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domenica 31 gennaio 2010

COMUNICATO STAMPA

 

 

 

BASE USA VICENZA

 

 

50 ATTIVISTI ENTRANO NEL CANTIERE

 

 

E SI INCATENANO ALLE GRU [2]

 

 

«La nostra dignità è tutto ciò che abbiamo:

 SARÁ LÓNGA!»

 

 

CONFERENZA STAMPA ORE 13:30

ALLA ROTATORIA DI VIALE FERRARIN

Un documento con il quale spiegare le ragioni della propria azione non violenta: è quanto hanno diffuso le 50 persone entrate pochi minuti fa all'interno del cantiere per la costruzione della nuova base militare al Dal Molin. E uno slogan, "sarà lònga!", che ricorda il "sarà dura!" dei NoTav e sottolinea la determinazione dei vicentini a continuare la propria mobilitazione.

Nel documento – allegato di seguito – si ricostruiscono la vicenda vicentina e, soprattutto, le ultime allarmanti notizie che giungono dal cantiere. Nelle promesse del commissario Costa, scrivono i NoDalMolin, quello della base Usa «doveva essere un cantiere perfetto, all'avanguardia nella tutela del territorio; e, invece, dopo pochi mesi , mostra già i devastanti segni del suo operare». Il riferimento è allo stato della falda acquifera, inspiegabilmente alto in alcune zone, agli alberi distrutti e ai reperti archeologici recentemente scoperti.

«Quest'oggi siamo entrati – spiegano i cinquanta attivisti – per incatenarci alle gru e alle macchine da lavoro. Vogliamo salute, sicurezza, storia». Nel documento i NoDalMolin si chiedono cosa sarebbe avvenuto se la Valutazione di Impatto Ambientale, impedita dal commissario Costa, fosse stata eseguita e fanno notare che tutte le ragioni che hanno motivato 4 anni di protesta stanno trovando riscontri nel cantiere.

«Oggi – concludono i NoDalMolin – il cantiere si deve fermare. Vogliamo che, prima di procedere nei lavori, venga realizzato uno studio approfondito sullo stato attuale della falda acquifera che conivolga tecnici comunali, delegati dell'autorità di bacino e personalità indipendenti».

 

Presidio Permanente, Vicenza, 30 gennaio 2010

 

________________________

RECAPITI

comunicazione@nodalmolin.it

www.nodalmolin.it

Marco 334 9000595

Olol 3381212235

 

 

Alle donne e agli uomini

A coloro che abitano, con noi, questa terra

A quanti ci hanno guardato e ci guardano con speranza e fiducia

A chi, da ogni angolo del mondo ci ha dato solidarietà e sostegno

 

Invaso il Dal Molin

Le donne e gli uomini di Vicenza si oppongono ancora alla distruzione del proprio territorio 

Sarà lònga!

Sono ormai quattro anni che ci opponiamo alla costruzione della nuova base statunitense al Dal Molin: assemblee e manifestazioni, sit-in e azioni hanno scandito la nostra quotidianità, mentre nelle stanze di Roma si decideva, sopra alle teste dei vicentini, l'avvio di un cantiere devastante. E' la nostra storia di donne e uomini che amano la propria terra e le sue risorse; la stessa storia degli abitanti di quel fazzoletto di terra che, migliaia di anni fa, costruirono proprio lì il proprio villaggio, di cui in questi giorni emergono i preziosissimi reperti.

E' la nostra terra che ci parla, che ci guarda, che ci ascolta; mentre noi, donne e uomini, siamo costretti ad ascoltare la melodia della battipali che, come emerso da recenti studi, sta compromettendo la falda acquifera con il suo incessante piantare pali di cemento armato nel terreno. Il più grande tesoro di questa terra – l'acqua – è messo a repentaglio dalla realizzazione delle fondamenta su cui vogliono far poggiare la nuova base di guerra.

Noi lo avevamo detto fin dai primi giorni di questa storia che quello è un territorio di inestimabile valore per la comunità locale; ma che, allo stesso tempo, è particolarmente fragile, delicato, perché custodisce sotto il manto erboso uno degli elementi essenziali alla vita, l'acqua.

Doveva essere un "cantiere perfetto", all'avanguardia nella tutela del territorio, come ci raccontava – mentendo – il commissario Paolo Costa, fido giullare degli statunitensi; e invece, dopo pochi mesi, mostra già i devastanti segni del suo operare: centinaia di alberi decennali distrutti, un territorio sconvolto, dei reperti archeologici unici messi a rischio e, ora, la falda acquifera che sale inspiegabilmente fino ad arrivare ad appena 50 cm dal piano campagna.

E' per queste ragioni – evidenti a chiunque volesse guardare – che ci siamo mobilitati ritardando la partenza del cantiere – che doveva avviare le ruspe già nel novembre 2007 – e strappando l'area civile del Dal Molin, per ora, alla militarizzazione (tutte le carte ufficiali statunitensi, infatti, mostravano il progetto estendersi sull'intera area dell'ex aeroporto).

Cosa sarebbe successo se fosse stata realizzata la Valutazione d'Impatto Ambientale che il commissario Costa ha fatto di tutto per impedire? Sarebbe emerso, semplicemente, quel che già oggi si sta realizzando: il cantiere è incompatibile con l'equilibrio naturale di quell'area così delicata e così ricca.

Quest'oggi siamo entrati, in cinquanta, all'interno del cantiere per incatenarci alle gru e alle macchine da lavoro. Vogliamo salute, sicurezza, storia. La salute dei cittadini deve essere tutelata, impedendo l'inquinamento e l'avvelenamento della falda acquifera; la sicurezza deve essere garantita, impedendo che l'acqua, per difendere la base statunitense, possa esondare verso la città; la storia di questa comunità deve essere difesa, a partire dalle testimonianze del neolitico scoperte all'interno del cantiere.

Non vogliamo vedere la nostra terra devastata (come è avvenuto pochi anni fa al Mugello, dove le ricche falde acquifere di un tempo oggi sono secche a causa della realizzazione della Tav) restando a guardare. Non vogliamo restare silenti e arrendevoli di fronte a tanta devastazione perché la storia dell'uomo ci insegna che, alla lunga, il silenzio rende complici; perché "accettare che la nuova base sarà costruita" ne legittima l'imposizione e rende complici della devastazione; perché abbiamo disegnato un sogno collettivo e vogliamo continuare a dare pennellate di mille colori sul muro dell'indifferenza.

Siamo entrati all'interno del cantiere e abbiamo dimostrato che, dopo 4 anni, Vicenza si oppone ancora. Lo abbiamo fatto con i nostri volti e con le nostre paure, perché siamo donne e uomini di ogni età e professione, con storie diverse ma aspirazioni comuni. Per un giorno la dignità di quanti vogliono democrazia e partecipazione avrà la precedenza sulle esigenze militari statunitensi.

Oggi il cantiere per la nuova base statunitense al Dal Molin si deve fermare; ci domandiamo come possano cooperative come la Cmc continuare a distruggere la falda acquifera senza porsi alcun problema etico e morale. Vogliamo che, prima di procedere nei lavori, venga realizzato uno studio approfondito sullo stato attuale della falda acquiferache coinvolga tecnici comunali, delegati dell'autorità di bacino e personalità indipendenti.

Il Dal Molin è dei vicentini: e noi, oggi lo abbiamo riaffermato. Vogliamo poter dire alle nostre figlie e ai nostri figli, ai nostri nipoti, che noi ci abbiamo provato. E solo il domani potrà dirci se alla fine ce l'avremo fatta, a difendere territorio e democrazia.

La nostra dignità è tutto ciò che abbiamo, è tutto ciò a cui teniamo.

Chi ama Vicenza la difende.

Presidio Permanente No Dal Molin – Vicenza

www.nodalmolin.it

venerdì 29 gennaio 2010

Cari lettori,

anche questa settimana vi segnaliamo alcune delle notizie pubblicate su Nigrizia.it e vi invitiamo a venirci a visitare per leggere anche gli altri approfondimenti.

...Buona lettura!

Somalia: una guerra 'addestrata'

La minaccia islamista ha persuaso i donatori ad intensificare i programmi di addestramento e l'invio di armi al debole governo di transizione, un sistema che, senza controlli sul campo, ha però portato solo nuova legna da ardere nell'incendio somalo. L'intervista a mons. Giorgio Bertin, Vescovo di Gibuti e Amministratore Apostolico di Mogadiscio.

Sudan: una scarpa per Bashir

Dopo numerosi capi di stato, il 'lancio della scarpa' colpisce anche il presidente sudanese Omar Hassan El Bashir. Si tratta solo della meno grave di una serie di vicende che indicano il clima di estrema tensione che il paese sta vivendo in questi mesi di campagna elettorale.

 

Haiti, gli ultimi e il terremoto

Una grande fragilità economica, sociale e istituzionale. E un'instabilità politica strutturale: 32 colpi di stato in due secoli. Fattori che hanno moltiplicato la forza distruttiva del sisma del 12 gennaio.

 

Nigeria, si discute la destituzione di Yar Adua

La malattia del presidente nigeriano Umaru Yar Adua, occupa sempre più spazio nel dibattito politico. Il processo di pace nel Delta del Niger stenta a decollare, mentre il nord cade sotto le violenze tra comunità. I militari preoccupano mentre il capo di stato maggiore assicura il ruolo neutrale dell'esercito.

E poi non perdere

I Video Colloqui con lo scrittore Roberto Saviano.

Nigrizia Multimedia presenta una serie di puntate (11) in cui l'autore di Gomorra racconta i protagonisti di tanti sud...e parola dopo parola, Saviano racconta anche sé stesso..

A proposito delle dichiarazioni del Cavaliere sugli immigrati

La destra è in campagna elettorale permanente (a spese degli immigrati).
Il signor Berlusconi non dice il vero: tutti -tranne chi non vuol vedere, come i suoi elettori- sanno che se vengono promulgate leggi contro un gruppo sociale -gli immigrati- che li costringe all'illegalità (basta che un 'regolare' perda il lavoro, a causa della crisi, che diviene irregolare), è facile che incappino nel rigore della legge...

giovedì 28 gennaio 2010

Cara, caro,

ci sono tante iniziative di cui ti informo in ordine di data (allegandoti i programmi dettagliati)

---Roma sabato 30 gennaio c’è un incontro su "Etica condivisa per una società pluralista" organizzato da movimenti della nostra area (tra cui "Noi Siamo Chiesa")

---Milano 6 febbraio al Guado per la prima volta un vescovo, Mons. Bettazzi, incontra un movimento di omosessuali credenti

---Firenze 6 febbraio, secondo incontro "sinodale" e nazionale dei cattolici su "Il Vangelo ci libera e non la legge"

---Milano 17 febbraio incontro della Consulta per la laicità su "Laicità, religioni, spazi pubblici a Milano e in Lombardia"

---Forlì 18 febbraio incontro su "Nessuno è clandestino agli occhi di Dio"

---Milano 27 febbraio convegno annuale di "Noi Siamo Chiesa" (insieme a tanti altri) su "La coscienza cristiana di fronte alla crisi della convivenza e della democrazia"

Continua così il nostro tentativo di riflettere e discutere controcorrente !!

Cerca di partecipare. Fai girare l’informazione

Shalom Vittorio

per contatti: vi.bel@iol.it

mercoledì 27 gennaio 2010

la Feltrinelli Libri e Musica

giovedì 28 Gennaio

ore 18.00

AMICO DOLCI

VINCENZO BORRUSO

presentano

BANDITI A PARTINICO

Sellerio

di

DANILO DOLCI

Introduce

DAVIDE CAMARRONE

Danilo Dolci, triestino, si trasferì in Sicilia agli inizi degli anni Cinquanta. Voleva partecipare in prima persona alla rinascita del Meridione. Partì, solo, per Trappeto e Partinico, scoprì una miseria impensabile, una desolazione, un abbrutimento, una ignoranza che facevano dubitare di stare in Italia. Stava in mezzo alla gente, la intervistava, la coinvolgeva: fu il primo in Italia a praticare il digiuno per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica e inventò "lo sciopero alla rovescia", che consisteva nel lavorare volontariamente là dove lo Stato era inerte. Così venne riattivata una strada comunale abbandonata. Ma le autorità ritennero che in tale comportamento si configurasse un reato, quello di invasione di proprietà altrui. Per questo Dolci fu arrestato e detenuto per 50 giorni, condotto in manette al processo, e condannato. Per lui si mobilitarono intellettuali come Carlo Levi, Elio Vittorini, Ignazio Silone, Aldo Capitini, Giulio Einaudi e a difenderlo in tribunale fu Piero Calamandrei. In carcere Dolci fu a stretto contatto con tanti poveracci e fu fra i primi a comprendere che la propensione alle attività criminali proprio in quei territori dominati dalla mafia, non poteva essere vinta puntando esclusivamente sulla repressione. Bisognava invece creare opportunità di lavoro. Con questo libro, Dolci voleva far conoscere a tutti le condizioni in cui versava la popolazione di quella terra di banditi, cioè di esclusi dalla società – questo il senso del titolo – anche se Partinico era uno dei paesi della Sicilia attorno a cui si concentrava maggiormente il banditismo. Accanto all'indagine sociologica sulla vita a Partinico, il libro comprende il "Diario per gli amici" di Dolci e i racconti di vita dei diseredati, dei messi al bando.

Introduzione di Norberto Bobbio.

Danilo Dolci (1924 – 1998) nacque a Sesana in provincia di Trieste. Oppositore del fascismo dopo la guerra abbandonò gli studi universitari e dopo una prima esperienza di educatore a Nomadelfia, con Don Zeno Saltini, si trasferì nel '52 in Sicilia, a Trappeto e Partinico. Lì promosse lotte non violente contro la mafia, il sottosviluppo e per i diritti dei braccianti e dei lavoratori. Fra i suoi scritti, Racconti siciliani (pubblicato in questa stessa collana), Inchiesta a Palermo, Lo spreco.

Grazie e buona giornata

Roberta Cusimano

la Feltrinelli Libri e Musica

Responsabile Eventi e Comunicazione

eventi.palermo@lafeltrinelli.it

martedì 26 gennaio 2010

Vittorio Beonio Brocchieri

L'oblio condiviso

Il razzismo incoffessabile degli italiani

Da sempre gli stati hanno moltiplicato a fini politici e pedagogici giornate della memoria, dedicate, appunto alla commemorazione degli eventi, più o meno fausti, considerati fondativi dell’identità collettiva. In Italia, in particolare, negli ultimi anni abbiamo assistito a un proliferare di giornate ufficiali della memoria e del ricordo, che dovrebbero aiutarci a consolidare, o ad aggiornare la nostra memoria storica e quindi la nostra identità collettiva e i valori sui quali essa dovrebbe fondarsi: 27 gennaio in ricordo dell’Olocausto; 10 febbraio in ricordo delle vittime delle foibe; 12 novembre, giornata del ricordo delle vittime militari e civili nelle missioni di pace e altre, ufficiali e ufficiose che al momento mi sfuggono. Questo rinnovato attivismo commemorativo, dopo una stasi di alcuni decenni, corrisponde evidentemente alla volontà di riformulare il profilo dell’italianità all’indomani della svolta rappresentata dalla caduta del Muro e, sul piano nazionale, della fine della prima repubblica.
Il controllo e la manipolazione della memoria hanno evidenti implicazioni politiche Ma in un passo del suo celebre saggio Che cos’è una nazione, Ernest Renan affermava che l’identità di una nazione riposa sulla condivisione non solo della memoria ma anche dell’oblio. Dimenticare insieme è altrettanto importante che ricordare insieme, ovvero commemorare. Ed è per questo, continua Renan, che «il progresso degli studi storici può spesso risultare dannoso alle nazioni», perché la storia riporta alla luce le violenze, le ingiustizie, o semplicemente il caso, che sono quasi sempre all’origine delle formazioni politiche. «L’unità è sempre raggiunta attraverso la brutalità», e un ottimo esempio è fornito proprio dalla storia di Francia, nella quale l’unione fra il Nord e il Sud «fu il risultato di una guerra di sterminio e di un regno del terrore durato per quasi un secolo».

Di "giornate dell’oblio" ovviamente non se ne parla. Istituire delle giornate per commemorare ciò che sarebbe opportuno dimenticare è un ovvio controsenso. E forse, almeno nel nostro caso, nel caso italiano, non se ne sente neppure la necessità. Se infatti da più parti si lamenta il deficit o la fragilità di "una memoria condivisa" che unisca gli italiani, sull’altro versante, quello dell’oblio, siamo messi molto meglio. Si potrebbe dire, esagerando un po’ ma non troppo, che l’Italia è tenuta insieme soprattutto da una nutrita serie di "oblii condivisi", di rimozioni bipartisan. Tra questi oblii condivisi vorremmo oggi ricordarne uno in particolare che ha a che fare proprio la giornata che ricorda le vittime dell’olocausto. L’oblio del razzismo italiano. Partiamo dunque dall’articolo 1 delle legge 211 del 20 luglio 2000 che ha istituito la Giornata della Memoria:

«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».

La prima osservazione da fare è che, nonostante il testo della legge lo prevedesse espressamente, il ricordo della corresponsabilità degli italiani nel varo di una legislazione razzista e nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei è stata quasi sempre relegata in secondo piano. Nel sentire comune, così come si è andato sedimentando fin dall’immediato dopoguerra, gli italiani si sono sentiti o oppositori o, quanto meno vittime, della guerra, dell’occupazione e delle persecuzioni naziste. Quasi mai hanno riconosciuto una loro complicità e, tanto meno, una loro attiva partecipazione. Tutt’al più c’è stato qualche silenzio di troppo, riscattato però, almeno così si dice, da tanti, piccoli o grandi gesti di solidarietà individuale, talvolta di eroismo. Di fatto neppure la giornata della memoria è servita a mettere in discussione il complesso fenomeno della rimozione, dell’oblio, del razzismo italiano. La condivisa convinzione che gli italiani non solo non siano razzisti – come sentiamo ripetere quotidianamente in occasione di fatti come quelli di Rosarno, di Castel Volturno o di tanti altri – ma che non lo siano mai stati, che il razzismo sia qualcosa di radicalmente estraneo, incompatibile con la loro identità e con la loro storia.
Questo convincimento poggia su una serie di premesse più o meno esplicite. La prima è quella della assoluta diversità fra antisemitismo razziale moderno e il tradizionale antigiudaismo cattolico. È questo un presupposto essenziale alla tesi dell’estraneità dell’Italia al fenomeno razzista, dato che il cattolicesimo costituisce una componente primaria dell’identità italiana. Ma è un presupposto quantomeno discutibile, sia dal punto di vista teorico, che da quello storico. È vero che alcuni elementi di discontinuità sono evidenti, prima fra tutti il carattere biologico, e quindi materialista e (pseudo)scientista, dell’antisemitismo nazista, carattere sempre duramente condannato dalla Chiesa cattolica. È però anche vero che non mancano gli elementi di continuità storica e di contiguità ideale fra antigiudaismo e antisemitismo. Il più significativo è forse la visione – antichissima – degli ebrei come motore occulto di un complotto contro la società cristiana, nell’ambito di una complessiva interpretazione cospirativa della storia che attribuisce loro – in combutta, di volta in volta con lebbrosi, musulmani, eretici, illuministi, liberali o comunisti – la responsabilità di tutte le catastrofi, dalla peste alle rivoluzioni francese e russa, abbattutesi sulla cristianità.
La seconda premessa è quella della marginalità delle tematiche razziste all’interno dell’ideologia del fascismo italiano. Le leggi razziali sarebbero solo la conseguenza, deprecabile, della crescente subalternità politica e culturale del fascismo al suo ingombrante alleato tedesco. Infine, l’ultimo tassello di questa strategia autoassolutoria, consiste nell’attribuire comunque al solo fascismo le responsabilità della legislazione razziale e del collateralismo con il nazismo nello sterminio. Se il razzismo è stata solo una parentesi, non inevitabile, della parabola del fascismo, il fascismo stesso è stato a sua volta, una parentesi nella storia italiana. Il fascismo ha finito così per giocare il ruolo della bad company, sulla quale scaricare tutte le passività della recente storia patria: autoritarismo, razzismo, colonialismo, guerra e sconfitta.

Anche queste premesse sono però ampiamente discutibili. Gli studi più recenti, come quello appena pubblicato di Olindo De Napoli, La prova della razza (2009), dedicato al rapporto fra cultura giuridica e razzismo durante il fascismo, hanno dimostrato non solo come le tematiche razziste fossero tutt’altro che estranee all’eterogeneo e un po’ incoerente bagaglio ideologico del fascismo, ma anche come avessero radici profonde nella cultura, nella produzione normativa e nella prassi amministrativa dell’Italia fascista e anche prefascista. Non solo l’antisemitismo era da tempo presente nella società italiana, ma il problema del razzismo non coincideva esclusivamente con esso. Il fatto che una legislazione razziale coloniale, rivolta contro le popolazioni arabe o di colore dell’impero sia stata varata prima delle leggi razziali antisemite resta però ancora ignoto alla maggior parte degli italiani. La difficoltà degli italiani a fare i conti con il razzismo è quindi parte della difficoltà di fare i conti con l’esperienza del fascismo e della guerra, difficoltà dimostrata dal perdurante imbarazzo riguardo alla questione del vasto consenso di cui il regime ha a lungo goduto; ma ad essa si aggiunge la quasi assoluta dimenticanza delle cause e delle conseguenze, per noi e per gli altri, dell’esperienza dell’Italia come potenza coloniale. Io credo però che occorra andare oltre e che il rifiuto di farsi carico del problema rappresentato dal razzismo celi anche problemi più profondi, che riguardano la nozione stessa di identità nazionale italiana e il ruolo che il nuovo stato unitario intendeva assumere sulla scena mondiale.

Per capirne le ragioni, torniamo a quel fatale 1938, l’anno delle leggi razziali. Il 16 luglio di quell’anno, qualche giorno prima del lancio ufficiale del Manifesto degli scienziati razzisti italiani, Giuseppe Bottai, ministro dell’educazione nazionale, annotava nel suo diario:

«Nel colloquio con Landra, Mussolini si sarebbe dichiarato un ‘nordico’, nient’affatto affine ai Francesi, sì bene agli Inglesi e ai Tedeschi. Avrebbe detto: ‘del resto mia figlia ha sposato un toscano, mio figlio una lombarda!’ per affermare il costante istinto della sua famiglia alle genti più pure, dal punto di vista razza, d’Italia. Gli stessi concetti di ‘latinità’ e di ‘mediterraneità’ sarebbero respinti per ‘l’arianità’. La romanità, con riserve, si salva».

Qualche giorno dopo, il 19 luglio, il duce torna sull’argomento e Bottai prende nota:

«Sono stufo… di sentire ripetere, che una razza, la quale ha dato al mondo Dante, Machiavelli, Raffaello e Michelangelo, è di origine africana».

Questa volta Bottai, che nell’occasione precedente si era limitato a un’ironia appena percettibile, si spazientisce e prende più nettamente le distanze:

«Argomento debole, da giornale o comizio: una razza che ha dato Dante etc. può anche infischiarsene di venire dall’Africa».

La distanza fra le posizioni di Bottai e quelle di Mussolini riassume la tensione, all’interno del razzismo italiano, fra la corrente ‘nordica’ e biologizzante, più vicina al modello germanico, e quella ‘latina’ e spiritualista, preoccupata, sempre secondo le parole di Bottai, di «combinare l’idea ‘razza’, con ‘l’idea Roma’», cercando un difficile equilibrio fra particolarismo nazionalista e razzista e l’universalismo romano e cattolico.
Sempre di razzismo comunque si tratta e non a caso Bottai avrebbe poi applicato in modo intransigente le leggi razziali, epurando implacabilmente scuole e università.
È però rivelatore che il bersaglio delle esternazioni razziste di Mussolini non siano direttamente gli ebrei, contro i quali sarebbe stata rivolta la legislazione razziale in preparazione, ma "l’Affrica", la "mediterraneità" e persino, horresco referens, la "latinità". Il duce si vuole "nordico". Ma non si tratta in verità neppure di un razzismo rivolto verso l’esterno, verso i popoli coloniali, i neri, arabi e levantini. Il disprezzo del ‘nordico’ Mussolini è rivolto verso tutto ciò che di "affricano" e "mediterraneo" vi era nell’identità e nella storia d’Italia, nella consapevolezza che questa componente era tutt’altro che secondaria e difficilmente eliminabile. È a questa deprecabile tara meridionale che Mussolini attribuirà poi la responsabilità dei fallimenti bellici italiani, prefigurando alcune possibili, sorprendenti, soluzioni dettategli dal suo sicuro "istinto razziale". Il genero e ministro degli esteri Galeazzo Ciano, riferisce così, in data 14 dicembre 1940, dopo le prime disfatte in Libia, Albania e Etiopia, lo sfogo amareggiato del suocero:

«Nell’avvenire faremo un esercito di professionisti, scremandoli fra dieci o dodici milioni di italiani: quelli della Valle del Po e, in parte, dell’Italia centrale. Tutti gli altri fabbricheranno armi per l’aristocrazia guerriera».

Ma la realtà dei fatti è opposta a quella auspicata. La base industriale del paese è infatti concentrata nelle regioni del nord e quindi sono gli operai della Valle del Po quelli rimasti a fabbricare le armi per i soldati meridionali. Nell’attesa dunque di poter disporre della nuova aristocrazia guerriera – celtica? – padana, il fascismo è costretto a fare la guerra con il mediocre materiale umano, meridionale, che ha a disposizione, e il duce non si stupisce le cose vadano di male in peggio. Ma Mussolini non ha perso tutte le speranze, il suo non è un determinismo razziale dogmatico. La razza italiana può essere migliorata:

«Questa neve e questo freddo vanno benissimo – è ancora un’annotazione tratta dal diario di Ciano, in data 24 dicembre – così muoiono le mezze cartucce e si migliora questa mediocre razza italiana. Una delle principali ragioni per cui ho voluto il rimboschimento dell’Appennino è stata per rendere più fredda e nevosa l’Italia».

E nel luglio 1941, ricevuta la notizia di un duro bombardamento inglese su Napoli, commenta:

«Sono lieto che Napoli abbia delle notti così severe. La razza diventerà più dura. La guerra farà dei napoletani un popolo nordico».

Dunque, mettendo insieme un po’ di Darwin e un po’ di Montesquieu, sullo sfondo di un paesaggio italiano trasfigurato in senso wagneriano, sarà possibile rendere più dura e più nordica la mediocre razza italiana.
Al di là del loro aspetto cinico e grottesco (ma nel diario di Ciano, viveur intelligente ma superficiale, non c’è traccia neppure dell’ironia né del sarcasmo, talvolta, di Bottai), le sortite mussoliniane mettono in luce un aspetto a mio avviso centrale del rapporto degli italiani con il razzismo. Il razzismo moderno in Italia è stato in primo luogo un razzismo interno, legato al sorgere e all’incancrenirsi della questione meridionale, prima ancora che all’esperienza coloniale. È stato così alle origini, con Niceforo e Lombroso, ed in fondo è stato così anche oggi. Non è un caso che il movimento che ai giorni nostri, più di ogni altro a contribuito a sdoganare il discorso razzista banalizzandolo, la Lega, sia nato come movimento antimeridionale. Il problema era e sarebbe rimasto a lungo, come testimoniano le parole di Mussolini e oggi anche gli insulti al Balotelli, l’"Africa" interna, l’Africa che è in noi e l’esausta e "maledetta" e "barbara" razza mediterranea che popolava, e popola, gran parte del paese. In Italia, forse più che in qualsiasi altro paese europeo, il discorso della razza attraversava, e attraversa, il corpo della nazione mettendolo profondamente in discussione. Come ha scritto Aliza Wong :

«in Italia i discorsi che hanno avuto per oggetto l’alterità non sono rimasti confinati nella sfera esterna e dei rapporti internazionali… Il sud ha assunto il ruolo di un "altro" interno, in opposizione allo sviluppo di una cultura nazionale italiana».
(Race and the Nation in Liberal Italy. 1861-1911, Palgrave, 2006, pag. 25).

Quasi subito dopo il raggiungimento dell’Unità il sud è apparso non solo come un problema per il nuovo stato ma come un’oscura minaccia. E questo problema, le fragilità, e i ritardi del sud e l’ipoteca che essi rappresentavano per le ambizioni del nuovo stato è stato interpretato vieppiù in termini antropologici, medici, biologici e razziali piuttosto che storici, politici ed economici.
Quello italiano non è dunque fin dalle origini un razzismo sicuro di sé e assertivo, come, ad esempio quello coevo, tardovittoriano, elaborato per fornire una giustificazione ideologica al dominio coloniale. Quello italiano è un razzismo introverso, pessimista e dolente, che nasce dall’insicurezza sulle reali possibilità, e sulla stessa legittimità dell’Italia a ritagliarsi un posto decoroso nel consesso delle nazioni. Altro che "fardello dell’uomo bianco", la responsabilità civilizzatrice che, secondo Kipling, derivava ai popoli europei dalla loro intrinseca superiorità sugli indigeni. Gli italiani non sono in realtà mai stati sicuri di essere loro dei bianchi optimo jure e degli Europei a pieno titolo. E forse è in fondo questa la vera ragione per la quale è così difficile ammettere l’esistenza di un razzismo italiano e farci finalmente i conti.

tratto da http://www.golemindispensabile.it/index.php?_idnodo=17194&page=1

lunedì 25 gennaio 2010

da Adista Segni nuovi n. 9 - 30 Gennaio 2010 (www.adistaonline.it)

Il presidente Obama
Il Nobel, la riforma sanitaria e la strategia militare

di Paolo Naso
Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? La domanda si impone a poco più di un anno dall’insediamento del 44° presidente degli Usa ed a meno di un anno dalle elezioni di mid term previste per il prossimo novembre.
Per tentare una risposta e quindi un bilancio, occorre richiamare questo aspetto dell’ingegneria costituzionale del sistema politico americano che, nello stesso momento in cui affida al presidente ampi poteri di governo, lo vincola a periodiche verifiche da parte del Congresso. In questi mesi Obama si sta giocando una partita preelettorale di eccezionale importanza: se le elezioni di novembre risulteranno a lui negative, sarà “un’anatra zoppa”, secondo una cruda definizione dello slang politico americano, con una libertà di movimento e di azione politica estremamente limitati. Se, al contrario, l’esito fosse favorevole al “partito del presidente”, il 2011 sarà per Obama il momento d’oro per realizzare le sue riforme e iniziare la corsa per la rielezione.
Non dimentichiamo che Bill Clinton tentò di far passare una riforma sanitaria nei primi anni del suo mandato ma, perse le elezioni di mid term del 1994, dovette rinunciare a un provvedimento di grande valore morale e politico.
La fisiologia politica degli Usa, in altre parole, ci potrebbe riservare un 2010 “prudente” in attesa della verifica elettorale che, se positiva, potrebbe preludere a un 2011 più “coraggioso”.
Ogni valutazione della presidenza Obama va quindi collocata in questa griglia temporale e finisce per essere fatalmente parziale e temporanea: i frutti della presidenza Obama potranno essere valutati e pesati soltanto alla fine del prima mandato. Ma questo non ci impedisce, ovviamente, di tentare qualche bilancio provvisorio.
Il primo risultato riguarda l’immagine del presidente che, nonostante la crisi economica, una nuova escalation di attentati e un’opposizione politica confusa ma non per questo meno aggressiva, resta autorevole e gradita al 49-50% degli americani; in termini di schieramento politico, i sondaggi ci dicono che egli gode del sostegno dell’83% dei democratici, del 46% degli indipendenti e dell’11% dei repubblicani.
Paradossalmente per noi europei, il presidente ha perso dei consensi per la grande riforma varata nell’ultimo anno, quella sanitaria: l’approva solo il 39% degli americani mentre la contesta più o meno apertamente un robusto 52%, in massima parte perché “coinvolge troppo lo Stato”.
Come noto, ancora oggi e sino alla definitiva approvazione da parte del Congresso di un testo che armonizzi le versioni approvate alla Camera ed al Senato, 46 milioni di americani sono privi di un’assicurazione sanitaria che copra le spese mediche, tra essi oltre 11 milioni di minorenni. Non solo: le assicurazioni possono rifiutarsi di garantire la copertura delle spese sanitarie di taluni pazienti disabili o con gravi malattie, così come – arrivate a un certo tetto di spesa – possono “scaricare” il loro cliente. L’unica espressione di sanità pubblica negli Usa – istituita nel 1965 da Lyndon Johnson – è Medicare, un servizio riservato ai cittadini con oltre 65 anni o affetti da particolari patologie.
Come si spiega la “freddezza” dell’opinione pubblica americana nei confronti di un provvedimento che, a regime, avvicinerà gli Usa ai modelli di assistenza sanitaria consolidatisi in tutta Europa decine di anni fa? La risposta è semplice: la cultura della responsabilità individuale o, se si preferisce, dell’individualismo responsabile. La sanità, essendo strettamente legata al corpo, alla cultura ed all’etica dell’individuo, non sarebbe materia di competenza dello Stato. Ciascuno deve essere libero di decidere se e come curarsi; ciascuno deve responsabilmente farsi carico della propria salute. Anche in questo caso e su questo tema la parola chiave è freedom: libertà di scegliere, di decidere, di investire, di rischiare.
Su questo fronte, quindi, nonostante i fatali compromessi, necessari a conquistare la maggioranza del Congresso, quella di Obama appare una netta vittoria: tanto più significativa quanto in evidente controtendenza rispetto all’opinione pubblica.
Nonostante si possano individuare mille limiti nel “piano” che sta uscendo dal Congresso, il dato di fondo è che in materia di assistenza sanitaria gli Usa stanno compiendo una svolta storica, voluta e guidata dalla Casa Bianca.
Un altro paradosso è che agli americani, invece, sembra piacere ciò che la maggioranza di noi europei giudica criticamente, e cioè la politica militare della Casa Bianca in Afghanistan. Ad essere onesti e realisti, Obama non aveva mai lasciato immaginare una Casa Bianca “pacifista” e, già in campagna elettorale, aveva insistentemente distinto tra lo scenario iracheno e quello afghano e, se si era impegnato ad un rapido ritiro dal primo, ha sempre fatto capire che nel secondo si sarebbe mosso con grande prudenza. Per il pacifismo europeo, la doccia fredda è arrivata nell’occasione meno prevedibile, e cioè con il discorso di accettazione del premio Nobel per la pace pronunciato ad Oslo nello scorso dicembre: “Dobbiamo partire della consapevolezza di una verità difficile da mandare giù”, affermò in quella occasione Obama. “Non riusciremo a sradicare il conflitto violento nel corso della nostra vita. Ci saranno occasioni in cui le nazioni, agendo individualmente o collettivamente, troveranno non solo necessario, ma moralmente giustificato l’uso della forza. Dunque sì, gli strumenti della guerra contribuiscono a preservare la pace”. Ed ancora: “Io sono convinto che l’uso della forza possa essere giustificato per ragioni umanitarie, come è stato nei Balcani o in altri posti segnati dalla guerra. Restare a guardare lacera la nostra coscienza e può condurre a interventi più costosi in un secondo momento. Ecco perché tutte le nazioni responsabili devono accettare il ruolo che possono giocare le forze armate, con un mandato chiaro, per il mantenimento della pace”.
Parole nette che nessuna delle numerose citazioni di Martin Luther King o di Gandhi può bilanciare. Il che non vuol dire, come semplicisticamente è stato affermato anche in Italia, che “allora Obama è come Bush”. Obama colloca con convinzione ed insistenza il ruolo politico e militare degli Usa all’interno di un sistema di relazioni internazionali e di strategie negoziali: dall’unilateralismo della precedente amministrazione si passa così al multilateralismo. Non solo: se per Bush la guerra appariva uno strumento morale di lotta al “maligno”, per Obama “non è mai gloriosa in sé e non dobbiamo mai sbandierarla come tale”; diversamente dal suo predecessore, inoltre, il nuovo presidente mostra di voler spingere verso un ampio disarmo nucleare; contro ogni suggestione huntingtoniana di “scontro di civiltà”, infine, nel suo discorso al Cairo all’inizio di giugno ha chiesto un “nuovo inizio” nei rapporti tra gli Usa e l’islam.
Obama commander in chief piace agli americani più del presidente “riformista”: lo appoggia il 47% dei suoi concittadini mentre gli si oppone il 37%: su questo tema si è guadagnato le simpatie del 30% dei repubblicani mentre ha perso qualche consenso democratico. È di poco più di un mese fa, ad esempio, un appello che ha come primo firmatario il teologo pacifista Jim Wallis, direttore della rivista Sojourners, che pur essendo una dei consiglieri spirituali del presidente, critica la sua politica militare in Afghanistan.
Siamo a poco più di un anno di mandato, vissuto tra molti condizionamenti locali ed internazionali, e ci siamo ripromessi di essere prudenti nei giudizi. Tuttavia restiamo convinti che la presidenza Obama abbia ancora molte potenzialità: i suoi interventi sull’Africa, sulla politica energetica, sulle relazioni con la Cina danno la misura di una presidenza che ha un pensiero sul mondo, e che vuole condividerlo con i suoi partner internazionali. Il mondo di Bush è davvero finito nella sua rozza e semplicistica contrapposizione tra buoni e cattivi: quello di Obama è più complesso e mostra di saper capire dove si stanno spostando i grandi centri dell’economia, del pensiero e degli interessi globali.
A noi europei, spesso confusi, lenti e divisi, questo pensiero potrà non piacere e qualcuno ha già iniziato a combatterlo fieramente, da destra e da sinistra. Ma mentre l’America di Obama si muove ed apre nuove strade, l’Europa resta ferma a pensare se stessa.
Docente di Scienza politica presso l'Università di Roma La Sapienza

sabato 23 gennaio 2010

EDUCATIONAL 2.0

Territorio, cittadinanza e ambienti di apprendimento per l’integrazione


Sarebbe necessario un intervento lucido, attento e competente per trasformare la sfida posta dal fenomeno migratorio in opportunità per il futuro del Paese. Sarebbe utile fornire ai nostri insegnanti gli strumenti e le informazioni adatte per intervenire con competenza e cognizione di causa nelle nostre scuole pubbliche. La domanda è: cosa stiamo aspettando? (Borelli, Iacomini, Mezzetti).

Su Education 2.0 tre interventi per parlare di integrazione, di responsabilità e di cittadinanza. Perché i semi dell’accoglienza vanno coltivati a scuola.

Partecipate ai dibattiti e scrivete a community@educationduepuntozero.it .


Maurizio Tiriticco su Cittadinanza e Costituzione

Una nuova disciplina, Cittadinanza e Costituzione, per formare i cittadini dell’Unione europea, persone in grado di costruire la propria conoscenza, di gestire rapporti interattivi con gli altri, di saper collaborare, di risolvere problemi e di confrontarsi con la realtà. Anche attraverso queste competenze si può favorire l’integrazione e l’incontro di culture diverse.

Immigrazione e ambienti di apprendimento: quali metodi d’indagine?

Diffidenza e paura nascono, crescono e diventano insormontabili se non si conosce la realtà, se non si cerca di capire la necessità di cambiamento. Alla scuola F. Di Donato di Roma si sono rimboccati le maniche, fanno ricerca e producono l’innovazione necessaria. Un saggio speciale per Education 2.0.




Immigrati e territorio educativo

Dario Missaglia si interroga sul significato dell’intervento del Ministro Gelmini sul tetto alla presenza degli alunni stranieri nelle classi. La risposta: “La quota è un segnale del disperante dissolvimento di legami sociali che si sono prodotti nel Paese. È una resa al vuoto di territorio educativo, è una resa di una autonomia scolastica debole che vive al chiuso delle proprie pareti invece di proiettarsi sul territorio”.



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mercoledì 20 gennaio 2010

SCIOPERO MIGRANTI: FACCIAMOCI SENTIRE!

Luca Romeo ha inviato un messaggio ai membri di primo marzo 2010 - sciopero degli stranieri - gruppo Genova.


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Oggetto: incontro comitato 1 marzo 2010 genova venerdì 22 ore 18 arci Via S.Luca 15/9


Salve a tutti,

vi comunico che il comitato per lo sciopero del 1 Marzo 2010 di Genova si riunisce Venerdì 22 alle ore 18.00 in Via San Luca 15/9 presso la sede ARCI.

La scelta del luogo è stata fatta per permettere a tutti di poter partecipare più agevolmente.

Vi aspettiamo numerosi e spargete la voce!!


Buona serata


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P.S. Vi ricordo che oggi alle 17.00 al Lagaccio ci sarà il dibattito sull'interreligiosità con Gad Lerner e alle 18.00 sui gradini del Palazzo Ducale l'ora di silenzio per la pace sarà dedicata allo sciopero del 1 Marzo.


PS. 2 nel precente verbale, nella lista dei partecipanti mancava Alessandra Ballerini, presente ma non citata vittima del copia e incolla!


P.S. 3 vi ricordo che per la comunicazione del comitato e i rapporti con giornali e media il riferimento da contattare è Silvia Pedemonte


silvia.pedemonte@gmail.com

martedì 19 gennaio 2010

Cara Caro,

buon anno !!

Alcune informazioni:

---il 6 febbraio ci sarà a Firenze il secondo incontro (dopo quello del 16 maggio) di cattolici che si ritrovano da tutta Italia per discutere della situazione della Chiesa oggi. Nella fase preparatoria ci sono state molte discussioni su come gestire questo incontro che è incentrato su "viene prima il Vangelo della legge" . Ed anche si discute sul seguito da dargli. Ti allego l’invito con il programma e, di seguito, il punto di vista critico di "Noi Siamo Chiesa" che però parteciperà con spirito "dialogante". L’incontro è aperto a tutti.

--- riservandomi di inviarti in seguito il programma ti informo che il 27 febbraio ci sarà a Milano il consueto incontro annuale organizzato da Noi Siamo Chiesa e da altre associazioni. Quest’anno su "La coscienza cristiana davanti alla crisi della convivenza e della democrazia". Argomento urgente e importante, più ora che in passato.

---sono ripetutamente sollecitato a dare informazioni sulla stampa di orientamento non conformista e soprattutto indipendente dalle strutture ecclesiastiche. Ti allego informazioni, anche concrete, sull’agenzia Adista , sui mensili "Confronti" e "Tempi di fraternità". Ti consiglio, se non li conosci, di fartene inviare una copia e poi di abbonarti, se appena puoi. Non ti pentirai. Avrai notizie e riflessioni che trovi raramente da altre parti

---sul sito www.noisiamochiesa.org trovi testi, che non ti allego per non appesantire la mail, che trattano della beatificazione di papa Wojtyla, della morte di Schillebeekc, sul caso Santoro e altro. Puoi commentare i testi.

Shalom Vittorio

ADISTA. Presentazione (www.adista.it)

Adista è uno dei frutti nati dalla spinta al rinnovamento ecclesiale esplosa con il Concilio Vaticano II: alla fine degli anni ‘60 un gruppo di cattolici che militavano a sinistra decise di dare avvio ad un’esperienza che tentasse di porsi come ideale proseguimento delle istanze sorte in quegli anni. Una rivista che si poneva alla frontiera, e intendeva stimolare i propri lettori e l’opinione pubblica su temi quanto mai attuali e spinosi, allora ed ancor più oggi: la democrazia, fuori e dentro la Chiesa, la partecipazione diretta alla sua costruzione, il rapporto Chiesa-popolo di Dio, gerarchia-base, ma anche quello tra Chiesa e mondo, nel senso della necessità per i cristiani ad andare oltre la dimensione specificamente ecclesiale, alla ricerca di un impegno-militanza che concretizzasse nella realtà sociale e politica.

Al posto del verde ogni quindici giorni c’è Adista Segni Nuovi, il numero "arancione" di Adista. Una testata più "giornalistica" di "fatti, idee e confronti", dall'impaginazione accattivante. Un aiuto per orientarsi e discernere, nella grande quantità di informazioni di ogni giorno, alcuni fatti, idee e protagonisti sui quali vale la pena di riflettere e dialogare attraverso una attenta e serena lettura della realtà, distinguendo per quanto possibile ciò che vale da ciò che è solo espressione della prepotenza del sistema politico-economico-mediatico. La coerenza più del successo esteriore. Il dialogo più del duello. La ricerca più della certezza di aver ragione.

A questi numeri una volta al mese si aggiunge un terzo Adista, un numero "rosso", di rassegna stampa internazionale: è Adista Contesti, che si propone, attraverso la pubblicazione di articoli comparsi su periodici non italiani, il recupero della dimensione internazionale, di ampliare la comprensione dei fatti, l’ottica, spesso parziale, dell’osservare gli eventi da un punto di vista solo nazionale.

 

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Bollettino di c.c.p. sul conto n° 33867003 intestato ad Adista - via Acciaioli 7 - 00186 Roma
Assegno bancario non trasferibile intestato ad Adista
Bonifico bancario su CARISPAQ: coordinata IBAN IT 35E0 60400 32000 00000060548 BPMOITQ1XXX
Carta di credito Visa, Mastercard: pagamento sicuro Bankpass
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Confronti Presentazione (www.confronti.net)

Mensile di fede politica vita quotidiana · dialogo · ecumenismo · laicità · pluralismo · culture · etica.

Fedi e culture in dialogo.

Confronti esce dal maggio 1989 raccogliendo l’eredità di "Com-Nuovi tempi", una delle prime testate ecumeniche cui hanno collaborato, per quindici anni, cattolici, protestanti, credenti "senza chiesa" e persone in ricerca sulle tematiche della fede.

Oggi a Confronti collaborano cristiani di diverse confessioni, ebrei, musulmani, buddhisti, induisti e laici interessati al mondo delle fedi. Ogni numero propone servizi e rubriche che si riferiscono alle diverse religioni: è il segno del nostro interesse ed impegno nel dialogo tra le "fedi viventi". In società sempre più pluraliste nelle culture e nelle fedi, il dialogo è lo spazio aperto in cui, abbattuti i muri delle incomprensioni, delle tensioni e dei fondamentalismi, si può realizzare un vero, reciproco riconoscimento.

Tendenze antisemite che talvolta si esprimono nel revisionismo storiografico sulla Shoah , attitudini e modelli razzisti, intolleranza nei confronti delle minoranze sono fenomeni ricorrenti nelle nostre società. Da qui l’impegno di Confronti sul piano della riaffermazione dei valori della memoria, dell’accoglienza, della solidarietà e della costruzione di una società democratica, pluralista e interculturale.

L’ecumenismo resta ovviamente un tratto costitutivo della rivista. Un ecumenismo attento – anche criticamente –alle testimonianze delle chiese nei confronti della realtà che le circonda.

Da dieci anni il dialogo tra le comunità di fede è diventato uno dei tratti caratteristici della rivista e ne fa una voce particolarmente originale nel panorama culturale ed editoriale. La rivista dedica particolare attenzione alle situazioni internazionali in cui, tra le luci ed ombre, le chiese e le fedi svolgono un ruolo significativo e riconoscibile.

Sui temi di rilievo ecumenico nazionale e internazionale, Confronti ha organizzato vari seminari e convegni. La rivista ha promosso programmi di educazione alla pace in Medio Oriente e nei Balcani.

Confronti – Via Firenze 38, 00184 Roma

tel: (+39) 064820503 fax: (+39) 064827901

 

Abbonamenti 2010: 50 euro

80 euro per l’abbonamento sostenitore (con uno dei seguenti libri in omaggio)

Travaglio/Vauro
, Sangue e cemento. Le domande senza risposta sul terremoto in Abruzzo, Editori riuniti

Andrea Leccese
, Torniamo alla Costituzione!, Infinito Edizioni

Manuela Dviri
, Shalom, Omri. Salam, Ziaad (con illustrazioni di Staino), Sinnos editrice

Cecilia Brighi
, Il pavone e i generali. Birmania: storie da un paese in gabbia, Baldini Castoldi Dalai

Furio Colombo
, Post giornalismo, Editori Riuniti

il Germoglio onlus
, Fiori di pace. Esperienze di dialogo fra ragazzi israeliani e palestinesi a Verona, dvd in collaborazione con Confronti

€70

per l’abbonamento estero.
€8

per una copia arretrata

Versamenti su c.c.p. 61288007 intestato a coop. Com Nuovi tempi, via Firenze 38, 00184 Roma, oppure su vaglia postale appoggiato sull’ufficio postale di Roma 13.

È possibile sottoscrivere l’abbonamento utilizzando carta di credito: Visa, Cartasì, Eurocard/Mastercard; per informazioni contattare il numero: 06 482 0503.

Abbonamenti Email

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Tempi di fraternità Presentazione (www.tempidifraternita.it)

Elio Celestino

TARETTO

, frate cappuccino, fonda la rivista nel 1971 trasformando una precedente pubblicazione francescana.

Nel 1976, con lungimiranza, trasforma il mensile, di sua proprietà, in una cooperativa perché non sia più espressione individuale ma di un gruppo di persone, l'attuale redazione.

Da allora il mensile, con alterne vicende, ha sempre seguito gli avvenimenti della chiesa e dell'attualità, fedele all'ispirazione originaria, interessandosi a tutto ciò che si muove nelle piccole realtà quotidiane, dalle comunità di base al movimento "Noi siamo chiesa", dai gruppi di solidarietà e di impegno per il terzo mondo ai movimenti per la pace e contro la globalizzazione proposta dal nuovo modello di sviluppo neoliberista a senso unico, prospettando e proponendo una fraternità che trae la sua origine dal vangelo e da Francesco D'Assisi.

È un punto di incontro di cattolici che credono nella laicità e perciò nella sostanziale parità tra uomini e donne, liberi e schiavi, ebrei e greci di fronte ai grandi interrogativi dello spirito e alle grandi sofferenze dell'esistenza. E che occorre vigilare continuamente poiché le religioni corrono continuamente il rischio di volersi impadronire di Dio e delle coscienze umane anziché servire l'uno e le altre in timore e tremore.

Abbonamento annuo euro 25

• conto corrente postale 29466109 intestato a TEMPI DI FRATERNITA' via Garibaldi 13 - 10122 TORINO
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o carta prepagata ricaricabile (come Postepay, Kalibra ed altre ancora)
o fondi disponibili sul tuo conto PayPal (saldo),
accreditando il conto tempidifraternita@tempidifraternita.it

È possibile sottoscrivere un abbonamento o richiedere gratuitamente due

numeri saggio

della rivista.

 

domenica 17 gennaio 2010

La "questione insegnante": identità, formazione, sviluppo professionale dei docenti ...

La "questione insegnante":

identità, formazione, sviluppo professionale dei docenti

di Giancarlo Cerini

Crisi della scuola e crisi degli insegnanti

Le ricerche italiane sulla condizione professionale dei docenti (1) registrano, anno dopo anno, una crescente situazione di disagio e demotivazione. Certamente influisce su questo "stato di crisi" latente l'insoddisfazione verso livelli retributivi considerati non appropriati per una categoria da cui si pretenderebbe un rinnovato slancio etico-professionale. Si parla spesso di mancanza di una carriera, di appiattimento retributivo, di assenza di incentivi, ma è evidente che ci troviamo di fronte ad una più generale crisi di identità, di visibilità sociale e di autorevolezza.

Di fronte alla società della globalizzazione, della conoscenza pervasiva, del rischio esistenziale, sembra perdersi il "senso" della scuola, il suo essere luogo deputato alla trasmissione della conoscenza (da una generazione all'altra) e alla formazione delle persone e dei cittadini. La scuola rischia di apparire un non-luogo, un gigantesco "falansterio sociale" con il compito di contenere i ragazzi e di fare passare loro il tempo della crescita, possibilmente senza incidenti o danni.

L'immagine è troppo cruda, ma ben esprime il disorientamento che avvolge la società circa i compiti della scuola, e che si riverbera sui genitori, sugli allievi, sugli insegnanti. In una società "senza insegnanti", dove nessuno vuole più imparare, è difficile esercitare il mestiere di istruire, scrive con sarcasmo I. Diamanti in "Maledetti professori". (2)

Le funzioni della scuola sembrano spostarsi dal piano culturale (la scuola come luogo di incontro con i saperi del mondo) al piano simbolico-esistenziale (la scuola come luogo di incontro tra le persone, spazio di reciprocità e di comunicazione). Socrate ha perso la sfida con "Google", allora ripiega sull'idea di convivialità. Più che l'acquisizione di saperi, sembra valere la cortesia nella reciproca disponibilità alla comunicazione. La priorità va allo "stare insieme".

Ma più di recente il "senso comune" della gente sembra risvegliarsi all'insegna di nuove preoccupazioni e insicurezze. Si percepisce l'aleatorietà delle regole o comunque di regole chiare (la metafora è quella della rotonda che regola il traffico velocizzandolo, ma con qualche incertezza sui diritti e doveri di ciascuno) e la nostalgia per i segnali univoci del "semaforo" (verde o rosso, sai come ti devi comportare). Di qui il ritorno in grande stile del voto in condotta, il ripristino dei voti numerici fin dalle prime classi elementari, quasi per evocare la semplicità delle regole primordiali (un 5 è un 5, basta, non c'è niente da negoziare, è una sanzione "oggettiva").

La società "civile", non più capace di "dire i no", chiede alla scuola di rafforzare la sua funzione regolativa-normativa, attraverso i richiami ricorrenti a temi quali la responsabilità, i comportamenti, il profilo educativo, il progetto di vita, la persona. Il riferimento alla funzione culturale viene visto come approccio comportamentista, in cui l'istruzione assolverebbe ad una funzione puramente abilitativa e performativa, quasi inutile e comunque datata. Ciò che conta sembra essere l'acquisizione di "life skills" (abilità per la vita), in una scuola che interagisca di più con i mondi vitali degli allievi.

(...)

http://www.facebook.com/l.php?u=http%253A%252F%252Fwww.edscuola.it%252Farchivio%252Friformeonline%252Fla_questione_insegnante.htm&h=581ff397f061d69f0fa6428b7af3c40d&ref=mf

Buon 2010, Flavio

sabato 16 gennaio 2010

Quaderni di Frontiera é uno spazio di cultura politica, uno strumento di riflessione pubblica che si pone l’obiettivo di allargare il campo della discussione coinvolgendo professionalità e competenze provenienti da diverse tradizioni culturali e politiche del campo democratico.

Guardare all’Italia, all’Europa e alle sfide internazionali è il primo passo per ridefinire un campo progressista all’altezza delle sfide del nuovo millennio.

Quaderni di Frontiera si pone l’obiettivo della promozione di convegni pubblici per alimentare l’incontro tra le migliori energie del riformismo, di divulgarne il pensiero e le idee che su questo spazio saranno riportate al pari di chiunque vorrà inviare le proprie riflessioni.

http://quadernidifrontiera.blogspot.com/

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contatti :

quadernidifrontiera@email.it

La redazione.

mercoledì 13 gennaio 2010

domenica 17 gennaio 2010

Giornata Mondiale del Migrante

1º Festa Interculturale

a partire dalle ore 15

giochi, intrattenimenti e merenda

presso il Seminario Vescovile di Albenga (via G.Galilei, 36)

Ben accetti dolci, musiche e balli tradizionali!

Per informazioni Annalisa 392.6248058

Caritas Diocesana Albenga-Imperia

domenica 10 gennaio 2010

LETTERA APERTA ALL'ONOREVOLE CASINI

Caro onorevole,
prelevo dal suo sito il seguente intervento:

A Rosarno lo stato è morto

A Rosarno lo Stato non c’è, lo Stato è morto. E’ la ‘ndrangheta che regola i rapporti sociali. La Lega ha parlato delle ronde, ma la verità è che a Rosarno aspettavano le forze dell’ordine e non le ronde, che non risolvono nessun problema. E le forze dell’ordine non sono arrivate prima di 24-48 ore.
Bisogna che ci facciamo naturalmente carico dell’indignazione della gente, pero’ bisogna anche ricordare che ci sono degli italiani che sfruttano questi poveracci e li fanno vivere come delle bestie. Se un italiano affitta una casa a 50 poveracci è giusto che l’appartamento venga sequestrato, la legge c’e’ ed è sacrosanta. Non dobbiamo guardare la realtà solo dalla parte che ci fa comodo.

Pier Ferdinando

Carissimo,

ho letto e riletto quello che lei ha affermato e devo dirle che non è vero. Afferma il falso. E le spiego il perchè: a Rosarno lo stato c'era e c'è tutt'ora. Certo, non era presente come dice lei con le forze dell'ordine, ma dimentica che, come sul tutto il territorio nazionale, anche in Calabria vige la legge Bossi-Fini. E la situazione è stata creata da quella legge che non ha risolto problemi ai migranti ma ha creato clandestinità, ha messo, letteralemente, migliaia di poveracci nella mano delle mafie. Sic et sempliciter. Questo è il risultato della mentalità segregazionista della lega e della destra che pensa di risolvere il 'problema' immigrazione solo con la militarizzazione del territorio, l'esclusione, i respingimenti.

A lei è sfuggito questo rapporto fra legge Bossi Fini e clandestinità. Come mai?

Cordialmente

Giuliano

Cari amici,

in qualità di insegnante impegnato in attività di sostegno, di operatore interculturale nonviolento e per l'incontro inter religioso, di educatore e di genitore,

propongo di lanciare di lanciare una campagna di disobbedienza civile contro i provvedimenti razzisti emanati dal Ministro dell'Istruzione.

Mettere un limite al numero degli alunni stranieri nelle classi cosa significa? Si vuole forse attuare una sorta di respingimento scolastico?

Lavoriamo per una società aperta, giusta, solidale e interculturale.

Boicottiamo le misure razziste della lega e dei suoi amici!

Giuliano Falco

In un prossimo post, raccoglierò le reazioni (positive al 99.9% alla mia proposta di campagna di obiezione di coscienza)...

venerdì 8 gennaio 2010




SI TROVINO IMMEDIATAMENTE SOLUZIONI ALL’EMERGENZA ABITATIVA!


IL GOVERNO INTERVENGA PERCHÉ VENGA CONCESSO IL PERMESSO DI SOGGIORNO PER MOTIVI UMANITARI AI LAVORATORI STRANIERI!


La dichiarazione di Paolo Beni, presidente nazionale Arci e Filippo Miraglia, responsabile immigrazione


"Quello che è successo e sta accadendo a Rosarno in queste ore desta una grande preoccupazione. Bisogna adoperarsi perché la prevedibile ribellione di centinaia di esseri umani costretti a vivere nel degrado più estremo e a lavorare in condizioni di schiavitù non degeneri in atti di violenza che mettano a rischio l’incolumità fisica degli immigrati e degli abitanti di Rosarno.


Le autorità locali e nazionali, le organizzazioni che lavorano a fianco dei migranti devono intervenire innanzitutto per riportare la calma, ripristinando le condizioni per l’apertura di un confronto con e tra tutti coloro che nella cittadina vivono, italiani e stranieri.


Il ministro Maroni ha dichiarato che quanto è successo è frutto dell’eccessivo lassismo verso i clandestini. Noi pensiamo che clandestino in quella regione sia lo Stato, che ha consegnato lì, come in tante altre parti d’Italia, il territorio alle mafie, lasciando sole le comunità locali. Le mafie impongono così le loro regole, lucrando sulla pelle di lavoratori che le scelte di questo governo hanno privato dei più elementari diritti umani e civili. Migliaia di "non persone", esposte all’arbitrio, alla violenza razzista, alla discriminazione sancita per legge, a brutali intimidazioni come quella di ieri.


La legge Bossi-Fini e poi il Pacchetto sicurezza, impedendo gli ingressi regolari, si stanno dimostrando i migliori alleati degli interessi della criminalità organizzata, che controlla il traffico di esseri umani, dispone di una quantità di manodopera in nero, senza tutele, costretta all’irregolarità e dunque impossibilitata a denunciare gli aguzzini.


Il governo fa finta di non vedere, non stanzia risorse per politiche di integrazione e intanto nell’Italia del G8 c’è chi vive in ghetti degradati, espropriato della sua dignità.


E’ necessario che finalmente le istituzioni ai vari livelli intervengano, intanto con misure che permettano di risolvere subito l’emergenza abitativa, garantendo condizioni di vita dignitose.


Il governo deve impegnarsi perché vengano concessi permessi di soggiorno per motivi umanitari. Sarebbe davvero inaccettabile se l’esito di quel che è successo fosse una deportazione di massa di quanti non sono in regola col permesso di soggiorno.


Bisogna poi pianificare un intervento sul territorio in grado di ricostruire le condizioni di una pacifica convivenza, prevedendo percorsi di integrazione anche individualizzati che mettano queste persone nelle condizioni di costruirsi un futuro dignitoso nel nostro paese."


08.01.2010


da una mail dell'arciliguria

Rivolta clandestini in Calabria: la faccia tosta di Maroni

http://www.ilponente.com/, gennaio 8, 2010 alle 12:49 -

di VALERIA ROSSI – Sono clandestini, in gran parte: nel senso che non hanno il permesso di soggiorno perché non possono dimostrare di avere un lavoro fisso. Infatti hanno lavori precari (nel vero senso della parola), in nero, con orari impossibili e in condizioni inumane.
Se fossero delinquenti, sarebbero andati a spacciare droga o a sfruttare altre vittime (tipo le ragazze buttate sui marciapiedi): ma non sono delinquenti. Sono persone che vogliono vivere onestamente e quindi vanno a lavorare, anche in queste condizioni assurde, per quattro soldi, reclutati dai cosiddetti "caporali" che appartengono alla ‘ndrangheta calabrese (e che ormai sono arrivati anche qui da noi a fare lo stesso lavoro nelle nostre campagne).
In mezzo a tutto questo, si sono messi anche a sparargli addosso: giusto per gradire. E loro si sono ribellati. Hanno accettato di abitare in baracche di cartone, di lavorare dall’alba al tramonto incessantemente, di dormire per terra: a farsi PURE sparare, ma guarda un po’ che strano, non ci sono stati ed è scoppiata la rivolta.
Ora la situazione è incandescente, ovviamente, anche perché i più scocciati di tutti sono i padroni (mafiosi) che si teme possano risolvere la rivolta a modo loro (si sono già sentiti spari, per ora in aria). E in mezzo a tutto questo, qual è il commento del ministro dell’interno Maroni?
"Eh, c’è stata troppa tolleranza verso i clandestini in questi anni!"
Non saprei davvero come commentare.
Mi chiedo se quest’uomo abbia il coraggio di guardarsi allo specchio quando si alza alla mattina, ma la risposta evidentemente è "sì", ce l’ha eccome.
Si guarda, si piace pure e se ne va a testa alta a governare un Paese in cui gente che vive in queste condizioni, e che nonostante questo LAVORA (non ruba, non spaccia, ma lavora nei campi facendosi un mazzo così), viene colpevolizzata perché si incazza se gli sparano addosso.
Invece si tollera, e si continua a tollerare tranquillamente, il vero e proprio mercato degli schiavi che non c’è solo a Rosarno: c’è ovunque.
C’è nella piana di Albenga, c’è in Valbormida, c’è ovunque serva manodopera a basso prezzo da sfruttare senza pietà, come se fossero animali da sgobbo.
E nessuno dice niente, perché così "il Paese va avanti". Anzi, pure quelli che combattono il nazismo leghista sostengono che "gli immigrati sono necessari perché sono il motore dell’economia" e perché "fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare", permettendo la sopravvivenza di attività che altrimenti si ritroverebbero con l’acqua alla gola.
Ma è normale, tutto questo?
E’ normale stare a guardare senza dire "ba", è normale sentire un ministro di questa Repubblica che dà la colpa alle vittime (come al solito) e che se la tira perché "intanto questo governo ha fermato gli sbarchi", come se c’entrassero qualcosa in questo caso?
Quest’uomo che fa comizi anche di fronte a un’emergenza sociale ed umana, quest’uomo che pensa di "riportare tutto alla normalità" con l’utilizzo delle forze dell’ordine… ha presente di quale "normalità" stia parlando?
E’ normale per lui, per voi, per tutti noi, che degli esseri umani, nell’anno di grazia 2010, vivano come schiavi, sottopagati da mafia e ‘ndrangheta che continuano ad agire indisturbate e si allargano sempre più?
Perché nessuno dice una parola su ciò che sta alle SPALLE di questa rivolta?
Perché continuiamo a tollerare non l’immigrazione, ma questo governo che dovrebbe rappresentare tutti noi, e che vuole riportare il "normale" schiavismo attribuendo la responsabilità di questa rivolta alle vittime, anziché ai colpevoli?
Ma in che razza di Paese stiamo vivendo?
Chi conosce la risposta, per favore, alzi la mano.

Di solito cerco di non pubblicare testi rintracciabili nei blog e siti amici, per questo scritto di Valeria faccio un'eccezione...

con una piccola aggiunta:

quand'è che abbiamo smesso di pensare?

Un forum di Radio Padania Libera (???) ha riportato alcune dichiarazione di leghisti, del tipo 'io sto con la mafia' (ovviamente contro i migranti). Se questo non è razzismo, cos'è? E le affermazioni di Maroni, cosa sono se non bieco razzismo. Sempre quello è!

Non sono perseguibili per legge?

Giuliano

giovedì 7 gennaio 2010

DANIELE MENOZZI:
SI BEATIFICA PIO XII PER SANTIFICARE IL PAPATO

35358. ROMA-ADISTA. "Non si intende disconoscere lo sforzo compiuto dalle istituzioni ecclesiastiche o da singoli cattolici per sottrarre, con tutti rischi del caso, moltissimi ebrei ad una barbarica persecuzione, offrendo una via di scampo a chi probabilmente era destinato alla morte. Ma va affermato con altrettanta chiarezza, senza con questo voler dare un giudizio morale che non è compito dello storico, che non ci fu alcun intervento pubblico di Pio XII contro la Shoah". Daniele Menozzi, docente di Storia contemporanea alla Scuola normale superiore di Pisa ed in particolare esperto del papato del ‘900, spiega ad Adista i rapporti fra papa Pacelli e le dittature nazi-fasciste e dà un’interpretazione delle beatificazioni, realizzate o solo annunciate, dei pontefici dell’ultimo secolo.

I "silenzi" di Pio XII sulla Shoah sono presunti o reali? Cosa dice la ricerca storica?

Pio XII è intervenuto solo a livello diplomatico, facendo presente al governo di Hitler che la Santa Sede non condivideva le persecuzioni contro gli ebrei, ma non ha mai assunto una posizione pubblica di condanna durante la guerra. Nel magistero pontificio del periodo bellico la parola "ebreo" non viene mai usata. Pio XII la pronuncerà solo molti anni dopo, a guerra finita, per dire che non si poteva fare nulla di più di quello che è stato fatto, in una sorta di autoassoluzione. Non è esatto affermare, come alcuni fanno, che fu l’opera teatrale di Rolf Hochhuth, Il Vicario, a dare inizio alla "leggenda nera" circa i silenzi del papa: di questi silenzi si aveva la consapevolezza, anche in Vaticano, già a partire dal periodo bellico. Faccio due esempi: c’è una testimonianza di Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII, che nei suoi Diari, scrive: "Papa Pacelli mi chiede che impressione facciano i suoi silenzi". Inoltre, negli anni ‘50, quando vengono ripubblicati i discorsi di Pio XII, l’allocuzione tenuta al Sacro Collegio nel dicembre 1940 subisce una significativa modificazione: il termine "non ariani" presente nel testo originale viene sostituito con l’espressione "di stirpe ebraica". Non mi pare solo la manifestazione della volontà di eliminare una testimonianza di acquiescenza al linguaggio del razzismo fascista dell’epoca, ma l’espressione della consapevolezza di un "silenzio" cui si voleva retrospettivamente rimediare.

Ma che tipo di informazione aveva Pio XII di quello che stava avvenendo in Europa?

Fino a quando gli archivi di Pacelli non saranno resi disponibili, non si potrà avere una conoscenza esatta di quanto è accaduto in quegli anni. Tuttavia abbiamo già ora degli elementi che è difficile mettere in discussione, perché sono ricavabili dalla pubblicazione voluta da Paolo VI degli Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale proprio in reazione alla rappresentazione de Il Vicario. Alcuni storici gesuiti sono potuti entrare negli archivi e hanno reso noti una serie di documenti per dimostrare quello che aveva fatto la Santa Sede. E proprio da questi documenti, pubblicati nell’ottica di difendere Pacelli, emerge che già dalla fine del 1942 in Vaticano arrivarono testimonianze di privati cittadini, sacerdoti e anche rappresentanti diplomatici, soprattutto dei Paesi dell’Est, che parlavano dei treni carichi di ebrei in partenza verso una "destinazione di morte". La Santa Sede quindi era informata ma, come sembra emergere da qualche notazione a margine, queste informazioni sono state sottovalutate. La ragione pare abbastanza evidente: l’antisemitismo presente nella cultura cattolica dell’epoca portava a minimizzare tali notizie perché, in fondo, quello che riguardava gli ebrei era meno importante di quello che riguardava i cristiani.

Poi c’è la questione dell’enciclica sul razzismo che Pio XI non riuscì a pubblicare e che fu accantonata da Pacelli…

Pio XI, circondato da una certa diffidenza e sospetto da parte della Curia romana, a partire dal 1937, prende posizioni che sempre di più vanno nella direzione di mostrare che il razzismo e l’antisemitismo sono direttamente contrari alla fede cristiana, assumendo anche espressioni molto dure. In questo quadro affida ad un gesuita, che aveva condotto una battaglia contro la segregazione razziale negli Stati Uniti, p. La Farge, la redazione di un’enciclica. Si arriva ad una serie di testi preparatori, fra cui uno che conosciamo, perché è stato pubblicato, in cui si legge un’esplicita condanna dell’antisemitismo, in termini assolutamente nuovi per il magistero. Mettere nelle mani dei vescovi, dei sacerdoti, dei religiosi e dei fedeli un documento in cui esplicitamente si diceva che non era ammissibile per un cattolico l’antisemitismo, avrebbe significato dare uno strumento di analisi e di giudizio che la Chiesa di Roma non aveva ancora fornito e che in quel frangente avrebbe potuto scuotere le coscienze di fronte alla tragedia in atto. Ma Pio XI muore senza fare in tempo a pubblicare l’enciclica, e il suo successore decide di non riprendere quel testo. Nella sua prima enciclica, la Summi Pontificatus, Pacelli non fa nessun riferimento al problema dell’antisemitismo, del razzismo e del nazionalismo, ma ripropone semplicemente e genericamente il tema della "unità del genere umano", che non era altro che il titolo dell’enciclica mancata di Pio XI (Humani generis unitas).

Alcuni storici maggiormente vicini alle posizioni della Santa Sede sostengono che il silenzio di Pio XII fosse tattico, per consentire alla Chiesa di poter aiutare gli ebrei in segreto, per esempio nascondendoli nei conventi. Cosa ne pensa?

È la stessa spiegazione che Pio XII, dopo la fine della guerra, ha dato del suo atteggiamento nel periodo bellico. La ricerca non può però assumere le categorie con cui gli attori giustificano i loro comportamenti, perché il giudizio storico può tenere conto delle intenzioni, ma deve basarsi sui fatti e sui risultati. E i risultati sono che i silenzi di Pio XII non hanno evitato lo sterminio degli ebrei, anzi hanno fatto parte del contesto storico in cui esso si è verificato e che in fondo l’ha permesso. Senza dubbio constatare il silenzio di Pacelli sulla Shoah non vuol dire che non ne fosse intimamente inorridito, né che non la condannasse e nemmeno che non cercasse di limitarne, tramite la via diplomatica, le spaventose conseguenze. Significa solo che non prese pubblica posizione su di essa. E ovviamente la cosa non è irrilevante: la guida di una istituzione avviene con atti pubblici.

Nel 2000 sono stati beatificati Pio IX e Giovanni XXIII, ora si riconoscono le "virtù eroiche" di Pio XII e Giovanni Paolo II: quattro papi in dieci anni. Come mai?

Per secoli la Chiesa di Roma non ha santificato dei papi. Poi, a partire dalla seconda metà del ‘900, proprio con Pio XII, si è iniziato a canonizzare pontefici, soprattutto quelli del XX secolo, avviando una prassi, interrotta solo da Giovanni XXIII e Paolo VI, per cui i papi vengono fatti santi. Mi pare si possa dare una spiegazione: un papato che si sente in difficoltà in una società contemporanea che sfugge al suo controllo tende a rafforzarsi santificando se stesso, in modo da rispondere all’indebolimento sociale con una richiesta di venerazione interna.

Fra l’altro, in questi casi, sono state proposte delle coppie di "opposti": Pio IX, il papa anti-moderno e Giovanni XXIII, il papa dell’apertura alla modernità; ora Pio XII e Giovanni Paolo II, il primo inviso, il secondo molto amato dagli ebrei. C’è una logica?

Si possono cercare le ragioni di questo atteggiamento nella volontà di risolvere i contrasti che emergono nella storia della Chiesa attraverso l’imposizione di un atto di ossequio. Ciò che nella storia è contraddizione viene risolto nella misura in cui si impone di affidare al papato romano e alla sua autorità la soluzione di questa contraddizione. Mi pare che decidere l’onore degli altari per pontefici che sono stati portatori di linee diverse ed anche contrastanti implichi affermare che tali scontri sono irrilevanti ai fini della venerazione che i fedeli debbono ad essi prestare. Significa quindi esigere un atto di sottomissione a quel potere papale in cui risiede in ultima analisi il potere della canonizzazione.

Se Pio XII è così controverso e riapre le ferite con il mondo ebraico, perché il Vaticano vuole comunque andare avanti?

Si possono trovare risposte su due piani. Il primo è politico e riguarda la questione dei rapporti con lo Stato di Israele: il governo di Gerusalemme pone l’eventuale canonizzazione di Pio XII come un elemento che ostacola la messa in pratica degli accordi diplomatici raggiunti con Roma a tutela delle minoranze cattoliche in Israele. Se la Santa Sede non procede sulla via della canonizzazione dimostra, nel gioco diplomatico, di cedere alla richiesta israeliana, mostrandosi così in una posizione di debolezza. Il Vaticano non vuole avvalorare tale debolezza, e quindi promuove la canonizzazione per mostrare che non intende accettare le condizioni poste da Israele per poter realizzare quello che del resto lo stesso Stato di Israele ha già sottoscritto.

Il secondo piano è ecclesiastico. Il papato romano vuole santificare se stesso e quindi deve santificare tutti i pontefici che si sono succeduti. E può raggiungere questo obiettivo nella misura in cui si presenta come sottratto alle dinamiche della storia: il papato romano è santo proprio perché è al di sopra e al di fuori della storia. O meglio agisce, e con determinazione, dentro la storia per poter influire sui suoi processi, ma nello stesso tempo vuole presentarsi agli occhi dei fedeli al di sopra della storia per poter poi chiedere di essere venerato senza essere macchiato dalle contingenti vicende in cui pure è implicato. (luca kocci)

tratto da www.adistaonline.it/ del 7 gennaio 2010