IPAZIA
Firenze, 7.2.2010.
Ho attraversato con disagio, lo confesso, i due giorni – a ruota - "della memoria" il 27 gennaio e "del ricordo" il 10 febbraio. E spiego il perché. Anzitutto, perché ho constatato quanto diffusa sia l’idea bécera e volgare che si sia trattato d’un’applicazione del vecchio principio di un colpo al cerchio e uno alla botte: celebriamo la shoah per far piacere alla "sinistra" che notoriamente è antifascista, poi anche le foibe per accarezzare un pochino la destra e far dispetto ai comunisti. E’ evidente che lo spirito delle due giornate non è affatto questo. Ma è non meno evidente che, ponendosi da un semplicistico e volgare punto di vista del genere, i conti ohimè paiono tornare. Oggi ormai, tolto qualche frangia lunatica e qualche tenace contemptor mundi, tutti hanno rifiutato con almeno apparente convinzione sia il Fattore K, sia il Fattore F: nessuno o quasi si riconosce più nel fascismo e nel comunismo, nessuno ne accetta l’eredità, nessuno ama che gli si ricordi che moltissimi almeno delle generazioni che oggi stanno tra gli ottanta e i quarant’anni hanno simpatizzato più o meno, in passato, per l’uno o l’altro.
Ciò è molto grave: anche perché sta proprio in contraddizione con il contenuto profondo delle giornate "della memoria" e "del ricordo": che non dovrebbero consistere affatto nel richiamare crimini i responsabili dei quali sono ormai quasi tutti morti e sepolti, bensì per assumercene in prima persona, noi come società civile, la responsabilità. Fascismo e comunismo non venivano dalla luna: erano profondamente connessi con la Modernità, con la società di massa, con i problemi dei nostri modi di pensare e di produrre: nessuno di noi può sentirsene "immune" e "innocente"; e se qualcuno proprio proclamasse di non averci niente a che fare, ebbene dovrebbe guardarsi attorno e anche dentro con maggior attenzione. Chi è puro da colpe, i "liberali"? Un’occhiata a quel che è stato il colonialismo tra Cinque e Novecento, che non era né fascista né comunista, basterebbe a rispondere. Allora, i "cristiani"? Qua la cosa si fa più complessa: e, secondo me, più divertente.
Ma per affrontare tale tema debbo fare una premessa. Da molti decenni ormai, pur senza essere un ecologista radicale, sono profondamente convinto che la nostra società debba cambiare stili di vita ed abitudini per molti aspetti del suo modo di vivere e di produrre. Le macchine, ad esempio. L’inquinamento, i costi e i disagi di un insostenibile abuso delle auto, al quale siamo ormai arrivati da molti anni, sono sotto gli occhi di tutti. Bisogna convincercene e agire di conseguenza: cioè rinunziandovi. Pensavo questo già quindici anni fa, quando la mia vecchia Ford Fiesta, alla quale ero molto affezionato, mi piantò in asso. Quella fu una rivelazione. Il primo impulso fu correre a comprarne una nuova: ma immediatamente mi resi conto che quella era la volta buona. Dovevo smettere di predicare a me stesso e agli altri ottime cose; e farne una, semplice, silenziosa. Cominciar a farne a meno. Dare sul serio un contributo minimo ma concreto a ciò in cui credevo di credere. Ora vado a piedi, o con i mezzi pubblici, o quando ho fretta in taxi. Non sarà servito a nulla, ma sono in pace con me stesso. E so anche di qualcuno c'ha ha seguito il mio esempio e vive meglio.
C’entra, questo, col cristianesimo? C’entra: e lo affermo da cattolico credente e praticante, che va a messa e frequenta i sacramenti. Se come società civile ci sentiamo – a torto – innocenti dei crimini del fascismo e del comunismo (di quelli del liberalismo preferiamo non parlare, fingendo che non esistano), quelli di noi che sono cristiani poi si sentono davvero come tanti angioletti. Il cristianesimo è una religione di pace, non di guerra come l’ebraismo della bibbia e come l’Islam; e il cristianesimo si è sempre affermato con la dolcezza e con la persuasione, non con le armi come hanno fatto i musulmani. Certo, c’è stato qualche incidente di percorso che siamo disposti ad ammettere e del quale abbiamo chiesto perdono: le crociate, l’inquisizione, il processo a Bruno e a Galileo, qualche pogrom contro gli ebrei, i conquistadores nel Nuovo Mondo… vabbè, nessuno è perfetto. Ma in linea di massima siamo puliti. O comunque meglio degli altri.
Questo è il punto. Manco per idea. Le cose non sono andate per nulla così. E’ senza dubbio vero che il cristianesimo ha avuto martiri purissimi e tanti uomini e donne che hanno saputo rispondere con l’amore alla persecuzione. Eppure in linea di massima, dall’editto di Teodosio che faceva del cristianesimo l’unica religione di stato dell’impero fino alla colonizzazione-cristianizzazione dei popoli indigeni d’Africa, d’America e d’Australia, la storia della conversione al cristianesimo nel mondo è stata prevalentemente – all’opposto di quanto si dice e si pensa comunemente – una storia di costrizione, di repressione e di oppressione. L’Islam – ancora una volta, contrariamente a quel che si dice e si pensa – ha avuto molto meno bisogno del cristianesimo della violenza per diffondersi.
Così è, se vi pare: e non illudetevi, non è una boutade paradossale. Chi sa qualcosa di storia appena un pochino sul serio, conosce benissimo questo dato di fatto. Chi lo nega, o è ignorante o è in malafede. Sono disposto a deliziarvi con una serie di articoli a puntate su questa divertente questione. Ne sentirete delle belle. E inconfutabili.
Del resto, che parecchi buoni cristiani abbiano ancor oggi la coda di paglia al riguardo, lo prova un fatto di cronaca. In Italia, nonostante le proteste e addirittura la formazione di comitati – dei quali, significativamente, non parla nessuno – non si riesce a vedere nelle sale cinematografiche il film di Alejandro Amenabar, Agora.
Perché mai? Le critiche in tutto il mondo sono ottime. Io l’ho visto a Parigi e posso assicurare che è eccellente: storicamente molto attendibile, ben interpretato, avvincente e commovente nella trama, firmato da un regista oggi tra i più apprezzati. E allora, che cos’ha che non va? E chi lo sta fermando?
Alla seconda domanda non so rispondere. Alla prima sì. Che non va, Agorà ha soltanto la storia di Ipazia, che anche i ragazzi del liceo dovrebbero conoscere. Ipazia era la figlia del matematico e filosofo Teone, ultimo rettore – per quanto ne sappiamo – del Museion di Alessandria. Era una giovane e bella donna, filosofa e scienziata a sua volta, votata all’insegnamento, al sapere e alla casta vita di studiosa. Nei tumulti che si verificarono nella città egiziana, tempio del sapere antico, durante il 415 d.C., Ipazia fu catturata da una torma di monaci fanatici venuti dal deserto, trascinata nella chiesa di Kaisarion e fatta letteralmente a pezzi. Dietro quei monaci brutti, sporchi e cattivi – tristemente noti come circelliones o circumcelliones – c’era ohimè la venerabile figura del patriarca alessandrino Cirillo, Padre della Chiesa, che non aveva mancato d’istigare quei fanatici contro la filosofa, accusandola di empietà e di magia. Un suo venerabile collega, Sinesio di Cirene, ch’era stato allievo d’Ipazia e ne conservava un affettuoso e rispettoso ricordo, fu testimone dell’evento.
Certo, può non piacer, in alcune sequenze di Agorà, assietre allo spettacolo di quella gentaglia lugubre che usa le croci come corpi contundenti. Ma non siamo per nulla lontani dalla verita storica.
Ecco perché ho parlato della mia avversione all’abuso dell’auto e della mia rinunzia a usarne personalmente. Papa Giovanni Paolo II ha ripetutamente parlato della necessità di "purificare la memoria". Tutti si sono attestati su quelle due o tre cosine della cultura diffusa, che bignamescamente indica le crociate e l’inquisizione come unici momenti nei quali le comunità cristiane si sarebbero rese responsabili di violenza. Non è affatto vero. Non è così. La mia sfida ai cristiani, se davvero vogliono giudicare le violenze altrui, è che comincino col riconoscere sul serio le loro. Cominciamo con lo smetterla di fare il gioco delle tre carte negando sottobanco la visione di Agorà agli italiani: Che cosa c’è da aver paura? Della polemica suscitata da quattro scalcagnati di anticlericali? Che parlino, questi nipotini di Oliver Cromwell o di Pombal o di Robespierre o di Bixio o di Trotzkji o di Callès o di Churchill o di qualunque altro macellaio essi riconoscano come maestro. Ce n’è anche per loro. Ce n’è per tutti, perché, come "dicheno" a Roma, "er piu pulito c’ha la rogna".
Franco Cardini
Cari amici,
lo so che l'articolo è un po' datato (del resto è stato scritto a febbraio) ma lo è solo per quanto riguarda l'uscita del film che, se non vado errato, è ormai prevista anche in Italia. Ma quello che mi è piaciuto è quanto il professore Cardini scrive...del rersto, è sempre stato tra i miei storici preferiti e vi invito a visitare il suo sito:
www.francocardini.net
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