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lunedì 25 gennaio 2010

da Adista Segni nuovi n. 9 - 30 Gennaio 2010 (www.adistaonline.it)

Il presidente Obama
Il Nobel, la riforma sanitaria e la strategia militare

di Paolo Naso
Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? La domanda si impone a poco più di un anno dall’insediamento del 44° presidente degli Usa ed a meno di un anno dalle elezioni di mid term previste per il prossimo novembre.
Per tentare una risposta e quindi un bilancio, occorre richiamare questo aspetto dell’ingegneria costituzionale del sistema politico americano che, nello stesso momento in cui affida al presidente ampi poteri di governo, lo vincola a periodiche verifiche da parte del Congresso. In questi mesi Obama si sta giocando una partita preelettorale di eccezionale importanza: se le elezioni di novembre risulteranno a lui negative, sarà “un’anatra zoppa”, secondo una cruda definizione dello slang politico americano, con una libertà di movimento e di azione politica estremamente limitati. Se, al contrario, l’esito fosse favorevole al “partito del presidente”, il 2011 sarà per Obama il momento d’oro per realizzare le sue riforme e iniziare la corsa per la rielezione.
Non dimentichiamo che Bill Clinton tentò di far passare una riforma sanitaria nei primi anni del suo mandato ma, perse le elezioni di mid term del 1994, dovette rinunciare a un provvedimento di grande valore morale e politico.
La fisiologia politica degli Usa, in altre parole, ci potrebbe riservare un 2010 “prudente” in attesa della verifica elettorale che, se positiva, potrebbe preludere a un 2011 più “coraggioso”.
Ogni valutazione della presidenza Obama va quindi collocata in questa griglia temporale e finisce per essere fatalmente parziale e temporanea: i frutti della presidenza Obama potranno essere valutati e pesati soltanto alla fine del prima mandato. Ma questo non ci impedisce, ovviamente, di tentare qualche bilancio provvisorio.
Il primo risultato riguarda l’immagine del presidente che, nonostante la crisi economica, una nuova escalation di attentati e un’opposizione politica confusa ma non per questo meno aggressiva, resta autorevole e gradita al 49-50% degli americani; in termini di schieramento politico, i sondaggi ci dicono che egli gode del sostegno dell’83% dei democratici, del 46% degli indipendenti e dell’11% dei repubblicani.
Paradossalmente per noi europei, il presidente ha perso dei consensi per la grande riforma varata nell’ultimo anno, quella sanitaria: l’approva solo il 39% degli americani mentre la contesta più o meno apertamente un robusto 52%, in massima parte perché “coinvolge troppo lo Stato”.
Come noto, ancora oggi e sino alla definitiva approvazione da parte del Congresso di un testo che armonizzi le versioni approvate alla Camera ed al Senato, 46 milioni di americani sono privi di un’assicurazione sanitaria che copra le spese mediche, tra essi oltre 11 milioni di minorenni. Non solo: le assicurazioni possono rifiutarsi di garantire la copertura delle spese sanitarie di taluni pazienti disabili o con gravi malattie, così come – arrivate a un certo tetto di spesa – possono “scaricare” il loro cliente. L’unica espressione di sanità pubblica negli Usa – istituita nel 1965 da Lyndon Johnson – è Medicare, un servizio riservato ai cittadini con oltre 65 anni o affetti da particolari patologie.
Come si spiega la “freddezza” dell’opinione pubblica americana nei confronti di un provvedimento che, a regime, avvicinerà gli Usa ai modelli di assistenza sanitaria consolidatisi in tutta Europa decine di anni fa? La risposta è semplice: la cultura della responsabilità individuale o, se si preferisce, dell’individualismo responsabile. La sanità, essendo strettamente legata al corpo, alla cultura ed all’etica dell’individuo, non sarebbe materia di competenza dello Stato. Ciascuno deve essere libero di decidere se e come curarsi; ciascuno deve responsabilmente farsi carico della propria salute. Anche in questo caso e su questo tema la parola chiave è freedom: libertà di scegliere, di decidere, di investire, di rischiare.
Su questo fronte, quindi, nonostante i fatali compromessi, necessari a conquistare la maggioranza del Congresso, quella di Obama appare una netta vittoria: tanto più significativa quanto in evidente controtendenza rispetto all’opinione pubblica.
Nonostante si possano individuare mille limiti nel “piano” che sta uscendo dal Congresso, il dato di fondo è che in materia di assistenza sanitaria gli Usa stanno compiendo una svolta storica, voluta e guidata dalla Casa Bianca.
Un altro paradosso è che agli americani, invece, sembra piacere ciò che la maggioranza di noi europei giudica criticamente, e cioè la politica militare della Casa Bianca in Afghanistan. Ad essere onesti e realisti, Obama non aveva mai lasciato immaginare una Casa Bianca “pacifista” e, già in campagna elettorale, aveva insistentemente distinto tra lo scenario iracheno e quello afghano e, se si era impegnato ad un rapido ritiro dal primo, ha sempre fatto capire che nel secondo si sarebbe mosso con grande prudenza. Per il pacifismo europeo, la doccia fredda è arrivata nell’occasione meno prevedibile, e cioè con il discorso di accettazione del premio Nobel per la pace pronunciato ad Oslo nello scorso dicembre: “Dobbiamo partire della consapevolezza di una verità difficile da mandare giù”, affermò in quella occasione Obama. “Non riusciremo a sradicare il conflitto violento nel corso della nostra vita. Ci saranno occasioni in cui le nazioni, agendo individualmente o collettivamente, troveranno non solo necessario, ma moralmente giustificato l’uso della forza. Dunque sì, gli strumenti della guerra contribuiscono a preservare la pace”. Ed ancora: “Io sono convinto che l’uso della forza possa essere giustificato per ragioni umanitarie, come è stato nei Balcani o in altri posti segnati dalla guerra. Restare a guardare lacera la nostra coscienza e può condurre a interventi più costosi in un secondo momento. Ecco perché tutte le nazioni responsabili devono accettare il ruolo che possono giocare le forze armate, con un mandato chiaro, per il mantenimento della pace”.
Parole nette che nessuna delle numerose citazioni di Martin Luther King o di Gandhi può bilanciare. Il che non vuol dire, come semplicisticamente è stato affermato anche in Italia, che “allora Obama è come Bush”. Obama colloca con convinzione ed insistenza il ruolo politico e militare degli Usa all’interno di un sistema di relazioni internazionali e di strategie negoziali: dall’unilateralismo della precedente amministrazione si passa così al multilateralismo. Non solo: se per Bush la guerra appariva uno strumento morale di lotta al “maligno”, per Obama “non è mai gloriosa in sé e non dobbiamo mai sbandierarla come tale”; diversamente dal suo predecessore, inoltre, il nuovo presidente mostra di voler spingere verso un ampio disarmo nucleare; contro ogni suggestione huntingtoniana di “scontro di civiltà”, infine, nel suo discorso al Cairo all’inizio di giugno ha chiesto un “nuovo inizio” nei rapporti tra gli Usa e l’islam.
Obama commander in chief piace agli americani più del presidente “riformista”: lo appoggia il 47% dei suoi concittadini mentre gli si oppone il 37%: su questo tema si è guadagnato le simpatie del 30% dei repubblicani mentre ha perso qualche consenso democratico. È di poco più di un mese fa, ad esempio, un appello che ha come primo firmatario il teologo pacifista Jim Wallis, direttore della rivista Sojourners, che pur essendo una dei consiglieri spirituali del presidente, critica la sua politica militare in Afghanistan.
Siamo a poco più di un anno di mandato, vissuto tra molti condizionamenti locali ed internazionali, e ci siamo ripromessi di essere prudenti nei giudizi. Tuttavia restiamo convinti che la presidenza Obama abbia ancora molte potenzialità: i suoi interventi sull’Africa, sulla politica energetica, sulle relazioni con la Cina danno la misura di una presidenza che ha un pensiero sul mondo, e che vuole condividerlo con i suoi partner internazionali. Il mondo di Bush è davvero finito nella sua rozza e semplicistica contrapposizione tra buoni e cattivi: quello di Obama è più complesso e mostra di saper capire dove si stanno spostando i grandi centri dell’economia, del pensiero e degli interessi globali.
A noi europei, spesso confusi, lenti e divisi, questo pensiero potrà non piacere e qualcuno ha già iniziato a combatterlo fieramente, da destra e da sinistra. Ma mentre l’America di Obama si muove ed apre nuove strade, l’Europa resta ferma a pensare se stessa.
Docente di Scienza politica presso l'Università di Roma La Sapienza

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