Deportati in Libia il 6 maggio 2009, 4 mesi dopo sono ancora detenuti.
Tra loro 24 rifugiati eritrei e somali, che grazie a un avvocato
italiano hanno denunciato il governo alla Corte europea. Per la prima
volta emergono le loro storie
L'Alto Commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, denuncia oggi
le politiche nei confronti degli immigrati. Persone, secondo l'esponente
dell'Onu, "abbandonate e respinte senza verificare in modo adeguato se
stanno fuggendo da persecuzioni, in violazione del diritto
internazionale". Tra l'altro, in un discorso previsto per domani, la
Pillay cita il caso del gommone di eritrei rimasto senza soccorsi tra la
Libia, Malta e Italia, ad agosto. E denuncia che "in molti casi, le
autorità respingono questi migranti e li lasciano affrontare stenti e
pericoli, se non la morte, come se stessero respingendo barche cariche
di rifiuti pericolosi".
Ma che fine hanno fatto i primi 227 africani respinti a maggio
dall'Italia? Redattore Sociale è andata a verificare, constatando che 24
rifugiati eritrei e somali, infatti, hanno denunciato il governo
italiano alla Corte europea. E per la prima volta emergono le loro storie.
Era il sei maggio del 2009. Le autorità italiane intercettarono nel
Canale di Sicilia tre gommoni con 227 emigranti e rifugiati a bordo. Per
la prima volta in anni di pattugliamento, venne dato l'ordine di
respingere tutti in Libia. Comprese le 40 donne. Quattro mesi dopo,
siamo in grado di dare un nome e una storia a quei respinti. Alcuni di
loro erano richiedenti asilo politico. E hanno nominato un avvocato
italiano, Anton Giulio Lana, del foro di Roma, perché li difenda
dinnanzi alla Corte europea dei diritti umani, a Strasburgo. Sono 11
cittadini eritrei e 13 somali. Quattro mesi dopo essere stati respinti,
si trovano ancora detenuti nei campi libici. Nonostante siano
richiedenti asilo politico, e nonostante siano difesi da un avvocato di
rango internazionale. Eppure il ministro Maroni aveva dichiarato: "La
Libia fa parte dell'Onu: lì c'è l'Unhcr che può fare l'accertamento
delle persone che richiedono asilo".(Ansa, 12 maggio 2009).
Chi sono i 24 rifugiati che hanno denunciato l'Italia alla Corte
Europea? Sono disertori eritrei, fuggiti dopo anni di servizio
nell'esercito, in un paese dove la coscrizione militare a tempo
indeterminato è diventata una delle armi del regime di Isaias Afewerki
per controllare la popolazione. Sono ex combattenti della seconda guerra
eritrea-etiope, che dopo aver disertato si sono consegnati alla polizia
eritrea per far rilasciare i genitori arrestati al posto loro. E poi ci
sono i cittadini somali sfuggiti alla violenza della guerra civile.
Uomini che a Mogadiscio hanno sepolto i parenti più cari e hanno
lasciato le case distrutte dai violenti scontri armati tra le forze
dell'Unione delle Corti islamiche e quelle del governo transitorio
federale della Somalia, spalleggiate dalle truppe etiopi.
Il ricorso depositato dall'avvocato Lana fa appello all'articolo 3 della
"Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali", che vieta la tortura e trattamenti inumani e degradanti,
oltre che la riammissione in paesi terzi dove esista un effettivo
rischio di tortura; all'articolo 13, che stabilisce il diritto a un
ricorso effettivo; e all'articolo 4 del quarto protocollo della
Convenzione, che vieta espressamente le deportazioni collettive.
Fuggito dalla Somalia, era già stato respinto nel 2008. La storia di 'A'
Nell'agosto del 2008 un peschereccio spagnolo salvò la vita a 49
naufraghi e li riportò a Tripoli. A. era uno di loro. Dopo 8 mesi di
carcere a 'Ain Zara si era imbarcato di nuovo a fine aprile. L'Italia lo
ha respinto
Sono 13 i cittadini somali che hanno depositato un ricorso alla Corte
europea dei diritti dell'uomo contro l'Italia per essere stati respinti
in Libia lo scorso 6 maggio. Conosciamo i loro nomi ma non possiamo
svelarli per motivi di sicurezza, dato che a tutt'oggi si trovano in
campi di detenzione in Libia. A. è uno di loro. Appartiene alla
minoranza degli Ashraf. È nato nel 1983 a Mogadiscio, ed è sempre
vissuto nella capitale fino a quando, nel 2006 è stato costretto a
abbandonare il paese, lacerato da anni di guerra civile e violenze
claniche. Gli Ashraf in particolare hanno dovuto subire negli anni
numerose persecuzioni da parte dei clan maggioritario del paese, gli
Hawiye. Nel 2004, il padre di A. venne ucciso per mano di un esponente
del clan degli Hawiye, che aveva cercato di estorcergli con la forza i
documenti attestanti la proprietà della loro casa. E lo stesso A. era
stato costretto sotto minaccia a divorziare dalla moglie. Dopo la morte
del padre, la responsabilità per il sostentamento e la tutela della
madre e della sorella, pesava su A. Ma soltanto due mesi dopo, la
sorella scomparve. L'avevano vista uscire di casa con una vicina. Si
pensa che l'abbiano portata in Yemen. La decisione di lasciare
Mogadiscio maturò nel 2006, dopo che le milizie delle Corti islamiche
ebbero preso il controllo della città. Per tutelare la propria
incolumità, A. fuggì in Etiopia, ma era senza documenti, e venne
arrestato alla frontiera e detenuto per otto mesi, prima di essere
rilasciato e ritornare in Somalia, a Hargeysa, da dove ripartì
immediatamente per Gibuti, e poi -- dopo un altro mese di carcere -- per
il Sudan, dove consegnandosi spontaneamente alle autorità venne
trasferito nel campo profughi di Kasala.
Cinque mesi dopo riuscì a attraversare il deserto del Sahara e a entrare
in Libia. Era il luglio del 2007. Un anno dopo, nell'agosto del 2008
riusciva a imbarcarsi per l'Italia. Ma l'imbarcazione rimase presto
senza carburante e finì alla deriva nel Canale di Sicilia. Passavano i
giorni e i soccorsi non arrivavano. Cinque persone morirono disidratate
e di stenti. La salvezza arrivò da una nave spagnola. Il peschereccio
"Clot de l'Illot", che il 22 agosto del 2008 attraccò nel porto di
Tripoli consegnando i 49 naufraghi alle guardie libiche. A. venne
nuovamente arrestato. A Tripoli, nel carcere di 'Ain Zara, dove venne
detenuto per otto mesi. Lo rilasciarono nell'aprile del 2009. Non volle
aspettare altro tempo, e comprò un passaggio sulla prima imbarcazione
diretta a nord, insieme a altri 45 passeggeri. E per la seconda volta in
un anno, venne respinto. Stavolta però dalle autorità italiane. Era il 6
maggio del 2009. Oggi, quattro mesi dopo, si trova ancora in un campo di
detenzione in Libia, pur essendo un potenziale rifugiato politico, e pur
essendo difeso da un avvocato dinnanzi alla Corte europea.
Aveva la protezione delle Nazioni Unite. L'Italia lo ha respinto
La storia di un rifugiato eritreo. Disertore dell'esercito, l'Acnur in
Sudan gli aveva riconosciuto l'asilo politico. Le nostre motovedette lo
hanno respinto in Libia a maggio. E oggi è ancora in carcere
Sono 11 i cittadini eritrei che hanno depositato un ricorso alla Corte
europea dei diritti dell'uomo contro l'Italia per essere stati respinti
in Libia lo scorso 6 maggio. Conosciamo i loro nomi ma non possiamo
svelarli per motivi di sicurezza, dato che a tutt'oggi si trovano in
campi di detenzione in Libia. Alcuni di loro erano già stati
riconosciuti rifugiati politici dall'Alto commissariato per i rifugiati
delle Nazioni Unite. Per esempio K., che nel settembre 2006 si vide
riconosciuto lo status di rifugiato in un campo profughi in Sudan.
Classe 1971, K. era stato arruolato nell'esercito nazionale eritreo nel
2000, per la coscrizione militare a tempo indeterminato cui sono
obbligati tutti i cittadini eritrei al compimento della maggiore età.
Dopo un anno e mezzo tuttavia, non vedendosi corrispondere nessun
salario mensile, il signor K. decise di disertare l'esercito. Ma la sua
latitanza durò poco. Nel 2004 venne individuato e arrestato dalla
polizia militare, trasportato a Korkogy e detenuto per due anni, dal
2004 al 2006. Nell'agosto del 2006 venne rilasciato e ricollocato nella
divisione dell'esercito dove si trovava precedentemente, presso Dar
Anto, nel Mandefra. K. stavolta decise di abbandonare il paese, e riuscì
a raggiungere clandestinamente il Sudan, dove rimase fino al febbraio
2007 in un campo profughi.
Tuttavia, temendo la deportazione da parte degli agenti dei servizi
segreti eritrei in azione lungo il confine, K. decise di emigrare in
Europa, e attraversò il deserto sudanese alla volta della Libia. Ma al
suo ingresso venne arrestato e detenuto per un mese nel centro di
detenzione di Ajdabiya, per poi essere trasferito nel centro di
detenzione dedicato agli eritrei, a Misratah, 200 km a est di Tripoli.
Vi rimase detenuto dall'aprile del 2007 alla fine del marzo del 2009. Un
mese dopo, alla fine dell'aprile del 2009, K. tentò la traversata del
Mediterraneo, verso l'Italia, su un'imbarcazione con circa 60 passeggeri
a bordo. Ma vennero intercettati e respinti dalle autorità italiane. Era
il 6 maggio del 2009. Oggi, quattro mesi dopo, si trova ancora in un
campo di detenzione in Libia, pur essendo difeso da un avvocato dinnanzi
alla Corte europea e pur essendo un rifugiato politico riconosciuto a
tutti gli effetti dalle Nazioni Unite, che evidentemente in Libia non
hanno alcuna influenza decisionale, se non riescono nemmeno a far uscire
da un centro di detenzione un loro assistito.
L'Italia denunciata alla Corte europea. Respingimenti contrari ai
diritti umani
L'avvocato Anton Giulio Lana ha ricevuto le procure da parte di 24
rifugiati somali e eritrei respinti in Libia il 6 maggio 2009.
Contestata la violazione degli articoli 3 e 13 della Convenzione, e
l'articolo 4 del IV protocollo
I respingimenti sono contrari ai diritti umani. E non per una
dichiarazione di principio, ma perché violano la giurisdizione italiana
e internazionale. Ne è convinto l'avvocato Anton Giulio Lana, che è
stato nominato difensore da 24 rifugiati somali e eritrei respinti dalla
Marina italiana lo scorso 6 maggio 2009 e che ha formalizzato il ricorso
alla Corte europea per i diritti umani (Cedu) di Strasburgo. Il ricorso
fa appello all'articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che vieta la tortura e
trattamenti inumani e degradanti, oltre che la riammissione in paesi
terzi dove esista un effettivo rischio di tortura; all'articolo 13, che
stabilisce il diritto a un ricorso effettivo; e all'articolo 4 del
quarto protocollo, che vieta espressamente le deportazioni collettive.
Tutti articoli che secondo l'avvocato Lana sarebbero stati violati, dal
momento che le persone sono state respinte senza nessuna
identificazione, in modo collettivo, senza permettere di presentare
richiesta d'asilo politico e tantomeno di poter fare ricorso presso un
giudice. E sono state respinte in Libia, dove è documentata la pratica
di torture e trattamenti inumani e degradanti nei campi di detenzione. E
se è vero che i fatti sono occorsi in acque internazionali, è
altrettanto vero che gli emigranti respinti sono stati fatti salire a
bordo di unità marittime italiane, che in base all'articolo 4 del codice
di navigazione sono sotto la giurisdizione dello Stato italiano. E
quindi sotto il Testo unico sull'immigrazione, come modificato dalla
legge Bossi-Fini, che vieta il respingimento in frontiera di chi
presenta richiesta d'asilo. Il respingimento con accompagnamento alla
frontiera nei confronti degli stranieri che "sottraendosi ai controlli
di frontiera, sono fermati all'ingresso o subito dopo", non si applica -
secondo l'articolo 10, comma 4 del Testo unico -- "nei casi previsti
dalle disposizioni vigenti che disciplinano l'asilo politico, il
riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l'adozione di misure di
protezione temporanea per motivi umanitari".
Adesso si dovranno aspettare i tempi della pronuncia della Corte
europea. Il caso non rientra nei provvedimenti di urgenza, in quanto i
24 ricorrenti sono già stati respinti in Libia. Pertanto potrebbero
passare mesi prima che la Corte dichiari l'ammissibilità o meno dei
ricorsi e notifichi al governo italiano l'apertura delle indagini. Per
un'eventuale sentenza invece, potrebbero passare anni. Basti pensare che
ancora non è stata pronunciata la sentenza per i respingimenti in Libia
effettuati da Lampedusa nel 2005. Ad ogni modo, una volta che il ricorso
sarà dichiarato ammissibile, ci saranno 12 settimane di tempo perché
soggetti terzi depositino i loro interventi presso la Corte, in quello
che si annuncia come un ricorso chiave per il destino delle politiche di
contrasto all'immigrazione nel Mediterraneo.
''Eravamo in mare da 12 giorni''. Le testimonianze di due somali respinti
Uno di loro ha riferito che si trovava in gravi condizioni di salute al
momento del respingimento verso la Libia, e di non aver ricevuto nessuna
assistenza medica. Anche loro hanno fatto ricorso alla Corte europea
Una delle imbarcazioni intercettata dalle motovedette italiane il 6
maggio scorso e poi riportata a Tripoli, era in mare da 12 giorni. E i
passeggeri non hanno ricevuto nessun tipo di sanitaria una volta
riportati in Libia. È quanto dichiarato da due rifugiati somali che
hanno denunciato l'Italia alla Corte europea di Strasburgo per averli
respinti. B. fu costretto a lasciare la Somalia nel marzo 2008, per via
dell'instabilità del paese durante gli scontri tra le truppe delle Corti
islamiche e le forze del governo di transizione somalo. Dopo aver
attraversato clandestinamente Etiopia e Sudan, B. arrivò in Libia nel
luglio del 2008, per poi essere arrestato a settembre e detenuto per due
mesi. Nel febbraio del 2009 riuscì a imbarcarsi per la Sicilia, ma
finirono per sbarcare a Bengasi e vennero arrestati di nuovo dalla
polizia libica, per poi essere rilasciati nell'aprile del 2009. Subito
dopo tentò di imbarcarsi nuovamente, ma l'imbarcazione venne fermata in
mare dopo 12 giorni di navigazione. Su quella stessa barca viaggiava
anche il signor C. Anche lui somalo, di 25 anni, del clan dei Loboge,
era fuggito da Mogadiscio nel marzo 2007, quando le forze etiopi
invasero la capitale. Nel corso dei bombardamenti, la madre e il
fratello rimasero feriti e la loro casa venne distrutta dai
bombardamenti. Temendo persecuzioni da parte delle truppe etiopi, C. si
rifugiò temporaneamente nel campo per sfollati a Elasha, per poi
decidere definitivamente di fuggire nel dicembre del 2007. Raggiunse
prima il Kenya, e dopo 4 mesi a Nairobi riprese la rotta, prima verso
Addis Abeba, in Etiopia, poi verso il Sudan e la Libia, dove arrivò nel
novembre 2008. Per l'Italia si imbarcò alla fine di aprile del 2009, con
altre 90 persone. Anche lui ha dichiarato di essere rimasto in mare per
12 giorni, alla deriva, prima dell'intervento degli italiani, che li
ricondussero in Libia, ha aggiunto, senza procedere ad alcuno tipo di
indagine circa la nazionalità delle persone tratte in salvo. Tra
l'altro, il signor C. risultava estremamente malato all'epoca del
rimpatrio in Libia e nonostante ciò veniva comunque detenuto nel campo
di detenzione di Garaboulli, vicino Tripoli, senza che gli fossero
impartite le cure necessarie. (gdg)
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