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domenica 30 gennaio 2011

LA CONDIZIONE DELLA DONNA E DEL MINORE IMMIGRATO. Incontro ad Albenga


Ero straniero e mi avete accolto (Mt 25,35)
Per il cristiano ogni terra straniera è patria e ogni patria è terra straniera (anonimo, lettera a Diogneto).


Sabato 29 gennaio si è tenuto ad Albenga l'incontro per la presentazione del Dossier Immigrazione 20101 realizzato da Caritas/Migrantes, dedicato al tema La condizione della donna e del minore immigrato. È stato un pomeriggio molto interessante con l'unico neo della non eccessiva partecipazione della popolazione. Hanno brillato per l'assenza gli insegnanti e i rappresentanti dell'Amministrazione Comunale (del resto, cosa si può aspettare da un Comune a guida leghista?). Gli organizzatori mi hanno chiesto di partecipare, in qualità di relatore. Mi ero preparato un intervento che poi, per rispetto della platea, ho riassunto. Lo pubblico integrale, sperando che possa essere utile a qualcuno.
Ringrazio gli organizzatori per avermi dato l'opportunità di partecipare a questa iniziativa. Mi sembra opportuno, in un momento storico come l'attuale, in cui le parole sembrano essere state spogliate del loro significato e svuotate di ogni riferimento al reale, basti pensare alla politica rivedere il concetto di 'integrazione'. Ormai se ne riempiono la bocca tutti: ne parla persino Gianfranco Fini, uno dei padri della famigerata legge Bossi-Fini...
Integrazione, termine apparentemente buono e utile, in realtà è più infido di quanto non sembri. Personalmente non ne posso più di sentire di parlare di 'integrazione', per alcuni semplici motivi: sono sempre 'loro' che devono integrarsi (e cioè adeguarsi ai nostri usi e costumi);. sono sempre 'loro' che devono integrarsi: così facendo si afferma -in maniera neanche tanto velata- la superiorità della 'nostra' cultura e, conseguentemente, l'inferiorità della cultura altrui. Che poi generazioni di studiosi si siano affannati a dirci che tutte le culture hanno pari dignità e che non ne esistono di 'superiori' e di 'inferiori', alla gente poco importa (don Lorenzo Milani scrive -cito a memoria- che nessun popolo è privo di cultura e tutte hanno eguali dignità). E poi, non è forse giunta l'ora che la smettiamo di pensare a un 'noi' e a un 'loro' come gruppi omogenei? Noi chi? Loro chi? Ed è per questo motivo che scriverò sempre 'noi' e 'loro' tra virgolette. Sono sempre 'loro' che devono integrarsi (perché sono ospiti e noi 'padroni in casa nostra').

È per questi motivi che preferisco parlare di interazione e la differenza non è solo in una lettera in più o in meno. La differenza è sostanziale: nell'interazione c'è il riconoscimento dell'altro, della sua persona; c'è la potenzialità di lasciarsi influenzare da qualcosa dell'altro, di un completamento reciproco e di un reciproco miglioramento. C'è, in questa parola, il riconoscimento di una progettualità cui possiamo contribuire: papa Giovanni XIII non ci ha forse ammonito affermando che “quando incontri un viandante non chiedergli da dove viene, ma dove va”. Trovo questa frase stupenda: ovviamente non penso che il suo autore la intendesse nel senso che il viandante (il migrante moderno) se ne debba andare via subito o che non ci importi del suo passato ma che intendesse sottolineare la progettualità del suo andare (e del suo venire). Progettualità che a molti di 'noi' sfugge, presi come siamo ad ammirare il proprio io, la propria storia, le proprie radici, compresi dall'ascoltare le proprie parole dimenticando che diversi (dai filosofi greci al Talmud) hanno scritto che “abbiamo due orecchie e una sola bocca, segno che dobbiamo più ascoltare che parlare” e se la gente (categoria sociologica dall'incerto statuto epistemologico, ma caratterizzata da un alto peso politico, anche perché spesso i politici parlano in sua vece...) ascoltasse un po' più le ragioni dell'altro, forse non saremmo al punto in cui siamo.
Nel mio lavoro quotidiano sono venuto a contatto con una moltitudine di migranti e con i loro figli (sono insegnante in una scuola elementare). La popolazione della Scuola dell'Infanzia e di Base albenganese (l'ex scuola materna e elementare) è suddivisa in due Circoli Didattici. Nel Primo Circolo, il 61% dei bambini stranieri è nata in Italia mentre nel Secondo la percentuale è leggermente minore, ma sempre vicina al 50%). Se questi bimbi sono nati nel nostro paese, hanno frequentato la scuola italiana, hanno abitudini alimentari italiane, trascorrono il tempo libero o extrascolastico come i loro compagni italiani, se hanno addirittura come prima lingua (o unica lingua) quella italiana, perchè non considerarli italiani? Perché non dare la cittadinanza a chi nasce nel nostro paese? Cosa temono gli oppositori che questi bambini inquinino l'italica razza? A parte che i maggiori genetisti hanno rigettato il concetto stesso di razza, basta dare un'occhiata a qualunque atlante storico o girare per Albenga ad occhi aperti per comprendere come il nostro popolo sia nato da un crogiolo di altri popoli che, per motivi diversi, sono venuti nel corso del tempo, a stabilirsi nella penisola.
E veniamo al permesso di soggiorno. A mio parere occorre rovesciare la logica imperante che lega il permesso di soggiorno al posto di lavoro e abbattere questo sistema di cose per cui un operaio straniero oggi è in regola perché lavora, domani diventa un irregolare perché l'azienda è stata chiusa per la crisi e magari 'delocalizzata'. A questo proposito, vorrei aprire una parentesi: la Convenzione Internazionale dei Diritti del Bambino, adottata anche dal nostro paese, prescrive che egli abbia diritto a diverse cose, tra cui l'istruzione, a prescindere dallo status legale dei suoi genitori. Nessun bambino è irregolare dunque. É pur vero che nessuno, neanche l'UNICEF o altre agenzie deputate, vanno a chiedere quale sia lo statuto dei bambini respinti nel deserto libico da Gheddafi, grazie a una legge voluta dalla Lega). Occorre riconoscere la persona al di là della mera forza lavoro che non ha diritti (all'istruzione, alla famiglia, alla sanità, all'espressione religiosa), che dovrebbe sparire quando non lavora per quattro spiccioli o fa, al nostro posto, lavori sottopagati e pericolosi per la salute. E non sono episodi che accadono solo nel profondo sud e Rosarno Calabro è molto più vicina di quanto non credano molti benpensanti nostrani.
Dobbiamo uscire dalla logica economicistica e entrare nell'ottica umana, riconoscendo appunto l'appartenenza all'unica razza, quella umana, dove tutti devono avere pari dignità, eguali diritti e uguali doveri, avere le stesse opportunità. Certo, un paese dove il 15% della popolazione detiene la metà della ricchezza nazionale è un paese segnato da discriminazione e ingiustizie, dove qualcosa non funziona...e sempre più italiani vivono al di sotto della soglia di povertà; addirittura stanno aumentando i ritorni in patria di ex migranti.

E qui si potrebbe aprire una breve parentesi: aumentano sempre più gli italiani che hanno bisogno di aiuto, anche nelle scuole dove, con le volontarie dell'Associazione di cui sono presidente (il Centro Scuola Territorio), abbiamo deciso di non intervenire solo sugli alunni stranieri ma anche sugli alunni svantaggiati italiani. E questo non solo per rimediare a una carenza istituzionale, ma anche per prevenire discorsi razzisti che già iniziavano a serpeggiare (del tipo 'ecco aiutano gli stranieri, ma ai nostri bambini nessuno ci pensa'; oppure 'per colpa degli stranieri la classe rimane indietro' rispetto a che cosa non s'è mai saputo...). Insomma le volontarie -che qui ringrazio- intervengono sui bambini che hanno bisogno, a prescindere dalla loro nazionalità. Anche perché a volte, in bimbi stranieri imparano velocemente la nostra lingua...Un'altra notazione: si sono avviati processi simili a quelli avvenuti quando c'è stato oramai una trentina d'anni fa l'inserimento degli alunni diversamente abili: ci sono stati esempio di tutoraggio spontaneo (bambini che da soli decidevano di aiutare compagni neo arrivati, facendo il proprio compito e sostenendo gli altri, senza che nessuno glielo chiedesse). Ma, poiché sono bambini era ed è bellissimo vederli giocare insieme nel cortile della scuola, parlando una lingua franca ma comprendendosi benissimo: date loro, ad esempio, un pallone e non ci sarà differenza linguistica che tenga...
Ma la conoscenza della lingua del paese in cui ci si trova è semplicemente fondamentale per comprendere ciò che ci dice il datore di lavoro, chi ci affitta la casa, o ciò che ci dice l'insegnante (sovente accade che siano proprio i bambini a far da tramite anche se, ormai è appurato, per imparare la lingua d'uso bastano pochi mesi mentre per apprendere la lingua di studio ci vogliono anni...comunque, come diceva don Milani, solo la lingua rende uguali...
Ciò non significa che non ci siano problemi, soprattutto linguistici (ma anche legati alla differente scolarizzazione dei bambini e dei loro genitori): mancano o sono ancora pochi (anche se sono stati fatti passi in avanti) i mediatori linguistici. Le traduzioni dei documenti o degli avvisi legati alla vita scolastica non sempre sono comprensibili a tutti (a volte i genitori non sanno leggere o sanno leggere e parlare il proprio dialetto e non la lingua ufficiale o standard). Mancano anche le conoscenze legate ai curricula previsti dai differenti sistemi scolastici e, conseguentemente, tra diversi programmi scolastici. Mancano soprattutto strumenti adeguati sia a preparare l'accoglienza per i bambini (per tutti i bambini, con una particolare attenzione a quelli che vivono situazioni critiche -disabilità, migrazione, situazione familiare disastrata) e momenti di incontro con le famiglie, anche in questa caso, con tutte le famiglie ma con una particolare attenzione a quelle che vivono situazioni problematiche.
Uno dei nemici peggiori dell'interazione è la presenza diffusa degli stereotipi, legati all'ignoranza dei costumi e dei modi di vita altrui.
E chiudo con una proposta: occorre continuare sulla strada intrapresa nel lavoro di conoscenza reciproca, soprattutto con la Comunità Musulmana, e con il mondo migrante nel suo insieme; occorre anche andare al di là e costruire una comunità di pratica che dia vita sia a momenti di incontro e conoscenza, ma anche a reali situazioni di interazione, creando gruppi di discussione e incontro che prescindano dalla nazionalità o dalla fede. Costituire gruppi costituiti da volontari, migranti, operatori dei servizi ecc. che sappiano creare e moltiplicare situazioni di incontro.

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