Dubbi sui miliardi per i caccia
bombardieri JSF35
Pacifisti, militari, governo e parlamento chiamati ad un serio confronto su una scelta militare che può essere strategica in diversi modi.
Carlo Cefaloni
Fonte: Città Nuova - 25 novembre 2010
Anche il governo statunitense tentenna davanti ai costi di un uno dei più grandi investimenti in armi che coinvolge direttamente il colosso Lockeed Martin, con sede in Bethesda, nel Maryland. Secondo fonti accreditate come il Blomberg Business Week, il programma, già ad aprile del 2010, prevedeva l’aumento di oltre 51 miliardi di dollari su un preventivo già lievitato di 328 miliardi approvato dal Congresso statunitense. Si tratta dell’acquisto di sofisticati caccia bombardieri Joint Strike Fighter 35 (JSF35) destinati anche a trasportare armi nucleari. Un prodotto che ha interessato tutti i governi italiani in carica dal 1994 in poi.
Come ha recentemente riconosciuto l’ex ministro della Difesa, Arturo Parisi, «in questo settore non si possono avere ambiguità, né sentimenti diversi quando si è all’opposizione e quando si è al governo. Le spese per i sistemi d’arma di cui parliamo sono state individuate nell’ambito di programmi decennali». Parisi rivendica alla «scelta collegiale» del governo di centrosinistra di aver riportato «la spesa per la difesa da 17 a 21 miliardi, e a raddoppiare in due anni gli stessi programmi per investimenti».
A dire il vero, però, ci son sempre stati dei dubbi, anche nel mondo militare, sull’opportunità del programma Jsf35, come testimonia uno studio indipendente commissionato nel 2005 dal Centro militare di studi strategici (Cemiss) che dipende dallo stesso ministero della Difesa.
Ad ogni modo qualcosa è cambiato da quando il 7 febbraio 2007 il sottosegretario Lorenzo Forcieri ha sottoscritto a Washington il “memorandum” di adesione dell’Italia al programma di sviluppo dei nuovi aerei da combattimento. La crisi economica ha interessato tutti i governi che hanno deciso di fare dei tagli significativi anche alle spese militari. Alcuni Paesi (come Norvegia, Canada, Danimarca, Olanda e Gran Bretagna) hanno sospeso o ridotto la
partecipazione al progetto dei cacciabombardieri Joint Strike Fighter, mentre diversi esponenti del governo italiano hanno ribadito l’intenzione di concludere il contratto d'acquisto già previsto per ben 131 aeroplani da combattimento. Una spesa di 15 miliardi di euro. Secondo la pubblicistica del settore si tratterebbe di una grande opportunità per la capofila Finmeccanica, gruppo tecnologico d’eccellenza sotto controllo statale, che potrebbe generare un volume d’affari complessivo di oltre 20 miliardi di euro. In Italia si verrebbe, infatti, a stabilire il centro di assemblaggio e manutenzione del caccia bombardiere per tutta l’area europea, che ricomprende anche parte del Medio Oriente. Già 800 milioni di euro sono stati stanziati per un nuovo complesso industriale distribuito su 124 mila metri quadrati posizionati nell’aeroporto di Cameri, in provincia di Novara. Una localizzazione piemontese ma molto vicina a Milano e a quel gruppo di aziende che storicamente, soprattutto nel varesotto, hanno segnato la storia dell’industria militare italiana.
Mentre i primi comunicati nel 2006 parlavano di 10 mila nuovi posti di lavoro creati in tutta Italia, adesso i numeri sono molto più contenuti: 1816 addetti, secondo Il Sole 24 ore. Non si tratta tuttavia di nuove assunzioni ma di trasferimenti da aziende del Gruppo Finmeccanica che stanno adottando significative misure di riduzione del personale. Un dato che appare incomprensibile considerando l’aumento vertiginoso del fatturato e dei ricavi del gruppo italiano che, sin dal 2000, ha optato per il graduale aumento della produzione militare rispetto a quella civile.
Novara è anche la sede di una diocesi che ha sciolto ogni riserva e ha espresso un vivace e argomentato dissenso su queste scelte di politica industriale orientate verso la produzione di mezzi di distruzione. Argomenti che si accompagnano alle proteste sulla scelta di investire non su urgenti necessità, dalle scuole senza sicurezza ai dissesti idrogeologici, ma su sistemi d’arma dalla dubbia utilità, se non per le aziende interessate. Questioni che rimettono al centro l’interpretazione dell’articolo 11 della Costituzione e la definizione del nuovo modello di difesa a livello europeo, al centro del dibattito del vertice Nato di Lisbona.
La Rete italiana disarmo (Rid) ha proposto mercoledì scorso un confronto pubblico in Piazza Montecitorio, a Roma, tra parlamentari, governo e associazioni con il titolo «Cacciabombardiere F35: volano gli aerei o i costi?».
Gli interventi sono stati di Massimo Paolicelli (presidente dell’Associazione obiettori nonviolenti), di don Renato Sacco (Pax Christi), di Giulio Marcon (coordinatore di Sbilanciamoci!) e Francesco Vignarca (coordinatore della Rete italiana per il disarmo) a confronto con i parlamentari Umberto Veronesi e Savino Pezzotta (primi firmatari di una mozione contro l’acquisto dei caccia Jsf35), il generale Claudio De Bertolis (vicesegretario generale della difesa e degli armamenti) e il rappresentante del governo, il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto. I dati del confronto nelle interviste correlate.
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