Un uomo scendeva da Gerusalemme a Mantova
9 ottobre 2010
Domenica 10 ottobre Giornata Mondiale per la Salute Mentale.
di Enrico Baraldi
Un libro che ha rivoluzionato l’approccio alle relazioni di aiuto può darci l’occasione per ridefinire il nostro ruolo in questa impresa che ci vede tutti coinvolti.
Mi riferisco ai Vangeli e in particolare al Vangelo di Luca che, non a caso, veniva da un’esperienza di medico. Egli, in un racconto di straordinaria efficacia e di sfacciata provocazione antirituale, ci descrive un modo di porsi nei confronti della sofferenza altrui che mi sembra condensare, come in un film di poche immagini, un intero trattato di psicoterapia.
Tutti ricordiamo la storia del Buon Samaritano, indipendentemente dalle nostre frequentazioni ecclesiali, proprio per la incisività della sua drammatizzazione scenica. Tuttavia sottolinearne alcuni punti può essere utile al nostro scopo.
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”: era una strada a tutti nota per le sue insidie, lunga ventisette chilometri ed effettivamente in discesa perché Gerico è situata a 250 metri sotto il livello del mare, mentre Gerusalemme era lassù, considerata la città Santa. Come dire che un uomo stava scendendo la china della sua vita anche se ancora non era arrivato in fondo .
Questo tale incappò nei briganti che lo lasciarono mezzo morto. Un sacerdote e un levita, quelli che Sofri in una moderna rivisitazione della parabola chiama “due professionisti di Dio”, videro il poveretto e passarono oltre. Un Samaritano, quello che oggi potremmo definire un meticcio da un punto di vista etnico, un extracomunitario non in regola, insomma una specie di reietto, lo vide e ne ebbe compassione.
Luca utilizza per precisare cosa provò il Samaritano davanti all’uomo morente lo stesso verbo che descrive l’emozione del padre al ritorno del Figliol Prodigo quando, anziché rimproverarlo e castigarlo per avere dilapidato le ricchezze, decide di fare una grande festa: cioè uno stato d’animo di empatia prepotente, viscerale, quasi impossibile da controllare come le doglie di una madre partoriente. Di fatto il Samaritano compì alcune azioni, puntualmente descritte da Luca, che realizzano il senso del prendersi cura di chi sta male e definiscono in modo indelebile il rapporto tra la compassione e la vicinanza: gli si avvicinò, lo fasciò, lo caricò sul giumento e lo portò alla locanda, cioè in un posto aperto a tutti dove tutti potessero accogliere, condividere e alleviare la sofferenza di quell’uomo. Poi, il giorno seguente, lo affidò all’albergatore e se ne andò, continuando la sua strada senza lasciarsi intrattenere da colui che aveva salvato. Come sottolinea Cacciari in una sua riflessione: “ il Samaritano non si uguaglia all’altro, lo lascia essere Altro da sé e diverso da sé” e si accontenta, in qualche modo, di averlo salvato.
Mi è sembrato interessante utilizzare queste riflessioni per proporre una riedizione della storia del Buon Samaritano con opportuni cambiamenti di location, setting e attori:
“Un uomo – che potrebbe essere ciascuno di noi – scendeva da Gerusalemme verso Mantova”. Era una strada a tutti nota per le sue insidie: parte dal luogo dove la parola “Sacro” è ancora significativa e arriva alla città dove abitiamo con le fatiche, le difficoltà e le false illusioni quotidiane, in un periodo di crisi sociale e di recessione economica.
Lungo questa strada, esposta all’egoismo, al tornaconto e al successo personale a ogni costo, incappò in una crisi d’ansia che lo mise a nudo con le sue miserie, gli ferì l’anima e lo lasciò mezzo morto.
Per caso o forse perché era di guardia (ma la cosa non fa grande differenza) un affermato professionista della psichiatria si ritrovò a scendere per quella strada e quando lo vide prescrisse, peraltro prontamente, l’ultimo psicofarmaco che un solerte informatore farmaceutico gli aveva da poco presentato. Avrebbe preferito delegare a un suo assistente: il suo cuore era rivolto altrove. Ma si convinse che il suo sforzo, durato il meno possibile, era comunque appropriato.
Anche uno psichiatra che rivestiva un ruolo di più alta responsabilità giunse in quel luogo, vide l’uomo ancora più angosciato perché il farmaco gli aveva aggiunto un po’ di effetti collaterali. Consultò prontuari e mansionari, DRG e tariffe di rendicontazione e decise di passare oltre perché tanto non c’era di meglio da fare. Lo aspettava un’importante riunione di tipo amministrativo nella quale doveva tenere una relazione impegnativa.
Invece uno psichiatra irregolare, un po’ eretico e scismatico, anche lui in viaggio lungo quella strada, passò vicino all’uomo con la crisi d’ansia, ormai complicata dagli effetti del farmaco. Lo vide in un modo un pò diverso dagli altri due suoi colleghi e ne ebbe compassione. Si vergognò un po’ perché all’università gli avevano insegnato che non bisogna avvicinarsi troppo al paziente, che non bisogna lasciarsi prendere in modo emotivo dall’utente. Tuttavia, quello che provò era più forte di lui: una specie di rimescolio delle viscere e sentì che non avrebbe mai più potuto comportarsi diversamente. Gli si fece vicino, fasciò le ferite della sua anima fermandosi a mangiare e a bere qualcosa con lui; poi si fece carico dei suoi problemi e pensò fosse giusto condividerli con la comunità dove quell’uomo abitava, perché anche altri seguissero il suo esempio.
Nei giorni seguenti si impegnò a dare indicazioni alle persone vicine a quell’uomo e disse: “Abbiate cura di lui, se occorrerà un mio aiuto ulteriore sapete dove trovarmi”. E riprese la sua strada senza lasciarsi intrattenere oltre da colui che aveva aiutato in un momento di bisogno.
A questo punto è ovvio che quanti sono impegnati per motivi professionali, per scelte di volontariato o per interessi personali nel prendersi cura della sofferenza psichica vorrebbero potersi interamente identificare nel personaggio irregolare ed eretico, cioè nel Buon Samaritano della situazione.
Tuttavia è molto probabile che non esistano psichiatri, operatori, volontari o anche soltanto cittadini che siano solo e soltanto “buoni samaritani”, così come non ne esistono che siano soltanto simili al sacerdote e al levita della parabola. La migliore spinta all’altruismo, l’amor proprio, gli obblighi istituzionali, le convenzioni e le paure, tutto questo e chissà cosa altro, si mescolano dentro ciascuno di noi determinando scelte e comportamenti, slanci altruistici e ripiegamenti autocentrati.
Ma è anche molto probabile che il clima sociale intorno alla strada che da Gerusalemme scende verso Mantova abbia un grande potere di influenzamento sul modo di agire del singolo.
Stigmatizzare il diverso, lo straniero, l’alienato come socialmente pericoloso o usurpatore di beni induce molto facilmente reazioni come quelle del sacerdote e del levita, scelte di cura della sofferenza superficiali e frettolose, poco coinvolgenti e formali o, tutto sommato, di ghiacciata indifferenza.
Al contrario una città, una società, che sappia farsi competente rispetto a chi presenta un bisogno, psichico o materiale che sia, stimola e promuove a fare uscire sempre più la parte di altruismo e di ricerca della vicinanza che alberga negli individui. Siano essi psichiatri, operatori, volontari o semplici cittadini.
E’ per questo che la Giornata della Salute Mentale non è in nessun modo un fatto riservato agli addetti ai lavori.
Anzi: renderla tale sarebbe tradirne il senso e lo scopo.
Perché nessuno può sperare di raggiungere la propria salute mentale privatamente. Al contrario, ciascuno può tendere a essa e realizzarla solo considerandola strettamente dipendente da quella altrui.
Approssimarsi agli altri, allo straniero, al diverso e, nello specifico di questa giornata, al diverso in quanto sofferente nella sua psiche, comporta per di più un vantaggio collettivo, un bene comune, perché, come diceva Holderlin, “Dio e lo straniero sono inconoscibili e pieni di qualità, come il cielo è vicino ma non possiamo farne un concetto. La singolarità dell’Ente, dello straniero, non è conoscibile, ma piena di qualità.”
Mantova 10 ottobre 2010
Nessun commento:
Posta un commento