Il "problema" del meticciato
1. Il mito della "venere nera" e la criminalizzazione fascista delle unioni miste
Il meticciato, si afferma ripetutamente ne "La difesa della razza", è "un delitto contro Dio, contro la vita e l’umanità": a differenza dell’omicidio, che "distrugge soltanto l'individuo", esso "distrugge o contamina tutta la discendenza".
Nella seconda metà degli anni Trenta l'unione tra un italiano e una donna nativa, appartenente ad una 'razza' che la scienza aveva 'dimostrato' inferiore, è considerato un crimine che spinge antropologi e legislatori a demonizzare le unioni miste, soprattutto per gli effetti devastanti che l'unione con le indigene avrebbe avuto sulla prole, destinata, secondo antropologi e biologi eugenisti dell'epoca, a ereditare i caratteri fisici e psicologici della madre piuttosto che del padre (nemmeno ipotizzando l'eventualità dell'unione di una bianca con un negro).
Il problema non è di poco conto per l' 'Italia coloniale' che, sin dall'epoca liberale, in Africa ha inseguito anche il sogno voluttuoso di una libertà sessuale che quel continente sembrava promettere.
Già alla vigilia del rush coloniale, uno dei miti più insistiti, destinato a colpire la fantasia dell'opinione pubblica intersecando e sostenendo poi tutta la vicenda coloniale italiana, è infatti quello rappresentato dalla bellezza, dalla sensualità, dalla disponibilità, spesso dalla sfrenata passionalità, delle donne indigene. Un mito che per progressive sedimentazioni, attraverso la letteratura di viaggio e di esplorazione, la produzione giornalistica e fotografica, trasforma l'Africa, nell'immaginario collettivo italiano, in un promettente luogo di 'caccia'. Sulla "venere nera", sulla sua bellezza e disponibilità vengono scritte le pagine più numerose della pubblicistica coloniale, attente a descriverne minuziosamente forme e nudità, sottolineando come tutto in lei, dal portamento agli sguardi ai comportamenti, costituisca un invito a possederla.
La metafora sessuale della conquista e del 'possesso' del continente sostiene la vicenda coloniale italiana lungo tutto il suo corso: non a caso è la canzonetta "Faccetta nera" ad accompagnare - con le sue sottintese lusinghe e promesse - la marcia dei soldati italiani, nel 1935, verso la conquista dell'Etiopia.
All’indomani della proclamazione dell'impero la canzone viene censurata, mentre la regolazione dei rapporti interrazziali, tra direttive ministeriali e formulazioni legislative, diviene oggetto di norme sempre più restrittive, in linea con le scelte razziste del regime fascista.
2. Il meticciato come minaccia alla politica razziale del regime
Prima ancora della formulazione delle leggi razziali del 1938, il decreto legge n. 880 del 19 aprile 1937 proibisce con la reclusione fino a cinque anni "la relazione d’indole coniugale con persona suddita": è la condanna della convivenza con le indigene, il cosiddetto madamato, che costituisce la pratica più comune fra gli italiani in colonia, e che il fascismo trasforma in reato penalmente perseguibile, scorgendovi non solo un danno al prestigio della razza italica, ma anche alla sua integrità, per l’elevato numero di meticci che la 'promiscuità' in colonia ha generato. L'esistenza di una massa "ingombrante" di meticci, per lo più abbandonati (la cui identità è anche giuridicamente problematica oscillando, nella giurisprudenza del tempo, tra quella del cittadino italiano e del suddito coloniale) costituisce un 'problema' sin dall’epoca liberale, tanto che già nel 1905 si pensa di arginarlo attraverso misure che consentano il riconoscimento di paternità anche al di fuori del matrimonio.
Negli anni Trenta il fenomeno è talmente diffuso da costituire una minaccia per l'attuazione della politica razziale del regime: nel 1935, alla vigilia della guerra all'Etiopia, il rapporto tra meticci e italiani in Eritrea è quasi di 1 a 3, e la guerra rischia di aggravarlo, perché le operazioni belliche impegnano nei territori d'oltremare quasi mezzo milione di persone, tra militari e operai militarizzati, e alla fine del conflitto, che si prevede vittorioso, il regime - che, almeno nella propaganda, è sostenitore di un colonialismo demografico - progetta l'emigrazione di qualche milione di italiani nelle terre dell'impero. La preoccupazione è tale da essere fra le prime ad essere prese in considerazione. L'11 maggio 1936, a soli due giorni dalla proclamazione dell'impero, Mussolini telegrafa a Badoglio: "Per parare sin dall’inizio i terribili et non lontani effetti del meticcismo disponga che nessun italiano - militare aut civile - può restare più di sei mesi nel vicereame senza moglie. Autorizzo V.E. a prendere anche altre misure all'uopo [...]".
3. Demonizzazione del meticcio e regolamentazione della sessualità
Parallelamente inizia, come logica filiazione della politica imperial-razzista, una campagna di demonizzazione del meticciato che vede impegnata tutta la stampa di regime, in cui la figura del meticcio diviene quella dell’essere inferiore, tarato da forme di degenerazione e di perversione sia morale che intellettuale.
L'unione con le indigene, secondo la pubblicistica colta e popolare, produrrebbe effetti devastanti per la purezza e l'integrità della razza 'superiore', attraverso una progenie degenerata, geneticamente 'predisposta' all'ozio, all'asocialità, alla sfrenatezza sessuale, tarata dal punto di vista fisico, psicologico e morale. Una "classe di spostati" che non si esita ad accostare, in nome di ragioni 'biologiche', agli ebrei, inducendo a vedere entrambi i gruppi come "elementi di disgregazione e di sovvertimento sociale e politico", così trasformandoli anche in un problema politico e individuandone le 'prove' in una supposta comune adesione al comunismo e al bolscevismo.
Dal punto di vista normativo, l'ambiguità giuridica che in epoca liberale ha accompagnato l’'identità dei meticci viene affrontata già nel 1933: con la legge n.999 del 6 luglio 1933 mutano le disposizioni sulla cittadinanza italiana dei meticci - soprattutto se di padre ignoto - ora concessa solo dopo il superamento della "prova della razza", un esame concepito per accertare, su basi morfologico-antropometriche, i caratteri somatici 'di appartenenza'.
Dopo la proclamazione dell’impero i nati da unioni miste vengono definitivamente risospinti fra i nativi: la legge n. 822 del 13/5/1940, specificamente formulata per i meticci, vieta ogni possibilità di riconoscimento per i nati da unioni miste e proibisce ogni istituzione - collegio o scuola - in passato destinata ad accoglierli o educarli.
Nonostante alcune misure 'esemplari' prese dal regime (rimpatri di italiani colpevoli di "indegno comportamento"; radiazione dall'esercito o perdita del grado per gli ufficiali; processi per i civili); nonostante la mobilitazione della stampa e della propaganda e leggi sempre più restrittive finalizzate alla regolamentazione della sessualità, e nonostante l'istituzione di una speciale "squadra di madamismo" all’interno del corpo di Polizia dell’Africa Orientale (PAI), la conclusione dell'avventura coloniale lascia una popolazione meticcia che, anche se per approssimazione, in mancanza di precisi dati anagrafici, oscilla, secondo più di una fonte, attorno alle 35.000 persone.
Le leggi razziali vengono in massima parte disattese soprattutto per la precoce conclusione del sogno imperiale, ma anche perché, paradossalmente, mal si accordano ad una forma di razzismo di più antica sedimentazione, e maggiormente condivisa, che sin dalle prime fasi dell'avventura coloniale ha legittimato l'uso-abuso del corpo femminile facendone una modalità di 'conquista' fra le più diffuse, attraverso la quale in colonia si è andato traducendo il rapporto di gerarchizzazione e di dominio tra colonizzatori e colonizzati.
tratto da Museo Virtuale delle intolleranze e degli stermini:
http://www.zadigweb.it/amis/index.asp
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