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martedì 25 dicembre 2007

LETTERA 128 di Ettore Masina

LETTERA128
dicembre 2007

1
Fine d’anno 2007: mentre cerchiamo di rendere le nostre case più allegre e festose, con sorrisi di parenti e di amici e voci di bambini, la cronaca appende ai nostri alberi di Natale certificati di comparizione in tribunale e bollettini medici di prognosi riservata. Provo a elencare: a Bali, ancora una volta, Wall Street e Bush hanno deciso che la Terra può andare in malora purché l’industria americana non debba ridimensionare i suoi profitti; in non poche nazioni, compresa la nostra, i sistemi politici sembrano da rottamare per eccesso di astuzie (o credute tali); la società italiana – ci avverte autorevolmente il Censis - è ormai mucillaginosa, cioè disgregata e confusa; nel nostro paese riprendono slancio gli amanti del nucleare, eccetera eccetera. Fatti incontrovertibili, descrizioni dell’oggi, impietose ma non esagerate; e tuttavia c’è di peggio, a me sembra, e il peggio riguarda il futuro: da cattedre molto autorevoli veniamo avvertiti che la speranza è una patologia mentale se non porta un bollino di garanzia da esse rilasciato. Nella sua recente enciclica il Papa esclude che le speranze umane abbiano un vero valore se non si fondano in Cristo, e – forse senza saperlo - Salman Rushdie, scrittore fra i più importanti della nostra epoca, gli risponde che le speranze proposte da quelli che egli sprezzantemente definisce “i preti” sono inganni micidiali e pesti fondamentaliste.
Il messaggio che si ricava da questi interventi è dunque che la speranza sine glossa - quella dei bambini, degli analfabeti, dei poveri, dei poeti, degli atei (tali per estenuazione, per scandalo o, più semplicemente perchè nessuno gli ha mai parlato di Dio), - è stupidità, miopia culturale o rimbambimento. Che ve ne pare?
2
Quanto a me, io penso che le persone importanti vadano ascoltate con reverente attenzione, soprattutto quando ci mettono in guardia dalle sciocche illusioni di chi si affida a un Babbo Natale della storia o al dio tappabuchi di cui parlava Bonhoeffer; e però, quando i Grandi ci esortano a gettare le nostre speranze nei cassonetti dell’immondizia ideologica mi pare psicologicamente ed eticamente sano stabilire fra loro e me un certo distacco. Benché la mia lunga vita sia stata ferita, più e più volte, anche crudelmente, dal crollo di apparenti certezze, non ho nessuna intenzione di rinunziare alle mie speranze, a costo di soffrire, poi, per la loro mancata realizzazione. Stare accanto a chi vuole un mondo migliore e lo ritiene possibile significa dare alla propria vita una qualità che il realismo dei profeti di sventura, come li chiamava papa Giovanni, non consente. E’ come vivere dei grandi amori dei quali non dimenticheremo mai le dolcezze e il calore; qualunque sia il destino di queste esperienze, il rimpianto per ciò che poteva essere e non fu non sbiadisce la certezza di avere avuto attimi di gioia, di essere cresciuti “dentro”; e gli errori compiuti non cancellano la grandezza di sogni e sentimenti che ci stanarono dalla solitudine del nostro egoismo.
3
Penso alla speranza come al respiro della storia, quella individuale e quella universale. “L’ottimismo della volontà, contrapposto al pessimismo della ragione”, la definiva Gramsci, dal buio del carcere in cui il fascismo lo faceva morire poco a poco. La speranza non nasce soltanto dalla ragione ma anche da una misteriosa propensione che forse è inscritta nella natura umana. Il grande La Pira, sul quale si abbattè tante volte il sarcasmo dei politici senza ideali, ne parlava, da mistico, come di una navigazione su mari perigliosi, in cui, nonostante le tempeste, il timoniere sente che la sua rotta è accompagnata da un forza positiva. Talvolta quella forza appare come una deriva, ma sempre sospinge verso orizzonti di luce.
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Se il respiro della storia è avvelenato dagli inquinamenti della violenza (quella brutale delle guerre e del terrorismo in tutte le sue versioni e quella più sottile ma non meno orribile della cosiddetta “difesa della democrazia e della libertà”: Guantanamo e dintorni, per intenderci), molte speranze hanno vita breve; ma è sorprendente vedere come subito altre fioriscano. L’ho già raccontato più volte ma non mi stanco di ripeterlo perchè mi pare emblematico: la notizia che i sandinisti avevano perso le elezioni e che quindi il Nicaragua sarebbe precipitato nuovamente nella miseria, mi giunse a Soweto mentre stavo per incontrare Mandela, appena liberato dopo tanti anni di carcere: una speranza veniva schiacciata da Reagan e un’altra dispiegava le ali. Mi pare che questo avvenga in tutti i tempi: in questi giorni, per esempio, mentre, se non spenta, almeno “contenuta” sembra la rivoluzione zapatista, i popoli indigeni della Bolivia e dell’Ecuador lottano per riscattare la loro storia di oppressione; e la vicenda della moratoria per la pena di morte mostra come speranze apparentemente assurde possano d’un tratto sbocciare in conquiste politiche di grande rilievo.
L’anno prossimo compirò ottant’anni; se osservo la carta geopolitica della Terra così com’era disegnata quando sono nato (l’Africa e l’Asia schiacciate dalla ferocia del colonialismo, l’America centromeridionale ridotta a un grappolo di repubbliche delle banane, in Italia il fascismo, in Unione Sovietica la sedicente dittatura del proletariato, la Germania spinta dalla miseria verso il nazismo, il Portogallo nelle mani di Salazar, nell’Europa orientale un coacervo di regni da operetta, milioni di italiani, irlandesi, greci, polacchi costretti a un’emigrazione che, nella sua disperata inermità, prefigurava quella odierna dei popoli del Sud, la tragedia negra negli Stati Uniti, la condizione femminile ovunque segnata da una feroce minorità eccetera) posso tracciare facilmente un censimento di speranze che allora apparivano al limite della follìa ma che hanno mutato il mondo. Ottusa è la cultura della realpolitik, aveva ragione Paolo VI, invece, quando diceva che vi sono periodi della storia in cui l’utopia è l’unico realismo possibile.
4
Se la speranza risulta così odiosa a chi pretende di dirigere la storia è proprio perchè essa contiene una dose di irrazionalità, non si lascia smentire dall’evidenza, non cessa di respirare nelle carceri e nei lager, almeno sin quando un uomo riesce a rimanere tale. La speranza non soggiorna nelle corti dei Potenti né si esibisce sui palcoscenici dei Filosofi. Veste il grembiule di una bambina (Mounier parlava della piccola speranza che ci dà il buongiorno ogni mattina) piuttosto che i paramenti di un gran sacerdote o le decorazioni di un generalissimo. Possiamo trovarla e dialogare con lei nelle favelas, nelle carceri e negli ospedali piuttosto che nei saloni dei congressi o nelle grandi assemblee dei partiti al potere o nei solenni pontificali delle basiliche. Non nei grandi luoghi dove la Storia con la S maiuscola è l’invitata d’onore ma dove la “piccola” gente - magari al di là delle transenne poste dalla polizia a tutela dei Grandi - lavora, soffre, e ama. E’ qui, in questi luoghi ignorati dai telegiornali ma notissimi a Dio che, a me pare, il Papa avrebbe potuto trovare materiale prezioso per la sua recente enciclica sulla speranza. Come dice il pastore Paolo Ricca, “Se vuoi udire la parola di Dio, porta attenzione alla parola degli uomini… Non in voci celesti, in rivelazioni straordinarie, in esperienze eccezionali parla il Signore, ma preferibilmente nel mondo del quotidiano, nella normalità di esistenze comuni”.
5
Quando ho letto che Benedetto XVI avrebbe pubblicato un suo documento sulla speranza, ne sono stato felice, il tema della speranza sembrandomi centrale nella vita della Chiesa. “Siate pronti a rendere ragione della speranza che è in noi” ci esorta san Pietro. E pensavo che papa Ratzinger si sarebbe rivolto all’umanità intera, essendo la mancanza di speranza un profondo malessere che connota il nostro tempo. Pensavo anche (presuntuoso come sono!) che egli, dall’alto della sua cattedra, avrebbe mostrato come un germe del Regno di Dio sia presente in tutti i luoghi in cui gruppi di persone lavorano, rischiano e soffrono per un mondo migliore. Del resto, molte speranze “soltanto umane” sono tali perché la Chiesa, in alcune epoche e vicende, le ha avversate come estranee alla fede. “Poiché nelle chiese veniva proclamato un dio senza speranza, i poveri andarono a trovare speranze senza Dio” ha scritto il teologo Moltmann. Il grande peccato della Chiesa pre-conciliare è stato quello di dimenticare il criterio fondamentale del Giudizio di Dio, quello della liberazione dei poveri: Matteo XXV, 31-46. Ma il Papa, che al Giudizio ha dedicato un lungo paragrafo della sua enciclica, quel vangelo non lo ha citato.
6
Quando Giovanni XXIII ha voluto parlare al mondo di un problema mondiale – la pace -, ha indirizzato la sua enciclica non soltanto ai cattolici e neppure soltanto ai cristiani ma a loro e a” tutti gli uomini di buona volontà”. Un documento acquista validità specifica in base al soggetto cui è rivolto. Il mondo intese l’appello di papa Roncalli, lo pubblicarono nelle loro prime pagine persino i giornali sovietici. L’enciclica di Benedetto XVI è indirizzata “ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici “. Un documento interno alla Chiesa? Un discorso a porte chiuse?
No: le porte sono silenziosamente aperte anche ai filosofi e agli storici, le due categorie di persone alle quali papa Ratzinger guarda come al sale della Terra. Accanto ai grandi santi compaiono Platone e Bacone, Kant, Engels, Marx, Lenin, Adorno, Horkheimer... Compaiono le loro teorie, che vengono riassunte e confutate con serena e acuta sensibilità. Il disegno ideologico - e dunque l’asfissia - di certe speranze, catturate e distorte da intellettuali senza umiltà viene pacatamente denunziato. Ciò che manca nel documento papale è l’attenzione al dramma e alla santità di milioni di persone che affrontarono immensi pericoli e sofferenze – o addirittura andarono a morire - perché i più poveri avessero dignità e i figli non fossero segnati da antiche oppressioni. Il secolo XX non è stato soltanto la terra del nazismo, dello stalinismo, del capitalismo selvaggio ma anche della meno vistosa ma non meno gigantesca epopea dei resistenti alla violenza dell’uomo sull’uomo e dei conquistatori di nuove libertà.
Non erano cristiani? Le lotte dei poveri del secolo scorso cominciano con i campesinos messicani che marciano sulle città inalberando stendardi con la Madonna di Guadalupe, e con i servi della gleba russi che scendono in piazza dietro i pope che levano la croce contro i cosacchi della repressione. Anche se gli ecclesiastici non lo compresero, un cristianesimo naturaliter tale, sotterraneo, inconsapevole segnò moltissimi, forse tutti, dei resistenti: “Vado a preparare domani che cantano” scrive un maquìs comunista”. Nelle camere di tortura e fra le rovine dei villaggi devastati per rappresaglia, le speranze continuano a vivere anche quando le loro parole sono come annegate dalle lacrime. Cristiane o no? “Domanderanno: quando mai Signore ti vedemmo?”. E Lui sorriderà abbracciando questi suoi figli prediletti,
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Credo che noi cattolici dobbiamo pregare per questo nostro papa e Natale è un buon giorno per farlo. Egli sembra racchiuso, come certi antichi orologi, in una campana di vetro che impedisce che vi entri la polvere (la polvere della storia, nel suo caso: le grida di dolore e quelle di gioia di tanta parte dell’umanità). Desideriamo che l’Angelo dei pastori (non si definisce pastore anche il papa?) lo stani dal suo vegliare fra i libri e lo spinga là dove risuona incessantemente il grido che ogni cristiano dovrebbe fare suo: “ O voi che giacete nella polvere, alzatevi e cantate”.

Cari saluti

Ettore Masina

per contatti: ettore@ettoremasina.it

domenica 23 dicembre 2007

QUALCUNO INTERVENGA PER FERMARE LA FOLLIA RAZZISTA

sarebbe bene che qualche autorità intervenisse per fermare la follia razzista della lega e dei suoi omologhi.
definire gli immigrati musulmani un cancro è un crimine contro l'umanità (e l'intelligenza).
ma quello che più mi spaventa non sono le cazzate alla gentilini ma il silenzio, colpevole e complice, delle sinistre, delle chiese, della cosidetta società civile.
dove sono tutti costoro?

L'URGENZA DELLE URGENZE

Anche questo scritto è tratto da

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 312 del 23 dicembre 2007
Notizie minime della nonviolenza in cammino
proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100Viterbo, tel. 0761353532,
e-mail: nbawac@tin.it

ANCORA SULL'URGENZA DELLE URGENZE

Mentre affonda nella guerra, nel razzismo e nell'ecocidio quella che fu la sinistra italiana, e con essa la democrazia nel nostro paese, occorre subito costruire la zattera della nonviolenza. Poiché non vi sarà più una sinistra e una democrazia in Italia se non vi sarà la proposta politica della nonviolenza. Per questo occorrono due cose.

*La prima: la costruzione di liste elettorali che abbiano come criterio decisivo dell'azione politica la scelta della nonviolenza, per portare in tutte le istituzioni la proposta della nonviolenza.

*La seconda: la realizzazione del giornale della nonviolenza in Italia, che ogni giorno porti nelle edicole oltre che nella rete telematica le esperienze e le riflessioni della nonviolenza in cammino e sostenga la costruzione della politica della nonviolenza.

A queste due imprese ci sembra occorra chiamare tutte le persone di retto sentire e di volontà buona che dalla vicenda del Novecento hanno tratto la lezione della necessità e dell'urgenza di una rottura radicale ed epocale: la rottura della subalternità alla violenza, e quindi la scelta del definitivo ripudio della violenza come mezzo di lotta politica, come strumento di regolazione sociale, come ideologia e come habitus, come principio di organizzazione.

*Una politica della nonviolenza che erediti e inveri le grandi tradizioni culturali dei movimenti di liberazione delle oppresse e degli oppressi: una politica della nonviolenza socialista e libertaria, solidale e responsabile, della cura e della fraternità-sororità, della relazione e del riconoscimento di dignità. Una politica della nonviolenza nitida e intransigente: nell'opposizione alle guerre, agli eserciti, alle armi, nell'opposizione alle strutture socioeconomiche e culturali fondate sull'oppressione dispiegata o cristallizzata.

Non c'é più tempo da perdere. Occorre chiedere ai movimenti nonviolenti storici - la corrente calda del movimento operaio, i femminismi, l'ecologia che fu già detta nuova -, alle esperienze che alla nonviolenza si sono progressivamente sempre più accostate - come i movimenti di liberazione dei popoli oppressi e delle oppresse persone, anticolonialisti ed antirazzisti; come le rimeditazioni più rigorose e gli inveramenti più aggettanti dell'originario messaggio di grandi tradizioni religiose -, alle esperienze nonviolente che sono nate negli ultimi decenni - dalla medicina, la magistratura, la psichiatria democratica, al commercio equo e solidale, alla finanza etica -, ai movimenti di base che a partire da concrete questioni locali e immediate hanno avuto la capacità di svolgere un ragionamento complesso e complessivo, a tutti costoro occorre chiedere di assumere questo impegno, prima che sia troppo tardi.

*Non é intenzione e non puo' essere compito di questo nostro minimonotiziario essere punto di riferimento per quante e quanti vorranno accogliere questo duplice appello; quel che possiamo e vogliamo fare é invitare alla riflessione e all'azione, alla scelta della nonviolenza come proposta politica forte, all'uscita dalla subalternità, alla cessazione delle ambiguità, alla separazione dai poteri e dalle ideologie dellaviolenza.
Che vi siano molti centri, e la trama verrà.

*Non c'é più tempo da perdere: la situazione é giunta a tal punto.

Peppe Sini

sabato 22 dicembre 2007

INIZIATIVA NONVIOLENTA A TORINO

Articolo tratto da: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 311 del 22 dicembre 2007
Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricercaper la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100Viterbo,
tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

La pace non e' una tregua delle armi, ne' l'immobilita' senza conflitti, mala capacita', nelle persone e nei sistemi, di trasformare i conflitti da distruttivi in costruttivi. Questa e' la nonviolenza positiva e attiva, gandhiana: tutt'altro da quell'atteggiamento che il linguaggio bellico chiama in-erme e im-belle. E' invece una forma di lotta, non per sopraffare l'altro, ma per la verita' comune, percio' e' dialogo, ed e' resistenza al violento non con le armi ma con le forze umane. Non ha la garanzia della vittoria, ma neppure le armi ce l'hanno. Pero' ha la garanzia della maggiore dignita', e la certezza di ridurre sofferenze e distruzioni.

"La pace e'nonviolenza": cosi' il Centro Studi Sereno Regis (via Garibaldi 13, 10122Torino, tel. 011532824; e-mail: info@cssr-pas.org, sito: www.cssr-pas.org) ha intitolato un convegno nell'occasione dei venticinque anni di attivita'.
Giuliano Martignetti ha esaminato "una storia di offese e di attese": le offese delle grandi violenze del Novecento e delle nuove guerre post-guerra fredda, e le attese che vengono dal movimento eco-pacifista e nonviolento internazionale, che nasce dal basso, ma non ha il sostegno di una classes ociale: la classe operaia e' corresponsabile, col capitalismo, del consumismo antiecologico e non si dissocia dall'industria bellica. L'obiezione di coscienza personale - oggetto del dialogo tra RodolfoVenditti e Pietro Polito - che rifiutava la leva militare obbligatoria e'stata oscurata dall'esercito volontario mercenario, ma resta nelle varie forme di obiezione del cittadino alle politiche di costosi armamenti non difensivi e di spedizioni militari, da cui nemmeno il centrosinistra sa uscire.
Il convegno si e' avvalso della presenza di Johan Galtung, da mezzo secolo promotore degli studi di peace research in Europa, e mediatore in numerosi grandi conflitti. Egli ha analizzato la figura di Gandhi (il 30 gennaio sara' il LX anniversario dell'uccisione) non solo come resistente eroico con la forza del sacrificio, ma soprattutto come genio della trasformazione dei conflitti, quelli interni all'India non meno di quello con l'impero inglese. Chi non ammette di avere seri problemi interni - cosi' oggi gli Usa (ma anche il movimento pacifista deve esaminarsi) - e' affetto da egotismo, e scarica fuori la forza che ha, aggravando la violenza dei conflitti. Per ridurla - suggerisce Galtung - cio' che conta e' l'immaginazione creativa, che sfugge all'imitazione ripetitiva della facile e pigra violenza, inventando soluzioni che attraversano gli schemi. Per esempio, per Palestina e Israele egli sostiene con argomenti che e' possibile una soluzione nella formula Unione Europea, una federazione dei sei stati del Medio Oriente, a confini aperti e mercato comune. Il direttore dell'Ufficio nazionale del Servizio Civile, Diego Cipriani, ha riferito su questa forma crescente di difesa sociale, alternativa al militare, che puo' sviluppare un'arte pacifica di gestire i conflitti, anche internazionali. L'auto-educazione alla gestione nonviolenta dei conflitti, privati opubblici, nella consapevolezza che i comportamenti delle due parti sono sempre interdipendenti, e dunque ciascuno puo' davvero incidere positivamente sul processo conflittuale, e' stata trattata da Angela Dogliotti. Capire l'altro e' l'unica via per smontarne la violenza: Etty Hillesum avrebbe detto all'SS che la colpiva: "Ragazzo, che cosa ti e'successo di cosi' terribile per comportarti cosi'?". Nanni Salio e Alberto L'Abate, tra i maggiori promotori della ricerca e della sperimentazione del metodo nonviolento nel vivo dei conflitti (anche Iraq e Kosovo), hanno indicato modelli alternativi di sviluppo e prospettato i Corpi Civili di Pace per la prevenzione, mediazione e riconciliazione dei conflitti, che gli interventi armati toccano in ritardo e peggiorandoli.
Enrico Peyretti

Chi è Enrico Peyretti
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno dipace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (ItalianPeace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste.
Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni,Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e'disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu'volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.cssr-pas.org,www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti. Un'ampia bibliografia degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n.68

L'articolo riportato, dal titolo "A Torino un centro studi. La pace è nonviolenza nel conflitto" è stato scritto per il quindicinale piemontese "Nuovasocieta'" sul convegno tenuto in occasione del XXV anniversario del Centro Studi "Sereno Regis" di Torino.

venerdì 21 dicembre 2007

Meno male che c'è la Rosy...

Non appena pubblicato l'ultimo post, hoi ricevuto la seguente mail che pubblico a giro di posta...

"La circolare che esclude i figli degli immigrati privi di permesso di soggiorno è un pessimo esempio di politica locale"

La Bindi attacca la Moratti
http://www.repubblica.it/2006/10/sezioni/scuola_e_universita/servizi/scuola-stranieri/replica-bindi/replica-bindi.html

ROMA - "La circolare del Comune di Milano è un pessimo esempio di politica locale. Mi stupisce che il sindaco Moratti assecondi scelte così gravi, che colpiscono la famiglia e nelle famiglie i diritti dei più deboli e dei bambini". Il ministro delle Politiche sociali Rosy Bindi critica la decisione del Comune di Milano di lasciare fuori dalle170 scuole materne comunali i figli degli immigrati clandestini e irregolari. "Non sono tollerabili discriminazioni di alcun genere nell'accesso a servizi essenziali, come le scuole dell'infanzia. Tutti i bambini, compresi i figli degli immigrati privi di permesso disoggiorno, hanno diritto a frequentare l'asilo nido non è quindi accettabile introdurre clausole di esclusione di questo tipo", aggiunge il ministro, commentando anche le dichiarazioni dell'assessore alle Politiche sociali di Milano, Mariolina Moioli, che ha dichiarato stamattina "Le nostre scuole comunali non hanno mai accettato i bambini senza permesso di soggiorno". Il caso è scoppiato alla vigilia dell'apertura delle iscrizioni per l'anno prossimo alle scuole dell'infanzia milanesi, che accolgono 21.517 bambini, di cui oltre 4.700 figli di immigrati. "L'educazione è la via maestra per favorire l'integrazione delle famiglie straniere, per imparare a vivere insieme e a non avere paura gli uni degli altri -aggiunge la Bindi - Il governo ha predisposto un piano straordinario per gli asili nido che nel triennio prevede un investimento di circa 800 milioni di euro e l'intesa che abbiamo siglato con le Regioni non prevede alcun tipo di discriminazione".Il caso milanese ha suscitato una valanga di reazioni in tutta Italia."Proviamo a fermarci un attimo, perché qui sia viaggia sull'onda di fattori emotivi. Quando si diffondono sentimenti xenofobi non ci si ferma e prima si cominciano a colpire gli adulti, poi si ledono idiritti fondamentali dei bambini", ha detto il sottosegretario alle politiche della Famiglia, Maria Chiara Acciarini. Il capogruppo del Prc al Senato, Giovanni Russo Spena, ammonisce: "La sindaca Moratti si vergogni. L'istruzione e la socializzazione, la scolarizzazione sono diritti universali. Che la seconda città italiana neghi l'ingresso agli asili nido ai figli di extracomunitari senza permesso di soggiorno èun'ignominia. Già Milano aveva norme assurde per quelle iscrizioni,perché accettava con riserva quelle domande da parte di lavoratori in attesa del rinnovo del permesso per poi cacciarli fuori se questo non arrivava. Adesso la discriminazione è completa: neanche chi è in regola ma in attesa della burocrazia italiana può iscrivere il proprio bambino/a negli asili milanesi". Addirittura di "barbarie" parla il segretario confederale della Cgil, Morena Piccinini: "'Quando il livore xenofobo di alcune realtà del nord del paese arriva a vietare il diritto alla scuola per i bambini migranti, le coscienze di tutta la società civile devono sentirsi scosse. Quando le pubbliche istituzioni, arrivano a scaricare sui più piccoli le tensioni della politica, negando loro il diritto alla accoglienza e all'integrazione, non si deve tacere perché l'accoglienza, l'inserimento e l'integrazione, che sono presupposti per l'apprendimento, la formazione e la cultura, sono diritti primari".

(/21 dicembre 2007/)

La scuola come territorio di incontro tra le culture, per la condivisione dei diritti e la valorizzazione delle differenze. Spazio web interattivo per pubblicare materiali e commenti, archiviare file, segnalare siti web, su:http://www.didaweb.net/liste/home.php?lista=002

dw-intercultura e' una lista DIDAweb:
http://www.didaweb.net/
modera luisa rizzo lu-sa@mail.clio.it

VERGOGNOSA DELIBERA DEL COMUNE DI MILANO

Cari amici,
non so quanti abbiano letto La Repubblica di oggi. Ma riporta un fatto a mio parere gravissimo e che non ha ricevuto le significative risposte, almeno per ora, che meritava.
Sulla scia dei provvedimenti (più o meno legali) presi dai sindaci leghisti del nord est, il Comune di Milano ha emesso una circolarfe che impedisce l'iscrizione dei minori figli di persone sprovviste di permesso di soggiorno (Circolare n. 20 del 17 dicembre 2007, Iscrizione alle scuole dell'infanzia anno educativo 2008/2009).
Ebbene, questa circolare non solo contravviene la nomativa vigente (e un'altra circolare emessa dalla stessa Moratti quand'era Ministro dell'Istruzione) ma contravviene alla Dichiarazione dei Diritti del Bambino sottoscritta anche dal nostro paese, laddove questa recita che i minori hanno il diritto all'istruzione, alla sanità ecc. ecc. a prescindere dallo status giuridico dei genitori...

Mobilitiamoci affinchè il Comune di Milano ritiri questa Circolare nefasta!

Giuliano Falco


mercoledì 19 dicembre 2007

Newsletter Osservatorio Iraq



Newsletter Osservatorio Iraq
25/2007: dal 7 al 19 dicembre 2007



Caro lettore,
oggi la pagina è bianca. Nessuna notizia dal Medio Oriente che non fa notizia. Stavolta, anche per noi, la notizia non è il Medio Oriente ma riguarda i costi che sosteniamo per produrre e diffondere informazione.


Il costo dell’abbonamento ai giornali di cui ti forniamo alcune traduzioni, il costo delle traduzioni stesse, il costo di raggiungere in Medio Oriente le nostre fonti per attingere quelle notizie che non trovi su nessun altro organo di informazione. Costi gravosi che rendono sempre più difficile la sostenibilità del progetto Osservatorio Iraq.


Insomma, se il nostro lavoro ti è utile, fai uno sforzo e mandaci il contributo che ritieni opportuno.


Sappiamo che a chiedere danaro sono in tanti. Noi lo facciamo con discrezione ma ti chiediamo quest’anno di mettere sotto l’albero un piccolo regalo che possa aiutarci a continuare a diffondere più notizie dal Medio Oriente che non fa notizia.


Come fare?


Conto Corrente Postale:59927004
Bonifico Bancario:100790 ABI 05018 CAB 12100 CIN: P -
Banca Popolare Etica
Carta di credito

In tutti i casi con la causale: sottoscrizione per osservatorioiraq
Ricordati che quanto vorrai versarci è un erogazione liberale che potrai
detrarre dalla prossima dichiarazione dei redditi.


Auguri di pace


Contatti: www.osservatorioiraq.it - redazione@osservatorioiraq.it - telefono 0644702906


info mailing list info@unponteper.ithttp://lists.unponteper.it/listinfo.cgi/info-unponteper.it

martedì 18 dicembre 2007

TRE COMMENTI ANONIMI E UNA RISPOSTA FIRMATA

Anonimo ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "RENDERE LA VERGOGNA...3":

Perchè finalmente il nostro paese sarà in grado di proiettare potenza aeronavale e unità terrestri senza dipendere dagli USA.Onore al miglior Ministro della Difesa che l'Italia abbia mai avuto, il Ministro Parisi, e a un eccellente, competente ed intelligente sottosegretario come Forcieri e viva il loro Parito, viva il PD

Postato da Anonimo in NESSUNO ESCLUSO alle 17 dicembre 2007 22.46

Anonimo ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Disertiamo la guerra:: un buon esempio":

Codardo imboscato Postato da Anonimo in NESSUNO ESCLUSO alle 17 dicembre 2007 22.48


Anonimo ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "SPENDIAMO PER LA PACE, NON PER LA GUERRA!":

Concordo onore al Ministro Parisi e vergogna ai pacifinti! VIVA IL PD A MORTE L'UNIONE Postato da Anonimo in NESSUNO ESCLUSO alle 17 dicembre 2007 22.50



COMMENTO:avendo letto per primo l’ultimo messaggio riportato, ho pensato a uno scherzo di qualche amico.
Leggendo gli altri commenti, mi sono convinto che l’anonimo lettore non volesse affatto scherzare.
Dopo aver scartato mille discorsi da fare all’anonimo lettore, gli pongo solo un cortese quesito (di cui attendo un’altrettanto cortese risposta):

Caro amico,
non ti sembra che dare del “codardo imboscato” a un disertore e non firmarsi, non sia il massimo del coraggio? E anzi, sei proprio sicuro che l’accusa di codardia che tu muovi al disertore non ricada su di te?
Noi almeno ci firmiamo con nome e cognome…

Giuliano Falco


PS: non hai neanche il senso dello humour...quello che ho scritto sul Parisi era sarcastico...

come recitava un poeta tedesco contemporaneo:

scrivo
scrivo
scrivo.
ma quello contro cui scrivo
non sa leggere

(cito a memoria)

lunedì 17 dicembre 2007

URGENTE E IMPORTANTE

Con preghiera di massima diffusione, grazie ...

Caro amico/amica,
in queste ultime settimane stiamo assistendo ad una folle corsa in ordine sparso dei Paesi ACP per la firma di accordi ad interim con l'Unione europea. Si tratta di accordi parziali che coprono solamente il capitolo del commercio dei beni per adeguare le relazioni commerciali Ue-ACP ai vincoli posti dalle regole dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC). Un accordo parziale voluto dalla Ue che non ha preso in minima considerazione le richieste provenienti da numerosi Paesi ACP, africani in particolare, e dalla stessa Unione Africana di estendere i termini delle scadenze negoziali fissate per il prossimo 31 dicembre 2007.
Ciò che colpisce di più è l'atteggiamento arrogante di una Commissione europea, nello specifico del suo commissario al commercio, Peter Mandelson, che non solo non ha preso in minima considerazione le richieste ACP, ma nemmeno le osservazioni giunte in questi mesi da vari governi europei, tra cui l'Italia, per una valutazione più attenta di possibili soluzioni che dessero ossigeno ai negoziati senza vincolarli a scadenze temporali così ristrette. È assurdo che uno degli obiettivi principali degli accordi Epas sia proprio l'integrazione regionale degli ACP, un'integrazione in realtà colpita al cuore a causa della frammentazione che la firma degli accordi ad interim sta causando nelle regioni ACP. Infatti nessuna di queste regioni nel suo complesso ha firmato o firmerà. Solo Paesi singoli e sub-regioni stanno concludendo accordi con l'Ue, vincolandosi ad un successivo negoziato per giungere alla firma di un EPA completo, che contenga cioè tutti quei capitoli così potenzialmente dannosi per quei Paesi come i servizi, la liberalizzazione degli investimenti e norme più vincolanti in materia di diritti di proprietà intellettuale.
Gli EPA sono puri accordi di libero scambio in una versione particolarmente aggressiva rispetto a quanto si negozia, ad esempio, in ambito multilaterale all'interno della OMC. Il problema è che stiamo parlando di un continente, l'Africa, che annovera il maggior numero di Paesi meno sviluppati e dove venti anni di ricette macroeconomiche di stampo neoliberista hanno portato alla catastrofe economica, sociale e ambientale. Come organizzazioni attive da anni sui temi del commercio internazionale e dei suoi impatti sui Paesi del Sud, siamo profondamente indignati di fronte all'aggressività di una Commissione che utilizza la retorica dello sviluppo per affermare i propri interessi offensivi. Per questo motivo abbiamo scritto al Ministro Prodi perché l'Italia non accetti con indifferenza questa politica e affermi a chiare lettere che la cooperazione si costruisce su basi diverse, su un partenariato effettivo al servizio dei Paesi poveri e non a loro spese. Ti proponiamo di fare altrettanto. O inviando la stessa lettera che abbiamo spedito noi, o scrivendo tu quello che pensi rispetto a questa situazione.
Stare in silenzio di fronte ad questo penoso spettacolo di riduzione della politica di cooperazione a strumento di penetrazione del capitale trasnazionale europeo sarebbe inaccettabile. Rivendicare che il nostro Paese si faccia promotore, in sede europea e attraverso sue concrete scelte politiche, di una maniera diversa di intendere la cooperazione come servizio e non dominio dei popoli del Sud è il minimo che possiamo fare per avanzare con coerenza nella costruzione e nella pratica di alternative possibili all'attuale sistema di globalizzazione neoliberalista.
Ti preghiamo di di inviare il messaggio agli indirizzi sotto indicati e di mettere in copia la mail epa2007@faircoop.it in modo che possiamo darti comunicazione dei risultati di quest'azione.
Si tratta di un gesto semplice, ma importante.
Ti ringraziamo del tuo contributo!
E-mail Presidente On Romano Prodi:segreteria.presidente@governo.it
E-mail Ministro On. Massimo D'Alema: segreteria.massimodalema@esteri.it
E-mail Vice ministro On. Patrizia Sentinelli: segreteria.sentinelli@esteri.it
La nostra mail epa2007@faircoop.it
Campagna per la riforma dela Banca mondiale (CRBM), Fair, Mani Tese, Rete Lilliput, Crocevia, Terra Nuova, Beati i Costruttori di Pace.
PER INFO E PER ADERIRE ALLA CAMPAGNA "L'AFRICA NON E' IN VENDITA!" CLIKKA QUA: http://db.altranet.org/campagne/info.php?id=5

Lettera aperta della società civile al Presidente del Consiglio Romano Prodip.c. al ministro degli Affari Esteri Massimo D'Alema
alla ViceMinistra agli Esteri con delega alla cooperazione Patrizia SentinelliCaro Presidente, Le scriviamo perché condividiamo con i popoli del mondo un destino comune, un'aspirazione di pace e di benessere collettivo. Per questo da qualche anno stiamo seguendo i negoziati dei nuovi Accordi di Partenariato Economico (APE o EPA) che l'Europa sta negoziando con molte sue ex colonie in Africa, Caraibi e Pacifico (ACP). Proprio in questi giorni esse dovranno decidere se e come rinunciare ai vecchi accordi di cooperazione e preferenza commerciale che l'Europa ha concesso loro negli anni Sessanta, e trasformarli in accordi di libero scambio, aprendo i loro mercato alle merci, ai servizi e, molto probabilmente, agli investimenti europei. Lo ricorderà sicuramente, visto che il lancio dei negoziati EPA avvenne sotto la Sua presidenza della Commissione europea. E ricorderà che non solo tutte le principali Ong, le Organizzazioni agricole e le reti di solidarietà europee e delle regioni ACP, ma le stesse agenzie delle Nazioni Unite e la Banca mondiale, hanno lanciato negli anni segnali d'attenzione sulle conseguenze che gli EPAs potrebbero portare allo sviluppo economico e sociale di questi Paesi, tra i più poveri del pianeta: de-industrializzazione, perdita di gettito fiscale e di spazio politico, uscita dai mercati locali di milioni di piccoli produttori.E' un fatto che nessuna delle sei regioni ACP coinvolte nel negoziato firmerà al completo gli accordi "ad interim" che avvieranno concretamente, anche se parzialmente, questo cambiamento di relazioni entro la fine dell'anno, ed è un fatto che due tra esse, tra le più importanti, cioè Africa Occidentale e Centrale, abbiamo chiesto espressamente una proroga delle scadenze negoziali, perché temono che gli stessi accordi "ad interim", pur se parziali, colpiscano al cuore i processi di integrazione regionale dei loro Paesi, che sarebbero, sulla carta, uno dei principali obiettivi degli stessi EPA. A Lisbona, in occasione del summit UE-Africa, avrà avuto modo di constatare direttamente il malessere diffuso anche all'interno delle diplomazie africane rispetto all'atteggiamento impositivo della Commissione Europea in questa fase delicata del processo negoziale. L'ostinazione quasi personale del Commissario Peter Mandelson, che più volte ha attaccato direttamente l'apertura al dialogo promossa con coerenza e costanza dal Governo italiano, di voler chiudere accordi ad interim con più Paesi possibili declassando il livello di partenariato e di preferenze commerciali con quelli che rifiutano un accordo in così breve tempo, crediamo sia una forzatura del tutto illegittima ed inopportuna nel quadro delle relazioni politiche ed economiche UE-ACP. Il prossimo 20 dicembre il Consiglio europeo approverà il regolamento per la concessione di un accesso "duty and quota free" agli ACP che avranno firmato l'accordo ad interim. Ma la partita a nostro avviso non è ancora chiusa. Per questo motivo Le chiediamo:1. di proporre in sede europea un segnale di distensione nel processo negoziale evitando d fissare nuove scadenze per la firma di un accordo complessivo (il cosiddetto Full EPA), escludendo dall'agenda in discussione gli investimenti (i cosiddetti Temi di Singapore, già esclusi dai negoziati WTO) e in generale le Trade-Related Issues, garantendo tutte le flessibilità necessarie per un accordo sui servizi (tra i quali prioritariamente acqua, istruzione e sanità), e per permettere di proteggere i prodotti dell'agricoltura familiare da cui dipende la maggioranza della popolazione, salvaguardando uno spazio politico adeguato di autodeterminazione per i Paesi ACP.2. di imprimere un chiaro indirizzo di solidarietà nella politica di cooperazione allo sviluppo italiana, innanzitutto con l'approvazione della tanto auspicata Riforma della legge 49/1987, che garantirebbe maggiore coerenza, coordinamento ed efficacia alla politica estera del nostro Paese. L'Italia dovrebbe, inoltre, allocare i fondi destinati agli aiuti al commercio solo in presenza di un processo trasparente e partecipato di definizione, esborso e monitoraggio degli stessi. Questi fondi dovrebbero essere orientati al benessere diffuso dei Paesi riceventi, addizionali rispetto ai programmi di cooperazione, finalizzati al sostegno dell'integrazione regionale, allo sviluppo di un commercio locale più solidale e sostenibile e, soprattutto, non essere utilizzati quale moneta di scambio per l'imposizione di politiche-capestro di liberalizzazione.3. Come ribadito nelle conclusioni del GAERC dello scorso 19-20 novembre, chiediamo che vengano elaborati e implementati meccanismi in grado di vincolare l'implementazione degli accordi a precisi benchmarks di sviluppo umano e benessere diffuso, in trasparenza e cooperazione con le rappresentanze delle comunità locali, della società civile e dei Parlamenti.Rimaniamo in di una risposta positiva e di un Suo pronto e fattivo interessamento.
La tua firma..

domenica 16 dicembre 2007

Il Centro Studi David Lazzaretti di Arcidosso (Grosseto)

La concezione sociale

Le idee sociali di David Lazzaretti sono pienamente connaturate al suo credo religioso. La società che lui prospetta è quella regolata dalla divina legge del diritto in cui tutti saranno santi. Pertanto ogni preoccupazione materiale verrà superata in questa sorta di Eden futuro della fratellanza in cui si vivrà come avevano fatto i primi cristiani, i quali "avevano un cuore e un’anima sola...tutte le cose erano comuni...e non era tra loro alcun bisognoso" (Atti degli Apostoli, IV - 32).
Questa concezione sociale trova concreta applicazione nel più maturo degli istituti solidaristici fondati dal Lazzaretti, "La Società delle Famiglie Cristiane", un’associazione universale di beni, di opere e di guadagni (lo statuto di questa società sarà pubblicato solo in Francia nel "Reveil des Peuples", Lione, 1873).
Lo scopo di questa associazione era quello evangelico di "formare di tante famiglie una sola famiglia comune". All’atto della sua costituzione venne fatto un inventario di ciò che era stato messo in comune in modo che al momento del ritiro o dell’espulsione di un socio, o alla data di scioglimento della società (la durata della società era prestabilita in 18 anni), fosse restituito il capitale immesso insieme agli interessi spettanti che venivano conteggiati sulla base del capitale e del lavoro apportati. La società era regolata da un’assemblea generale, chiamata "magistratura della società", composta da dodici deputati e da un presidente che durava in carica circa un anno ed era eletto ogni 25 dicembre dai soci maggiorenni. Le donne avevano una "magistratura" propria, con cariche simili a quelle degli uomini e le elezioni avvenivano separatamente tra i due sessi.
La società provvedeva mensilmente alla distribuzione individuale di viveri, vestiti e biancheria, alla raccolta e conservazione dei beni ricavati dalla terra e dall’allevamento, e alla manutenzione dei fabbricati e degli utensili da lavoro. Ciascuna famiglia, come ciascuno scapolo, aveva un libretto sul quale venivano segnate le entrate e le uscite proprie. Alla fine di ogni mese si faceva il conto del credito e del debito segnato nel libretto dei singoli soci, ed ogni tre mesi si facevano i conti generali in un libro apposito. Non esistevano contratti di compravendita individuali, ma era ammesso solo il baratto dei generi senza l’uso del denaro.
La struttura della società, pur rappresentando una grossa novità dal lato organizzativo rispetto alle esperienze mutualistiche del tempo, non tende ad apportare modifiche radicali e concrete ai rapporti economici e sociali tradizionali: alla base non vi è il rifiuto della proprietà privata come istituzione, ma piuttosto uno spirito di solidarietà cristiana che, superando i contrasti di classe, consenta il progredire collettivo. Non trattandosi dunque di una struttura corporativa, gli interessi dei singoli risultano spesso in contrasto e le preoccupazioni personali tendono a prevalere sul fine sociale con speculazioni tali da misconoscere l’ispirazione cristiana. Sta di fatto che nel 1874 la società versa in piena crisi e David è costretto a rifondarla su basi meno ampie riducendone l’attività a prestazioni d’opera collettive.

Il Centro Studi
Il Centro Studi David Lazzaretti nasce su iniziativa del Comune di Arcidosso agli inizi degli anni ’80, dando seguito ad un lavoro di ricerca e valorizzazione dell’esperienza lazzarettista iniziato nel 1978 in occasione del centenario della morte del "Profeta dell’Amiata".
Il Centro è strutturato in due sezioni:
Sezione Libri e DocumentiRaccoglie materiale bibliografico su Lazzaretti e sulla storia del movimento lazzarettista: monografie, saggi, alcuni studi sul messianesimo e i movimenti religiosi minori, pubblicazioni che abbracciano un periodo che va dalla fine dell’Ottocento ai nostri giorni. Sono inoltre disponibili tesi di laurea provenienti da varie Università ed una ricca raccolta di articoli di giornali e riviste che documentano l’evento sin dai giorni successivi all’uccisione del Lazzaretti. La sezione contiene inoltre manoscritti e lettere del Lazzaretti e dei principali protagonisti della vicenda, documenti e registri relativi alla vita sociale e religiosa della Comunità, materiale iconografico e fotografico. Queste testimonianze cartacee sono raccolte in tre importanti Fondi acquisiti negli ultimi anni dal Comune:
-Fondo "Massimiliano Romei"-Fondo "Archivio Don Filippo Imperiuzzi" -Sezione David Lazzaretti del Fondo "Leone Graziani"
Oltre a questa documentazione d’epoca, il Centro dispone (in copia) di altre importanti fonti documentarie provenienti da vari istituti:
-Archivio di Stato di Grosseto; -Archivio di Stato di Siena; -Archivio Storico Comunale di Piombino -Fondo Zannellini-Bartalini; -Biblioteca Comunale di Piancastagnaio -Fondo Giuseppe Fatini; -Archivio della Fratellanza e Chiesa Giurisdavidica di Monte Labbro, Loc. Zancona; -Archivio della Curia Vescovile di Montalcino; -Archivio della Curia Vescovile di Città della Pieve; -Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma.
Sezione EspositivaLa sezione espositiva del Centro documenta la storia dell’esperienza lazzarettista partendo da una breve cronologia della vita del Lazzaretti e ricostruendo attraverso materiale fotografico, dipinti, documenti d’epoca ed oggetti, quelli che sono stati i momenti più significativi della vicenda che nasce e si sviluppa negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia. I luoghi, i personaggi, le esperienze che caratterizzarono la vita religiosa e sociale della Comunità vengono presentati in un’ampia cornice costituita da materiale iconografico, vestiti e stendardi acquisiti nel corso degli anni. Una piccola sezione testimonia la presenza della Comunità Giurisdavidica fino ai nostri giorni.

per contatti:

Centro Studi Lazzaretti
Piazza Indipendenza, 30
58031 Arcidosso (Gr) Italy
Tel. 39 0564 966438 Fax. 39 0564 966010
e-mail
biblioteca@amiata.net

DAVID LAZZARETTI, IL PROFETA DEL MONTE AMIATA


Sull'Amiata è l'elemento religioso, più che quello storico, ad aver lasciato segni e figure nella sensibile fantasia popolare.
S.Bernardino da Siena, che celebrò la sua prima messa nel romitorio del Colombaio presso Seggiano; Santa Caterina da Siena, che svolse una delle fasi più attive e contemplative della sua vita a Rocca d'Orcia; il beato Giovanni Colombini, la cui salma venne raccolta in circostanze miracolose dai monaci di S.Salvatore; San Filippo Benizi, rifugiatosi nelle boscaglie sopra Bagni S.Filippo (che da lui presero nome) per sfuggire all'elezione a pontefice di Roma nel conclave viterbese del 1269; per finire a David Lazzaretti di Arcidosso, che meritò l'appellativo di "profeta dell'Amiata" in quanto protagonista di una singolare avventura religiosa a sfondo sociale, rappresentano altrettanti eventi mistici che in ogni tempo fortemente influirono sull'animo delle genti amiatine, dando concretezza ad una spiritualità, che fa parte ormai dell'ambiente e della cultura locale.
In questo contesto si inserisce forse la comunità buddista Merigar dell'istituto Dzog-chen, installatasi sull'Amiata negli anni settanta, e fulcro oggi di un richiamo spirituale recentemente riscoperto dalla civiltà occidentale. Questa comunità si è insediata nel versante del monte Labro, che fu teatro nell'ottocento dell'avventura mistica e sociale di David Lazzaretti, e costituisce meta di visite e di incontri filosofici e spirituali di elevato livello culturale e scientifico.


David Lazzaretti nasce ad Arcidosso (Gr) il 2 novembre 1834, secondogenito di sette fratelli. Abitavano umilmente in Arcidosso, nella casa paterna situata proprio sotto l'attuale Torre dell'Orologio. David era da piccolo sveglio e vivace; apprese a leggere e a scivere all'insegnamento del parroco della chiesa di S. Leonardo, un austero tempio di paese, che oggi si presenta non granchè modificato rispetto ad allora.
Ben presto fu chiamato dal padre ad aiutare la famiglia e si trovò a condurre carri di legna, di carbone e di terra d'ocra alla stazione di Monte Amiata. Fare il barrocciaio fu per David occasione meditativa, consumata al lento ritmo dei sonagli dei muli o dei cavalli. Al termine dei suoi lunghi e faticosi viaggi, diveniva irrequieto e sregolato, come dicono le sue biografie. Apprezzava molto il vino e le donne, come le donne apprezzavano lui. Spesso era protagonista di risse, nelle quali solo i suoi avversari uscivano malconci.
Nel 1868 ha delle crisi mistiche, determinate da visioni di intensa suggestione, che ne modificano totalmente il carattere e la personalità. Si autoconvince a dover assolvere ad una missione divina, aderisce con tutto il suo fervore alla Chiesa cattolica, inizia ritiri, digiuni ed altre pratiche ascetiche, si impegna attivamente nella costruzione di un santuario in Arcidosso e di un eremo sul monte Labro, che è l'altura più meridionale del gruppo del Monte Amiata.
Il successo che incontra fra le masse, in particolare fra i contadini, è grandissimo. Dapprima fu assecondato dal clero e dai vescovi della zona. Non poteva essere altrimenti in considerazione del fatto che quando David predicava a monte Labro, tutte le chiese della montagna rimanevano pressochè deserte. Divenne per tutti coloro che ebbero modo di conoscerlo il "Santo David".
Anche per effetto delle pubblicazioni e dei libri che egli scrisse, la sua notorietà varcò ben presto i confini della regione. Il movimento si estese in Maremma, in particolare a Scansano e nelle campagne intorno a Grosseto, e in modo altrettanto consistente nella Sabina e nel Reatino.
Ma le esperienze più esaltanti di David Lazzaretti, quelle che rappresentarono una forma di concretizzazione del Vangelo cristiano, come ha sostenuto con grande forza padre Ernesto Balducci, furono senza dubbio il campo di Cristo e la Comunità delle Famiglie Cristiane. Si tratta di due esperienze collettive di lavoro comune e di comunione dei beni, con implicazioni sociali di tutta evidenza.
Ottanta famiglie del territorio amiatino si erano dunque organizzate, sotto la guida di David, per dar luogo ad un esperimento associativo, che nessuna ispirazione avrebbe potuto trarre dalle prime matrici ideologiche socialiste, allora sconosciute a David Lazzaretti, e non solo a lui. Solo il senso della solidarietà e della fraternità era dunque alla base di questa audace struttura collettivistica, le cui affinità con le filosofie sociali e marxiste rimangono sorprendenti, per non dire precorritrici. Le stesse regole interne contemplavano non solo la distribuzione del prodotto della terra secondo l'apporto lavorativo e secondo il grado di bisogno, ma anche istituti di avanzata democrazia come l'estensione del diritto di voto alle donne, quando ancora ciò non avveniva a livello istituzionale, l'organizzazione di scuole gratuite e obbligatorie, nonchè l'esercizio di funzioni giurisdizionali limitate alle controversie economiche della struttura.
In questo esperimento collettivistico, la straordinaria figura di David Lazzaretti gioca il suo peso: finchè egli rimase a monte Labro le cose funzionarono, ma quando iniziò i suoi frequenti e lunghi viaggi, la comunità cominciò vistosamente a declinare.
Il dissenso con la Chiesa di Roma e con le autorità civili doveva ben presto acutizzarsi, anche per i rapporti che il Lazzaretti teneva in Francia, ove aveva trovato seguaci e finanziamenti. In alcuni suoi scritti, contestava apertamente le ricchezze e gli sprechi del clero e inneggiava ad una "Repubblica" dai connotati religiosi, ma destinata a spaventare gli assetti costituiti. Era l'epoca in cui la borghesia italiana rimaneva sconcertata e intimidita dai primi movimenti popolari, legati in Italia alla pratica del brigantaggio e ai primi scioperi operai, patrocinati dai nascenti sindacati che si andavano organizzando. Dall'estero arrivavano le prime notizie su movimenti marxisti, ancora non ben definiti nelle loro finalità e nelle loro dimensioni.
David Lazzaretti muore ad Arcidosso, sotto il piombo della repressione il 18 agosto 1878, insieme ad una decina di inermi contadini. La profezia (il suo martirio) si era quel giorno realizzata. Il movimento giurisdavidico (che da lui prese nome) fu oggetto di aspre persecuzioni. Oggi è tuttora presente con pochi seguaci nel territorio amiatino, dove è tuttavia profondamente rispettato nel ricordo di un protagonista, la cui buonafede e il cui impegno umanitario sono stati evidenziati dalla rilevante letteratura storica e scientifica che è andata via via producendosi intorno al "profeta dell'Amiata".


La ricerca storica ha ormai dimostrato l'assenza di dolo e di violenza nella predicazione di David Lazzaretti e di contro un eccesso immotivato di persecuzione e di repressione, forse dovute alla ragion di Stato e al dogmatismo religioso dei benpensanti. Fu la paura presente negli assetti economici allora dominanti che determinò il tragico esito dell'avventura lazzarettista. In verità David interpretò, vivendole oggettivamente col martirio, situazioni umane e sociali di gente anelante al riscatto o almeno alla speranza. Simboleggiò per questo la forza della protesta della gente dell'Amiata, le cui condizioni economiche e sociali erano all'epoca estremamente disagiate, incanalando la protesta stessa in un percorso mistico e rivendicativo del tutto originale, che merita oggi un attento studio e una doverosa rivalutazione.


La cospicua bibliografia su David Lazzaretti si è venuta a dipanare nel tempo secondo interpretazioni e procedure varie e discontinue, spesso legate ai tempi in cui essa si è prodotta, registrando testi di autori di notevole spessore culturale. Giacomo Barzellotti, Eugenio Lazzareschi, Mario Pratesi, E.J. Hobsbawm, Antonio Gramsci, Ambrogio Donini, e più recentemente Antonio Moscato, Alfio Cavoli, Francesco Bardelli, Ernesto Balducci, Piero Gadda Conti (premio Bagutta 1971), Arrigo Petacco, hanno contribuito in modi molto articolati, non solo alla ricerca storica sul movimento lazzarettista, ma anche alla produzione di opere letterarie di elevato livello.
Ma l'interesse e la curiosità intellettuale sull'avventura mistica del profeta dell'Amiata, non si sono spenti, nè attenuati. Anzi sono venuti sempre più intensificandosi fino a spingersi in ricerche e studi di vaste dimensioni, al fine di inquadrare i fatti in termini storici e sociali, tali da poter rispondere a ipotesi superbe e suggestive di vasta portata: la genesi di uno scisma e l'evolversi verso un nuovo credo, una protesta sociale incanalata in un rinnovamento religioso, una cultura subalterna che sperimenta forme comunitarie anticipatrici di una filosofia socialista. Come si vede la materia per studi sempre più avanzati non manca.


Per chi intende approfondire questa affascinante storia del "profeta dell'Amiata" potrà trovare un valido supporto visitando il Centro Studi David Lazzaretti, in Arcidosso, e consultando i due ultimi testi su David Lazzaretti, scritti da Lucio Niccolai, "D.L. Il racconto della vita, le parole del profeta" e "D.L. davanti al Sant'Uffizio" per le Edizioni Effigi, testi che presentano vari elementi di novità espositiva e di completezza documentale.




dal sito www.webamiata.it/tifavid.htm

venerdì 14 dicembre 2007

I BURQA DELLA PACE: UN'ASSOCIAZIONE FEMMINILE AFGANA PER LA PACE


Afghanistan - 13.12.2007

I burqa della pace Le donne di Kandahar hanno dato vita a un movimento pacifista nazionale

Le donne afgane scendono in campo pubblicamente per chiedere la pace, la fine della guerra e della violenza che da trent’anni insanguina il loro paese. Un evento epocale per l’Afghanistan, dove le donne non hanno mai osato schierarsi pubblicamente.


"Siamo stanche della morte". Ieri, migliaia di donne si sono riunite contemporaneamente in sei diverse province afgane per pregare per la pace. L’iniziativa, denominata ‘Preghiera nazionale delle donne per la pace’, è stata coordinata da un gruppo di donne di Kandahar.

"E’ la prima volta nella storia dell’Afghanistan che le donne si organizzano a livello nazionale per chiedere la pace", dice Rangina Hamidi, una delle organizzatrici. Siamo stanche della morte e vogliamo urlarlo forte. Per farlo abbiamo scelto la religione: trattandosi di una cosa religiosa i nostri mariti non si sono opposti a questa iniziativa di preghiera".

Il debutto delle donne per la pace era avvenuto circa un anno fa, con una giornata di preghiera che però interessava solo le province di Kandahar e Helmand. "Con l’estendersi delle violenze in tutto il Paese, anche le donne di altre province hanno sentito la necessità di unire le loro voci alle nostre per chiedere la pace", ha spiegato Hamidi. "La preghiera di ieri è stata solo l’inizio di un vero movimento nazionale: il nostro obiettivo è di estenderlo a tutte le trentaquattro province afgane".



notizia tratta dal sito http://www.peacereporter.net/.

Si tratta di un sito molto bello e ricco di informazioni: visitatelo!!!

CAMPAGNA DI FIRME UN FUTURO SENZA ATOMICHE

Campagna "Un futuro senza atomiche"
Newsletter n. 9
14 dicembre 2007

Carissime e carissimi,
il mese di dicembre si sta caratterizzando come un mese importantissimo nella raccolta delle firme per la proposta di Legge d'iniziativa popolare.
Le associazioni locali approfittano di tutte le iniziative di piazza, come mercatini e concerti, per organizzare i banchetti. Sul sito
www.unfuturosenzatomiche.org trovate alcuni di questi appuntamenti, quelli che i Comitati locali hanno comunicato alla Segreteria.

Alcuni Comitati locali hanno predisposto siti web e blog per raccontare la Campagna nella loro città. Questo, ad esempio, è il link del Comitato di Torino:
http://unfuturosenzatomicheto.splinder.com/ .
Invitiamo tutti a mandare alla Segreteria informazioni su iniziative di questo tipo.

Le associazioni più vicine al mondo cristiano stanno organizzando eventi e raccolte anche in occasione delle celebrazioni di Natale e della Giornata Mondiale della Pace (1 gennaio). Nei contatti con le parrocchie della vostra zona potrete essere facilitati facendo riferimento all'appello al disarmo nucleare che il Papa ha incluso nel suo messaggio per il 1 gennaio.

I partiti riuniti nell'Assemblea della Sinistra e degli Ecologisti (Fiera di Roma, 8-9 dicembre) hanno deciso di contribuire alla Campagna con una 'due-giorni' di impegno mirato a potenziare la raccolta delle firme in tutto il territorio italiano.
Si svolgeranno il 19 e 20 gennaio 2008.
La Campagna vorrebbe fare di queste due giornate un evento a scala nazionale. Serve definire un simbolo, un gesto, o un'azione condivisa che possa essere replicata dal maggior numero possibile di Comitati locali.
Lanciamo un concorso di idee!!
Qualche esempio di proposta:
90 sagome di bombe in piazza ... che poi vengano smantellate!
Una lunghissima bandiera della pace che si srotola verso il basso dall'alto di una torre cittadina.
Disegnare un bersaglio in piazza e poi far formare dalle persone vestite di rosso una grande X davanti al bersaglio... ("Le città non sono bersagli!")
A tutte e tutti chiediamo di contribuire con proposte! Scrivete le vostre idee alla Segreteria
segreteria@unfuturosenzatomiche.org
che le farà circolare tramite numeri speciali della Newsletter.

Rinnoviamo a tutte e tutti l'invito ad iniziare per tempo la certificazione delle firme raccolte. Inviate alla Segreteria i moduli completati ed accompagnati dalla certificazione fornita dai comuni di residenza dei firmatari.

Ricordiamo a tutte e tutti che la raccolta delle firme prosegue anche all'interno dei Comuni. Alleghiamo in basso il comunicato stampa del Comune di Firenze: un esempio da seguire anche in altre città!

Un saluto di pace,
Segreteria nazionale
Campagna "Un futuro senza atomiche"



Ufficio Stampa - Comune di FirenzePalazzo Vecchio -
P.za Signoria, 1 - 50122 FirenzeTel. 055 276 8075 - Fax 055 276 8282

COMUNICATO STAMPA
Firenze, 05 Dicembre 2007
DA OGGI IN PALAZZO VECCHIO SI PUÒ SOTTOSCRIVERE LA PROPOSTA DI LEGGE CONTRO LE ARMI NUCLEARI
Da oggi si potrà firmare presso la presidenza del consiglio comunale, al terzo piano di Palazzo Vecchio, la proposta di legge di iniziativa popolare "Armi nucleari?No grazie!" «per liberare l'Italia dalle armi nucleari». L'iniziativa, promossa da 53 associazioni sia laiche che cattoliche, giunge a seguito del convegno di tre giorni che ha visto riunirsi a Firenze dal 21 al 23 novembre l'esecutivo di Mayors for Peace, l'associazione presieduta dal sindaco di Hiroshima, nata sotto l'egida dell'Onu, e di cui fanno parte 1.828 città in 122 nazioni e territori. Durante la tre giorni il sindaco Leonardo Domenici, vicepresidente dell'associazione, ha invitato anche gli altri sindaci presenti a sottoscrivere l'appello della campagna «un futuro senza atomiche-cominciamo subito» per rinnovare l'impegno e la ferma determinazione per un mondo libero da armi nucleari. I sindaci di Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone), nei cui Comuni si trovano le basi con armi nucleari, sono stati i primi firmatari della proposta di legge d'iniziativa popolare che potrà essere firmata presso gli uffici della presidenza dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 13. (fn)

giovedì 13 dicembre 2007

Edmund Dene Morel e la denuncia del colonialismo

L’amico Davide Delbono mi ha inviato questo testo sulla vita e l’opera di Edmund Dene Morel (1873 - 1924). Lo pubblico integralmente, ringraziandolo.

Nel Febbraio del 1885, poco più di centoventi anni fa, si concludeva la conferenza di Berlino, uno dei più importanti incontri diplomatici del XIX secolo. La conferenza - ricordata ancora oggi come Kongokonferenz - fu indetta dal cancelliere tedesco Bismarck per risolvere le controversie coloniali tra le potenze europee in Africa. Al tavolo delle trattative presero posto i rappresentanti e delegati di Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Portogallo, Olanda, Belgio, Austria-Ungheria, Italia, Danimarca, Svezia, Norvegia, Russia, Stati Uniti e un visir dell’Impero Ottomano; tra i partecipanti non figurò alcun rappresentate degli stati africani. Le potenze europee stipularono diversi trattati, per ristabilire la libertà di commercio nelle colonie africane e affidarono al neonato regno del Belgio l’amministrazione del Congo, un paese vastissimo esplorato da est a ovest soltanto pochi anni prima della conferenza.
Il re del Belgio, Leopoldo II ossessionato sin da giovane dal dare al suo piccolo regno una colonia (Leopoldo era solito ripetere negli incontri pubblici il leit motiv “Il faut à la Belgique une colonie”) aveva finanziato le esplorazioni di Sir Henry Morton Stanley in Congo, paese ricco di materie prime come gomma e olio di palma. Leopoldo II ottenne l’amministrazione coloniale in cambio della promessa di combattere gli schiavisti arabi che da tempo razziavano il territorio del Congo e rapivano uomini, donne e bambini. Il commercio degli schiavi era stato formalmente abolito dalle potenze europee, ma la proposta di Leopoldo fu accolta alla conferenza con grande entusiasmo da parte di tutti i rappresentanti dei paesi presenti. Il re del Belgio passò quindi agli occhi degli europei come il paladino dei diritti umani e il difensore dei popoli oppressi. Leopoldo II da tempo aveva infatti iniziato un’opera, diremmo oggi di disinformazione, per ottenere riconoscimenti sul Congo, un paese grande ottanta volte il piccolo regno Belgio. Dall’Europa agli Stati Uniti, Leopoldo creò incontri ed associazioni ad hoc (come la Conferenza Africana del 1876 da cui nacque l’Associazione Africana Internazionale che poi fallì e prese il nome di Comitato di Studi dell’Alto Congo e poi di Associazione Internazionale del Congo, per arrivare alla Conferenza Antischiavista del 1889) assunse diversi “faccendieri”, come Henry Shelton Sanford, ottenendo così il beneplacito del presidente degli U.S.A. Chester A. Arthur a gestire quello che lui stesso battezzò “État Indépendant du Congo”. Ma fu proprio la conferenza di Berlino il momento fondamentale in cui Leopoldo coronò il suo sogno di sempre: egli infatti avrebbe dovuto gestire il territorio congolese combattendo la schiavitù e garantendo il libero accesso di tutti i mercanti europei in Congo, come se il territorio fosse una zona di libero scambio.
I risultati furono assai diversi: grazie al sostegno di realtà commerciali europee (come alcune camere di commercio britanniche), dei missionari cattolici e di funzionari belgi, Leopoldo istituì un regime moderno in Congo; un sistema che oggi si potrebbe definire “socialismo di stato”, e citando letteralmente le parole di Bertrand Russell, “il più spinto che sia mai esistito”. Infatti il monarca gestì in piena autonomia il territorio come fosse una sua proprietà privata.
Lo Stato Indipendente del Congo non era un vero e proprio possedimento coloniale, dal punto di vista strettamente giuridico, ma una potenza autonoma, con bandiera propria, che avrebbe potuto esercitare in Africa tutti i diritti internazionali di uno Stato europeo. Nel Luglio 1885 Leopoldo II emanò un decreto che affermava la sovranità dello Stato Indipendente del Congo sulle terre limitrofe ai confini prestabiliti, che non fossero occupate dagli indigeni. Il mese successivo con un altro decreto Leopoldo dichiarò che l’amministrazione dello Stato Indipendente del Congo veniva affidata al re del Belgio. Leopoldo II si vedeva riconosciuto in questo modo il potere legislativo ed esecutivo su di un territorio immenso, “perpetuallement neutre”, con diritti assoluti di vita e di morte sulle popolazioni indigene, senza controlli parlamentari ed internazionali di alcun tipo. I successivi decreti, promulgati da Leopoldo II nel 1886, 1887 e 1888, ridussero al limite i diritti dei nativi, con il risultato che gli oltre un milione e mezzo di chilometri quadrati di terre dello Stato Indipendente del Congo, ad eccezione di una parte infinitesimale di territorio comprendente villaggi e fattorie indigeni, diventavano “terres domaniales”. Altri decreti reali estesero i confini della sovranità belga sulle cosiddette “terre vacanti”, ovvero quei territori non coltivati e dove non c’erano insediamenti indigeni: praticamente Leopoldo ormai aveva diritto di vita e di morte sull’intero territorio del Congo.
Negli stessi anni il re divise il territorio in distretti che venivano dati in appalto ad alcune imprese e società concessionarie: i più importanti erano il Domaine Privé e il Domaine de la Couronne, amministrati come riserva reale, dalle imprese Katanga Trust, Mongalla Trust, Lopori-Maringa, Kasai Trust. Si deve ricordare inoltre che in questi anni in Europa veniva inventato il pneumatico e la gomma era la risorsa principale del Congo e lo Stato Libero del Congo uno dei maggiori fornitori di caucciù al mondo.
In brevissimo tempo Leopoldo II trasformò l’amministrazione coloniale in un regno di terrore e morte. Per sfruttare a pieno le risorse del paese, inviò in Congo burocrati e soldati, in modo tale che nell’arco i pochi anni la schiavitù e lo sfruttamento della popolazione divenne il cardine su cui posava il sistema dell’amministrazione belga. I nativi furono costretti dai funzionari belgi e dagli agenti della “Force Publique” al lavoro forzato e subirono un’infinità di torture e violenze che costarono al vita a milioni di congolesi. Tutto questo accadeva nel più assoluto silenzio o quasi…
Leopoldo II aveva vietato ai giornalisti di entrare in Congo, perciò le prime richieste di aiuto arrivarono all’orecchio degli europei degli americani grazie a missionari evangelici e a personaggi del calibro di George Washington Williams, avvocato e difensore dei diritti dei neri d’America, che scrisse una lettera aperta al re esortandolo a cessare il regime schiavista in Congo. La lettera di Williams venne stampata come libello conoscendo una larga diffusione prima in Africa, poi in Europa e negli Stati Uniti d’America, suscitando le ire di Leopoldo. Il sovrano del Belgio e i suoi collaboratori cercarono di dimostrare le falsità delle accuse mosse da Williams, tramite la pubblicazione di articoli faziosi sulle maggiori testate europee, ma non riuscirono ad arrestare il flusso di notizie dal Congo all’Europa. Missionari evangelici svedesi e americani infatti, accusarono il regime leopoldiano, seguendo la strada intrapresa da Williams. Queste prime denunce attirarono l’attenzione di un solerte impiegato della Elder Dempster & Co., un’agenzia marittima di Liverpool, con l’hobby per il giornalismo coloniale, di nome Edmund Dene Morel.
Da tempo questo giovane, nato in Francia nel 1873 e trasferitosi in giovane età in Inghilterra per completare gli studi, si interessava delle questioni commerciali e coloniali dell’Africa centrale. Insieme all’antropologa Mary Kingsley e a John Holt, uno spedizioniere di Liverpool, aveva combattuto contro l’imposizione della tassa sulle capanne in Sierra Leone da parte dell’amministrazione coloniale britannica. Morel, si deve ricordare, non era mosso da uno spirito umanitario, ma da “buon figlio” del neoliberismo qual’era, si batteva affinché le potenze coloniali garantissero libertà di commercio anche ai nativi dell’Africa. Il giovane giornalista credeva fortemente nelle teorie cobdeniane, senza mettere mai in discussione la colonizzazione, e soprattutto riteneva che l’applicazione della teoria della “open door” fosse lo strumento cardine finalizzato allo sviluppo economico sociale degli indigeni africani.
Morel dopo essere venuto a conoscenza delle denunce provenienti dal Congo, si recò in Belgio per lavoro. Il suo datore, Alfred Jones, gestiva un servizio di vaporiere da Anvera al Congo, e Morel era l’unico alla Elder Dempster a parlare il francese.
Alla fine dell’Ottocento in Congo si trovava un esercito di ventimila soldati regolari ed alcune migliaia di mercenari, due linee ferroviarie erano state costruite, e una era in via di ultimazione; la costruzione di infrastrutture necessitava un’ingente quantità di manodopera e di materiali, perciò una flotta di quaranta navi a vapore solcava le acque del fiume Congo giornalmente, trasportando pezzi di ricambio, catene e materiale per le riparazioni. L’amministrazione belga aveva costruito numerose stazioni militari che necessitavano di materiali continuamente per poter portare avanti i lavori.
Morel quando si recò in Belgio, agli inizi del secolo, passò in rassegna le statistiche commerciali scoprendo una discrepanza decisamente rilevante: mentre nelle altre colonie inglesi e francesi l’ammontare delle importazioni superava di gran lunga le esportazioni, nello Stato Indipendente del Congo accadeva il contrario: su 3.529.317 di sterline spesi per le importazioni, solo 2.636.000 di sterline erano spesi per i beni necessari al mantenimento dell’amministrazione, a pagare i soldati e gli indigeni. Sottraendo questa somma al totale, restano solo 893.317 sterline per “pagare” ben 7.360.130 sterline di esportazioni (delle quali 6.146.973 di sterline rappresentano il valore della gomma esportata). Il Congo esportava quindi ingenti quantità i gomma e avorio e i nativi non ricevevano praticamente nulla in cambio, sia per i prodotti, che per le prestazioni lavorative. La prova decisiva per dichiarare guerra all’amministrazione belga in Congo, arrivò con la scoperta sul campo: osservando le navi che venivano caricate sulle banchine di Anversa, Morel si accorse che le vaporiere di linea fra Belgio e Congo trasportano migliaia di fucili, cartucce e altre armi letali.
Morel, dopo essere tornato in Inghilterra, continuò le sue indagini e decise di raccogliere documentazione per denunciare la gestione del Congo da parte del sovrano belga. Per questo motivo si inimicò il suo datore di lavoro e dopo essersi licenziato iniziò una campagna contro Leopoldo II pubblicando articoli sulle maggiori testate nazionali inglesi. In questi anni Morel scrisse un’ingente quantità di articoli per diverse testate britanniche, dalla “Pall Mall Gazette” al “Daily Chronicle”, dal “Manchester Guardian” al “Labour Leader”, dallo “Speaker” al “Daily Herald”, e molti suoi interventi vennero tradotti dalla stampa europea. Inoltre curò l’edizione della rivista da lui fondata “West African Mail”, dal 1903 al 1915, investendo la maggior parte delle sue risorse fisiche e finanziarie, attraversando periodi di grande difficoltà economica.
Grazie alle confessioni e alle prove raccolte, Morel denunciò che gli agenti delle società concessionarie belghe in Congo ogni anno uccidevano migliaia di indigeni, tagliavano mani, rapivano e crocifiggevano donne e bambini, impalavano i resti degli organi genitali degli uomini sulle staccionate dei villaggi dove i nativi ammassavano la gomma raccolta per incitarli a lavorare sempre di più. Tutte queste nefandezze furono dimostrate ulteriormente dalle foto che i collaboratori missionari di Morel gli inviavano segretamente dal Congo.
I primi mesi del 1904 furono segnati da un avvenimento senza precedenti: nel mese di febbraio, in Inghilterra, veniva pubblicato il Casement Report. Roger Casement era un ufficiale del consolato di sua Maestà che aveva vissuto vent’anni in Africa lavorando per società private e per il governo britannico. Il ministero degli Esteri britannico, che era stato sensibilizzato dalle accuse di Morel alla gestione belga del Congo, richiese a Casement di condurre un’inchiesta sulla situazione nell’Alto Congo. Questi per due mesi e mezzo aveva raccolto prove inconfutabili dei delitti compiuti dal regime leopoldiano. Nel suo testo, Casment raccolse le prove di torture, mutilazioni, massacri e violenze di ogni tipo, perpetrati sistematicamente dagli agenti dello Stato Indipendente del Congo e delle compagnie concessionarie, nei confronti dei nativi senza alcuna distinzione di sesso o età in tutto il Congo. Tutto ciò veniva giustificato dagli aguzzini, come lecita difesa dei loro interessi nel commercio della gomma.
Morel, dopo aver incontrato Casement e con l’aiuto di alcuni parlamentari, il 23 Marzo 1904, durante un’azione dimostrativa alla Philarmonic Hall di Liverpool, annunciò la creazione della Congo Reform Association. Gli scopi dell’associazione erano il ristabilimento delle garanzie stabilite dal Trattato di Berlino per i diritti dei nativi del Congo e l’intento di coinvolgere l’opinione pubblica europea e statunitense nella campagna contro il regime di Leopoldo II. All’associazione aderiscono importanti uomini dell’alta società britannica e numerosi politici e letterati del calibro di Sir Arthur Conan Doyle e Bertand Russell. Morel iniziò una campagna di sensibilizzazione pubblica in tutta Europa, nonostante i tentatici di Leopoldo di confutare le accuse che gli venivano rivolte. L'autore fu addirittura invitato a portare il suo messaggio negli Stati Uniti, dove venne fondata una sezione della Congo Reform Association grazie all’impegno di Mark Twain. Il presidente americano Theodore Roosevelt ricevette Morel e, dopo averlo ascoltato, si impegnò a far luce su quanto stava accadendo in Congo.
Questo fu solo l’incipit della campagna di Morel contro Leopoldo II: la produzione di scritti e l’attività di Morel in questi anni si fecero incessanti e l’autore diventò non solo il capo propagandistico della lotta contro il regime di Leopoldo II, ma anche il teorico, lo stratega e l’organizzatore di una protesta che coinvolse sempre più persone di ogni provenienza e classe sociale. Tra il 1902 e il 1906 Morel pubblicò diversi volumi, tra i quali: Affairs of West Africa del 1902, The Congo Slave State. A Protest against the new African Slavery; To the Public of Great Britain, of the United States, and of the Continent of Europe del 1903, King Leopold’s Rule In Africa del 1904, Red Rubber. The Story of the Rubber Slave Trade Flourishing on the Congo in the Year of Grace 1906 del 1906.
Per diversi anni, Morel combatté una lotta senza sosta contro il regime di Leopoldo II, parlando davanti a migliaia di persone in conferenze pubbliche, sensibilizzando la gente comune e le autorità sul problema della schiavitù e dello sfruttamento dei popoli africani, senza arrestarsi di fronte ai numerosi tentativi operati dal sovrano belga per boicottare la sua attività riformatrice.
Nonostante l'impegno di Morel nel dicembre del 1907 il parlamento belga approvò un trattato di trasferimento, nel quale si proclamava la ferma determinazione del governo belga ad identificare il Belgio con la politica africana del proprio re. La pubblicazione del trattato fu accolta da un’esplosione di polemiche e indignazioni. Inoltre Leopoldo II, pochi giorni prima della firma del trattato, ordinò di bruciare gli archivi coloniali. Grazie alla sua determinazione e al sostegno delle autorità politiche e religiose, Morel continuò la sua campagna contro il Belgio e visitò diversi paesi europei per tenere incontri pubblici e conferenze sulla questione congolese. Grazie all'aiuto fornito dal governo britannico e dalle chiese d'Inghilterra, Morel aumentò le pressioni politiche nei confronti del belgio: il 12 ottobre del 1908 il parlamento belga, ormai alle strette, abolì la "Fondazione della Corona", promulgando una "Carta coloniale" che delineava i principi ispiratori dell'amministrazione del Congo, ormai annesso al Belgio. Dopo meno di un anno, il 17 dicembre 1909, morì Leopoldo II, fons et origo di tutti i mali: il suo successore, il principe Alberto, appena salito al trono, firmò i decreti di abolizione della schiavitù e ristabilì la libertà di commercio in tutte le regioni del Congo. Le riforme sulla carta furono però implementate nel corso di molto tempo e ancora oggi molti congolesi possono testimoniare come alla vigilia dell’indipendenza dal Belgio nel 1960, venisse ancora praticato in alcune aree il lavoro forzato e usata la famigerata chicotte, la frusta di ippopotamo creata apposta per dilaniare le carni dei poveri indigeni.
Il radicalismo di Morel nel combattere apertamente la sua causa contro Leopoldo II del Belgio riuscì, non solo a porre la parola fine ai soprusi e ai massacri compiuti dai belgi nei confronti della popolazione congolese, ma anche ad arginare il rischio che un sistema basato sulla schiavitù e sulla totale negazione dei diritti umani si allargasse a macchia d’olio e venisse adottato in altre colonie oltre a quella del Congo. L’amministrazione belga costò al Congo oltre dieci milioni morti e centinaia di migliaia di persone torturate e mutilate. La popolazione del Congo riacquistò la propria libertà a caro prezzo e le ferite inflitte dal regime di Leopoldo II sono sicuramente alla base della tormentata esistenza che il Congo ha vissuto e continua a vivere dopo la sua indipendenza.
Edmund Dene Morel fu per la Gran Bretagna e per il mondo intero, un esempio di moderno David che senza nessun compromesso riuscì ad abbattere il Golia dell’epoca coloniale, Leopoldo II e con lui l’ultimo baluardo della schiavitù. Morel continuò per tutta la vita il cammino intrapreso sulla strada del riformismo, denunciando le catastrofi umane generate dalle guerre e sottolineando l’importanza della pace, come unico mezzo per raggiungere la concordia fra i popoli.
Dopo aver ottenuto il trasferimento del Congo dalle mani di Leopoldo II al Belgio, tra il 1911 e il 1912 si recò prima in Nigeria, per studiare da vicino la colonizzazione britannica poi, ritornato in patria, si dedicò alla questione del Marocco e alle strategie politico-militari attuate dalle potenze europee in Africa. Alle soglie della prima guerra mondiale, Morel prese le distanze dal partito liberale britannico, troppo interessato a mantenere inalterato lo stato delle cose per poter ascoltare le sue richieste, e fondò l’Union of Democratic Control, con l’intento contrastare l’uso spregiudicato della diplomazia segreta nella conduzione della politica estera britannica ed europea.
Prima di essere arrestato per le sue dichiarazioni contro i responsabili della grande guerra, denunciò con veemenza la politica espansionistica attuata dai governi che aveva trascinato il mondo nella catastrofe della prima guerra mondiale. La forte presa di posizione contro la visione unilaterale delle origini del conflitto mondiale e contro l’attribuzione della responsabilità di questo alla sola Germania, scatenò una campagna denigratoria nei suoi confronti orchestrata dagli organi di stampa favorevoli ai partiti della guerra, che costò a Morel sei mesi di prigionia e l’aggravarsi delle sue già precarie condizioni di salute.
In seguito alle rivelazioni sui trattati segreti, rese pubbliche durante la sua prigionia, il mondo politico e l’opinione pubblica britannica ritornarono sui propri passi, riconoscendo la validità delle tesi sostenute da Morel. Ciò gli permise di candidarsi alle elezioni del 1922 nelle fila del partito laburista ed ottenere una vittoria schiacciante sul suo rivale Winston Churchill. La sua attività politica coinvolse i rappresentati della middle class progressista e dei movimenti laburisti legati alla working class britannica, spostando l’assetto politico del partito laburista dal liberismo ottocentesco al socialismo internazionalista del XIX secolo. Negli ultimi due anni di vita Morel condusse una strenuamente campagna contro il trattato di Versailles, che gli impedì di entrar a far parte del gabinetto laburista e di attuare la riforma per istituire il controllo parlamentare sulla politica estera. Nel 1924, all’epoca della sua morte, Morel lasciava un’eredità inestimabile alla storia del pensiero politico mondiale.
Sebbene le sue modeste origini e la sua limitata educazione l'avessero tenuto al di fuori degli ambienti diplomatici e dai circoli politici, egli riuscì a ritagliarsi un ruolo di outsider per osservare dall’esterno e comprendere al meglio le problematiche del mondo politico, legate alla mancanza di coinvolgimento pubblico nel processo decisionale. Il pensiero di Morel si basò su una ricerca della verità in tutti i campi: tramite lo studio di semplici statistiche commerciali scoprì i crimini commessi da Leopoldo II in Congo e, in seguito, con l’analisi delle strategie politico-militari attuate dalle potenze europee in Africa, riuscì a mettere in guardia l’opinione pubblica sul rischio di un possibile conflitto mondiale. Anche in quest’ultimo caso Morel centrò il bersaglio e continuando la sua denuncia contro l’uso spregiudicato della diplomazia segreta nelle relazioni internazionali, nel primo dopoguerra formulò tesi profetiche che hanno potuto trovare un riscontro effettivo negli anni seguenti alla sua morte. Bertrand Russell, uno fra i più importanti filosofi politici dell’età contemporanea, nonché stretto collaboratore di Morel, si riferiva a quest’ultimo, affermando: “nessun altro uomo da me conosciuto dimostrò altrettanto eroica semplicità nel perseguire e proclamare la verità politica”.

Davide Delbono


Breve nota di presentazione del dott. Davide Delbono

Delbono Davide, 28 anni, savonese, nel 2004 consegue il titolo di Dottore Magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche - indirizzo “Studi Europei”, presso l’Università degli Studi di Genova, con una tesi dal titolo: “Politica coloniale, diritti dei popoli e cooperazione internazionale nell’opera di Edmund Dene Morel (1873 - 1924)”.
Nel 2005 ha conseguito il titolo di Master di I livello in “Gestione dei conflitti interculturali e interreligiosi”, istituito dall’Università di Pisa e dalla fondazione I.E.RA.M.G. di Livorno, e partecipa al corso di specializzazione in “Cooperazione allo sviluppo”, istituito dalla Camera di Commercio Italo-Belga di Bruxelles e dalla Regione Liguria (sede di Bruxelles).
In questi anni si è dedicato all’attività giornalistica, con particolare attenzione alla storia delle istituzioni africane e al dialogo interreligioso e interculturale, scrivendo articoli per il sito web “Equilibri.net” e per il mensile savonese “Il Letimbro”.
Dal 2005 collabora con l’Ufficio Cooperazione Internazionale della Provincia di Savona. Per la Provincia di Savona è responsabile del Centro di Documentazione “Libromondo”. All’interno del programma di cooperazione decentrata e di educazione alla pace e alla mondialità della Provincia di Savona ha tenuto conferenze pubbliche sulla storia dei paesi dell’Africa centrale, corsi di formazioni sull’intercultura per insegnanti e studenti delle scuole medie superiori.
Nel 2006 vince il concorso per il dottorato di ricerca in “Istituzioni, idee, movimenti politici nell’Europa contemporanea. Curriculum Costituzioni e Amministrazioni” all’Università degli Studi di Pavia, per il quale attualmente sta conducendo una ricerca dal titolo “Le istituzioni e la pubblica amministrazione dell’ex Congo belga e dell’ex Congo francese nelle costituzioni dell’indipendenza”. Dal 2007 è Cultore della Materia in “Storia delle Istituzioni Politiche” all’Università di Pisa.
A dicembre 2007 è uscita la sua prima monografia “L’espansione europea in Africa e prime voci critiche sul colonialismo. Edmund Dene Morel 1873-1924” per l’Harmattan Italia.
Ha condotto ricerche in Italia e negli Stati Uniti per reperire documentazione edita e inedita per la tesi di laurea e per il progetto di ricerca di tesi di dottorato

Un'iniziativa su don Milani

notizia tratta dalla lista edscuola

Giovedì 13 Dicembre 2007 SAN BONIFACIO.

Domani studiosi e docenti a confronto al centro San Giovanni Bosco Scuola di don Milani? Un progetto attuale Studenti ma anche cittadini diritto allo studio e cultura Aveva in braccio un bambino del Congo, era il 1958. E disse: «Ogni popolo ha la sua cultura, nessuno ne ha meno di un altro». Don Lorenzo Milani era così, pensava a una scuola per tutti, che abbattesse i limiti imposti dalle diverse condizioni di partenza per dare a tutti il diritto allo studio previsto dalla Costituzione. «Quella frase la disse 50 anni fa, aveva già l’idea dell’immigrazione, che è esperienza di oggi. C’era profezia nel suo insegnamento». Ad esserne profondamente convinto è Mariano Mariotto, presidente del Movimento educatori milaniani nato a San Bonifacio 10 anni fa e radicato a livello nazionale, lo stesso Movimento che ha organizzato, domani alle 15.30 al centro San Giovanni Bosco, il convegno «Sulle tracce di don Milani». Mariotto spiega: «C’è bisogno non di ripetere l’esperienza della scuola di Barbiana, quanto di sviluppare i messaggi di don Milani calandoli nella realtà». A cominciare dalla lotta all’abbandono della scuola, ai ragazzi che perde per strada, per dirla con le parole del sacerdote morto 40 anni fa. Al centro del convegno il concetto di cittadinanza: «Quella di persone responsabili», dice Mariotto, «capaci di obiettare indicando un passaggio nuovo, persone di cultura, perché solo la cultura rende liberi». La scuola che si ispira a don Milani è democratica, cerca di aiutare ciascuno ad avere strumenti adeguati a prescindere dalle diverse condizioni di svantaggio che si possono vivere, non è solo nozioni ma si basa sull’esperienza. Tentare di armonizzarla con le esperienze scolastiche pubbliche e private attuali è lavoro delle tante persone che a don Milani si ispirano: «Noi del movimento facciamo volontariato, o partecipiamo a progetti specifici, chi di noi insegna o fa l’educatore porta questi insegnamenti nel proprio lavoro». In Italia ci sono molte esperienze che pescano dall’universo di Barbiana. «Uno dei nostri obiettivi è cominciare a metterle in rete», prosegue Mariotto. Nel veronese, ad esempio. le scuole che portano il nome di don Milani sono, tra elementari e medie: San Bonifacio, Lavagno, Sommacampagna, San Massimo, Palazzina, Santa Maria di Zevio. Il Movimento educatori è in contatto diretto con il centro di documentazione e studi Don Lorenzo Milani di Vicchio (capoluogo di Barbiana), ogni anno organizza un viaggio a Barbiana (la scuola che fu di don Milani) per imparare dai testimoni di quell’esperienza, in particolare ex allievi e conoscenti del sacerdote. Esistono poi altri gruppi, ad esempio a Brescia, e percorsi culturali che si ispirano a don Milani, con un fiorire di progetti. «Solo negli ultimi mesi», elenca Mariotto, «abbiamo partecipato a un progetto a San Pietro di Lavagno, siamo stati a Trento, nel milanese, a Ragusa, abbiamo lavorato con La Genovesa di Verona». Questi i punti cardine del pensiero e dell’esempio di don Milani, cui si ispira il movimento sambonifacese: «Rafforza il principio costituzionale del diritto allo studio; cultura come emancipazione, alfabetizzazione come strumento di coscienza, etica planetaria, solidarietà, pace, legalità, primato delle minoranze culturali, rispetto delle diversità». I vari temi del pensiero di don Milani verranno toccati al convegno di domani con molti relatori, tra cui docenti universitari come Luciano Coarradini (Roma), Emilio Butturini (Verona), Domenico Chiesa (Torino). Sabato alle 10, in via Fiume, alle elementari che portano il suo nome, verrà replicata per genitori e studenti la rappresentazione «Lettera a una professoressa».

F.M.

http://www.larena.it/storico/20071213/provincia/Baa.htm

IL VOLTO DEL NEMICO



Donne provenienti da ogni parte del mondo s’incontrano a Teheran per un confronto sul costruire la pace avviato dal Consiglio ecumenico delle chiese

Gianna Urizio

Qual è il volto del nemico visto da vicino? È una domanda che dovremmo proprio imparare a farci in un mondo sempre condizionato dai media e da un flusso di notizie sempre uguale e che ci condiziona a pensare sempre più in termini di amici e nemici, di «noi» e «loro» dove i «loro» sono ovviamente i cattivi.Sono da poco tornata dall’Iran, proprio uno dei paesi «cattivi». Prima che partissi molti amici, persone ben informate, reagivano con preoccupazione alla notizia: «ma è pericoloso», «mi raccomando, stai attenta», «che Dio ti benedica». Eppure non stavo andando nella fossa dei leoni. È vero, l’Iran è uno dei paesi «canaglia». Ma chi l’ha deciso? Quanti di noi conoscono l’Iran? Se ci pensiamo un attimo, le nostre opinioni sull’Iran scaturiscono dalle letture dei giornali. Leggiamo definizioni del tipo «L’Iran è una potenza nucleare che nutre una pericolosa ambizione egemonica su quell’immensa area geopolitica – e petrolifera – che va da un Iraq ormai debole sino ai paesi del Golfo e che infine arriva nel Medio Oriente propriamente detto». Su questo stesso giornale. Sono definizioni che ci scavano dentro, che lasciano un’impronta, senza che ce ne accorgiamo. E la paura del «nemico» cresce e alimenta i nostri stereotipi. Ci colloca dentro un fronte, dove gli altri sono il nemico.Sono atterrata a Teheran in un’alba buia. Il nuovo aeroporto internazionale è tutto vetri e acciaio, moderno e trasparente. Ed efficiente. In meno di venti minuti sono fuori su un taxi. Bene.Il dipartimento per il dialogo interreligioso del Consiglio ecumenico delle chiese ha organizzato proprio qui un incontro di donne per costruire percorsi di pace. Perché in Iran e perché donne? Perché io poi, che non sono né teologa né particolarmente addentro al dialogo interreligioso? Infine è possibile dialogare con un Paese dove l’Islam è il fondamento dello Stato (repubblica islamica) e quindi assoluto? Da sempre il Cec ha la passione della frontiera: ha aperto dialoghi con l’Est, quando l’Est era il Male; ha accompagnato i percorsi di indipendenza dei giovani Stati africani, non sempre andati a buon fine; si è schierato con forza contro l’apartheid e da anni contro la violenza domestica sulle donne. Temi spinosi che mettono a soqquadro il nostro mondo «occidentale». Ora pretende di dialogare con i cattivi.Con questi pensieri sono atterrata a Teheran. Ancora a Roma, ero andata a leggermi (rapidamente) la Costituzione dell’Iran, in borsa avevo la Lonely Planet, una mia amica che era stata per tre anni corrispondente Ansa a Teheran mi aveva dato un suo libro su questa esperienza e mi aveva introdotto all’addetta culturale dell’ambasciata italiana. Ero dotata di una varietà di foulard di «camicioni» da indossare. L’Iran non è un paese arabo. È la prima constatazione che un visitatore può fare. Tutto è più ordinato. Le strade ampie e pulite, dall’aereo si vede la pianificazione urbanistica e, strano ma vero, le città non sembrano circondate dalle gigantesche bidonville che caratterizzano oramai tutte le grandi città del mondo, da Roma a Phoenix, da Città del Messico a Delhi, da Johannesburg a San Paolo e, a quanto mi dicono, oggi anche Shanghai e Pechino. Sembra quasi o un paese socialista o l’Australia. Più socialista direi.In effetti, girando le città non ho visto mendicanti, solo a Teheran pochi che suonavano e chiedevano un’offerta. Le poche città che ho visto, Teheran, Isfahan e Yazd – purtroppo mi sono persa Shiraz – recano le tracce di un passato robusto. Non una storia di nomadismo, o di semplici commerci. Ma impianti di trasporto dell’acqua del 900 a.C., e forse anche più antichi (Yazd). Produzioni di vasellami in vetro da alto medioevo quando noi facevamo le finestre con l’alabastro. Università medievali annesse alle moschee. Un rinascimento vero e proprio del ‘500 con palazzi e moschee di una bellezza spettacolare (Isfahan). Un impero dell’800 tronfio almeno quanto quello di Napoleone Bonaparte, e poi tracce di invasioni, mongole, turkmene, un succedersi di dinastie degne della storia dei regni Europei, storie di battaglie con i sultani (musulmani) della vicina India. Ovunque oggi una popolazione discreta e gentile. Le donne hanno l’obbligo del copricapo, ma dopo un po’ si colgono le differenze, ci sono donne con il chador (le donne di famiglie religiose o più tradizionali) e donne con il foulard, più o meno stretto, più o meno negligentemente messo a coprire il capo. Anche gli abiti devono arrivare al ginocchio con sotto i pantaloni (le gambe devono essere coperte fino alle caviglie). Tra le giovani si coglie una gara «al corto» e all’attillato.Ma torniamo all’incontro. Il Cec apriva un dialogo con un Istituto per il dialogo interreligioso di Teheran, una Ong diretta da Mohammad Ali Abtahi, vice di Khatami durante la sua presidenza. Abtahi è stato più volte relatore all’Istituto ecumenico di Bossey. È proprio grazie a queste relazioni che è nata l’idea di favorire il dialogo tra donne di diverse fedi. Dentro l’Iran e tra donne di diverse paesi. Diciotto donne in tutto, non teologhe ma donne impegnate in diverse professioni, insegnanti universitarie, formatrici, mediche, psicologhe, giornaliste e registe. L’idea era quello di non incontrarsi per condurre un dialogo interreligioso, ma quella di riflettere, a partire dalle diverse appartenenze di fede, in quale modo la nostra fonte di fede aiuta a costruire la pace con le nostre professioni. Un rovesciamento di campo: al centro dell’incontro non era il dialogo religioso astratto, fatto di principi, concetti, rivelazioni, fonti, ma la costruzione della pace, attraverso la conoscenza, la condivisione di problemi e speranze.Primo obiettivo, per noi delegate del Cec era riconoscere al nostro stesso interno le diversità: che cosa hanno in comune una giovane donna cristiana del Pakistan che lavora in Tailandia per la Conferenza cristiana dell’Asia e una pastora svedese consulente per i temi interreligiosi del vescovo di Goteborg? E un’insegnante universitaria, musulmana del Senegal con me, regista di una rubrica televisiva protestante?O ancora, una insegnante di teologia greca ortodossa con una donna di origini iraniane nata in America e insegnante di comunicazione nel New Jersey?Lo stesso ben presto è stato possibile dire tra le donne iraniane: c’era una psicologa cristiana armena, e una musulmana, consulente del ministro della Salute per l’Aids, due registe, una della televisione musulmana, e una free lance, cristiana; una giovane esperta di economia di una grande banca iraniana, la promotrice di palestre di fitness e aerobica in tutto l’Iran e un’antropologa dell’università di Teheran. Donne diverse che nella diversità hanno constatato ricchezza e possibilità di crescita. Il dialogo è avvenuto in tre ambiti: educazione, sviluppo e informazione/comunicazione. Tavole rotonde durante le quali ci si è potuto ascoltare approcci diversi, contenuti e metodi diversi che sono stati individuati e sottolineati. Infine l’incontro molto atteso: siamo state ricevuto da Mohammed Khatami, il presidente progressista sconfitto alle ultime elezioni da Ahmadinejad. Un signore composto, intelligente che con forza a posto al centro del suo discorso la pace, la pace tra popoli, Stati, popolazione, uomini e donne.In conclusione la sensazione generale è stata quella che l’Iran è un paese complesso e composito, colto e moderno, con un intenso dibattito interno, sia civile sia religioso, che conduce questo dibattito all’interno di uno scenario religioso dato dalla sua Costituzione, ma che forse proprio per questo ha le premesse per costituire una vera evoluzione dell’Islam verso la modernità. Concetti difficili sui quali vorrei provare a ritornare in futuro.
tratto da www.riforma.it