piacere, il comodo, la casa, il
letto, la roba, la vita, le cose fatte, costruite, l'ordine sociale, la
regolarità dei servizi pubblici, l'esistenza dei cari, degl'innocenti. Non
é un accrescimento di sicurezza che tutte queste cose permangano; anzi é
una rinuncia interiore a questa sicurezza; é in potenza la morte di tutto
questo. É la possibilità di perdere tutto ciò che é nel mondo, il
Memento mori, non immaginazione oziosa, ma legato a un impegno, a un'azione.
Perché nello stesso tempo la nonviolenza afferma un valore; ed é dunque
atto, resurrezione. La società col suo ordine, la vita con i suoi oggetti,
non possono costituire quell'assoluto che si imponga indiscutibile e tolga
la possibilità di un contributo, di un'iniziativa. Siamo davanti, in questo
tempo, ad una società impiantata così che vorrei chiamarla "la società
dei pubblici servizi", una società pratica, del tempo dell'attivismo, del
tempo dei molti aspetti del vivere, delle varie cose. I pubblici servizi
esigono una difesa di essi con tutti i mezzi; e questo non é la società
come concetto eterno: non é che un tipo della società della vita,
corrisponde a una scelta che l'uomo di oggi fa: il che non esclude che si
possa fare un'altra scelta, presentare un altro tipo. Il significato
religioso della nonviolenza sta proprio nel preparare un altro tipo,
un'altra realtà. É evidente che se si volesse configurare la società non
con la trama interna della difesa dei pubblici servizi, ma con la trama
interna della celebrazione di atti di infinito tu alle persone, tutta la
prospettiva muterebbe. La società romana aveva per trama la tutela dei
diritti del civis, la società cristiana aveva per trama la fruizione dei
carismi divini.
La società non é un qualche cosa di staccato da me. E perciò come io, in
quanto individuo, ho il dovere di interiorizzarla e di rendermi conto delle
sue ragioni, ho anche il diritto di andare eventualmente oltre di essa. Non
quando io fossi ribelle, disordinato, ex lege, per natura; ma se seguo le
leggi che ritengo giuste, se attuo ciò che é ordine, se continuamente
utilizzo l'esperienza tradizionale della società, posso bene, quando sia in
gioco un valore, quando nel resto della mia vita sia solito a stare in
guardia contro il gusto personale e l'originalità di proposito, innovare,
prendere un'iniziativa, dare un contributo, e in questo caso sentire,
vivere, e far vivere, che la vera società é oltre quella dell'ordine
sociale, della difesa dei diritti, del mantenimento dei pubblici servizi; ma
é oltre, nel regno degli spiriti, cioè dei soggetti, cioè dell'amore da
instaurare subito a costo di sacrifici. Accanto ad una società che usa la
guerra come via alla pace, la violenza come via all'amore, la dittatura come
via alla libertà, la religione mi porta ad anticipare di colpo il fine nel
mezzo; e ad attuare comunque, qui e subito, pace, amore, libertà. La
religione é impazienza dell'attendere il fine; e oggi che l'universo, il
tempo, lo spazio, non sono sentiti in dualismo stabile con l'infinito e
l'eterno, porremo noi questo dualismo nella società tra il mezzo e il fine?

Il limite del realismo
Se si ostenta la natura umana nel suo fondo utilitario e violento, nelle sue
forze brute, che vanno continuamente represse e indirizzate, ma che sono
insopprimibili, la persuasione della nonviolenza non nega senz'altro questo,
non chiude gli occhi come lo struzzo per non vedere il nemico; e riconosce
che la situazione é drammatica, quasi sempre drammatica, e ne accetta le
conseguenze. Però porta con sé una fede, che ha tanta conferma nella
attuale concezione della realtà fisica; la fede che tutto ciò che é un
dato non é un continuum senza interruzione, ma é come a respiri con
intervalli, nei quali é possibile inserire altro. Con quale certezza
possiamo noi dire che quella cosa é sempre cosi? Questa sospensione della
continuità si può applicare alla politica, per cui viene a risultare
insufficiente e quasi ingenuo, quel certo realismo di tipo machiavellico che
non tiene conto degli intervalli in cui é possibile far agire forze d'altra
provenienza: quel realismo é una specie di imitazione della natura in
ritardo. E così per quella natura che é la psiche, alla quale si vorrebbe
applicare solidità e costanza invece di un ritmo di respiri e di tentativi
con intervalli e possibilità di inserzione di temi e forze e prospettive
diverse. La nonviolenza é fede in questa possibilità di intromissione
miracolosa e rinnovatrice, per lo meno a suggerire e far rivivere una certa
realtà diversa.
Accettiamo che la civiltà culmini nel culto attivo dei valori, e che le
forme della civiltà siano insufficienti quando sono principalmente
amministrative, giuridiche, diffonditrici più che produttrici di valori. Ma
se la nonviolenza é nella sua radice, nella sua intenzione, nella zolla che
la sostiene, un valore, ha ben il diritto di chiedere che la civiltà
attuale si allarghi a comprenderlo. Quando si segue un valore si scopre
sempre qualche cosa, una realtà anche maggiore della cercata, come Colombo
che ritrovò non le Indie, ma scoprì un nuovo continente. Lo so, si può
perdere tutto; ma si può approfondire la conferma che la vita da un punto
di vista religioso é eterna presenza aperta nel mondo, quanto più vivendo
dall'intimo i valori e la loro pace, tanto più incontrando asprezze, disagi
nelle cose e nel corpo, colpi simili alla morte. Non per pochi aspetti la
civiltà attuale sembra perdere il senso della distinzione tra il valore,
che é fine, e il resto, che é mezzo; e conquista e difende quelli che
sarebbero semplici mezzi come se essi fossero valori. Si mette, certe volte,
tutto nella conquista e nella difesa, e si tratta anche di cose fatue; tanto
più é importante stabilire una prospettiva, e mostrare che si é capaci,
per un valore, di perdere tutto il resto.
Mostrare, ho detto intendendo: non soltanto agli altri, ma a se stessi,
perché anzitutto la nonviolenza ha un carattere di edificazione interiore.
Ciò non é contro il principio dell'estensione della razionalità. Si può
e si deve accettare che la razionalità nell'uomo e nella società si
estenda sempre, e che l'uomo si faccia sempre più autonomo, e la società
sempre più democratica. Ma ad un tratto potrebbe avvenire, e avviene, che
si sospende la razionalità e la democrazia con un atto di violenza. Il
metodo religioso, invece, contrappone l'atto e l'esempio di nonviolenza,
aggiunto ad arricchire la razionalità e la democrazia. Rendiamo la società
sempre più democratica promovendo la razionalità, l'autogoverno, lo
scambio razionale, il controllo e lo sviluppo etico, civile, economico di
tutti; e in questa società aggiungiamo persone o gruppi che costituiscano
centri religiosi.
Tutti quelli che hanno parlato di nonviolenza nella esperienza
etico-religiosa di millenni hanno sentito più o meno consapevolmente che la
vita offre difficoltà e fatiche, che ogni giorno ha la sua pena, e che se
ci si vive dentro semplicemente lottando, ma divisi l'uno dall'altro, non
basta; che se invece si attua anche una intima e superiore unità, di
apertura sincera, di aiuto incondizionato, di sostituzione, tra noi, del
bene al posto del male, allora la realtà della lotta con le asprezze può
essere sostenuta, integrata, superata. E alle reazioni moderne alla
nonviolenza, reazioni, per esempio, del Marx e del Sorel in nome dello
sviluppo sociale, noi diciamo: ebbene, permetteteci di vedere questo flusso
storico da un intimo, di aggiungere questa presenza.
(Da Il problema religioso attuale, 1948)
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