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martedì 28 settembre 2010

Donne reclute dell’esercito israeliano denunciano il trattamento dei Palestinesi

Le immagini su Facebook di una soldatessa israeliana in posa accanto a Palestinesi con gli occhi bendati hanno provocato una tempesta. Adesso due ex-soldatesse si sono espresse apertamente sulla loro esperienza.

Harriet Sherwood
The Observer

Domenica 22 agosto 2010

E’ stata una semplice parola scarabocchiata su di un muro dell’Università ebraica di Gerusalemme a far scattare qualcosa dall’intimo di Inbar Michelzon, due anni dopo il termine del suo servizio militare obbligatorio nella Forza di Difesa Israeliana (FDI).

La parola era “occupazione”. “Sono davvero trasalita, come se qualcuno avesse pronunciato l’inespresso”, ha ricordato la settimana scorsa in un caffè di Tel Aviv, “ne sono stata davvero shoccata. C’era un graffito che diceva “mettete fine all’occupazione”. E ho avuto la sensazione che OK, adesso posso parlare di quel che ho visto”.

Michelzon è diventata una delle poche ex coscritte israeliane, che ha parlato apertamente delle proprie esperienze militari, un gesto che ha comportato accuse di tradimento e slealtà. E’ impossibile sapere quanto siano rappresentative queste testimonianze, ma esse offrono un’immagine diversa del “esercito più morale del mondo”, come la FDI definisce se stessa.

Preoccupazioni sulla cultura dell’esercito israeliano sono nate la scorsa settimana in seguito alla pubblicazione su Facebook di foto di una coscritta che posava a fianco di Palestinesi ammanettati e con gli occhi bendati. Quelle immagini ricordavano lo scandalo di Abu Ghraib in Iraq. Ma l’ex-soldatessa Eden Abergil ha detto di non vedere che cosa non andasse bene nelle foto, descritte come “sgradevoli e insensibili” dalla FDI.

Israele è l’unico paese a reclutare donne di 18 anni per il servizio militare obbligatorio. L’esperienza può rendere brutale quel 10% che presta servizio nei territori occupati, come ha fatto Michelzon.

“Ho lasciato l’esercito con una bomba ad orologeria nella pancia” ha detto. “Avevo l’impressione di aver visto il cortile posteriore di Israele. Avevo visto qualcosa di cui la gente non parla. E’ come se conoscessi il segreto sporco di una nazione e ho bisogno di parlarne”.

Michelzon, che adesso ha 29 anni, ha cominciato il suo servizio militare nel settembre del 2000, proprio all’inizio della seconda intifada. “Sono entrata nell’esercito con una visione molto idealista - Volevo veramente servire il mio paese”. Era stata destinata ad Erez, il passaggio tra Israele e la striscia di Gaza, per lavorare nella camera di controllo radio.

“C’era una forte tensione, molti spari e attentatori suicidi. Un po’ per volta, si capiscono le regole del gioco. Bisogna rendere dura la vita per gli Arabi - è la regola principale - perché sono i nemici”.

Cita l’esempio di routine di una donna palestinese che aspettava alla frontiera. Michelzon ha chiamato il suo superiore, chiedendo l’autorizzazione per lasciar passare la donna. Le è stato detto di fare questa domanda solo dopo aver fatto aspettare la donna per due ore. “Mi sentivo molto sola nell’esercito. Non c’era modo di parlare di cose che io sentivo fuori posto. Non ero di vedute molto ampie ma mi sentivo a disagio a causa del modo di parlare a proposito dei soldati che picchiavano gli Arabi e si divertivano. Pensavo che tutti fossero normali e fossi io la sola a non esserlo. Mi sentivo estranea all’esperienza del gruppo”.

Alla fine del suo servizio, nel giugno 2002, Michelzon ha detto di aver sentito il bisogno di scappare ed è partita per l’India. “Poco a poco sono entrata in depressione”, ha detto. E’ solo dopo essere tornata per iscriversi all’università e dopo due anni di terapia, che ha cominciato a considerare suo dovere parlare apertamente. E’ anche entrata in contatto con “Rompere il silenzio”, un’organizzazione di veterani dell’esercito che pubblica testimonianze di ex-soldati sulla vita nei territori occupati, per stimolare un dibattito sul “prezzo morale” dell’occupazione. Michelzon ha reso la sua testimonianza al gruppo e due anni fa è comparsa in un documentario, Vedere se sorrido, sulle sue esperienze di giovane donna nell’esercito. Il film - ha detto - è stato criticato da tutte le parti. La sinistra si è concentrata sulle “cattive cose che facevamo e non sul fatto che volevamo avviare la discussione. Volevamo alzare uno specchio e dire alla società israeliana di guardarsi negli occhi.

“Da parte della destra, la reazione è stata perché fate questo al vostro stesso popolo? Odiate il vostro paese? Ma io l’ho fatto perché amo il mio paese. Era una lotta per dire che volevamo parlare della situazione politica”

L’impatto psicologico del servizio militare sulle donne è innegabile, dalle testimonianze di Michelzon e di altre, in particolare fra quelle che fanno servizio nei territori occupati. “Se si vuol sopravvivere come donne nell’esercito, si deve essere virili” ha detto. “Non c’è spazio per i sentimenti. E’ come una gara per vedere chi è il più duro. Molto spesso le ragazze cercano di essere più aggressive dei ragazzi.”

La sua esperienza fa eco a quella di Dana Golan, che ha fatto servizio in Cisgiordania, nella città di Hebron, nel 2001-2002, una delle 25 donne fra 300 soldati maschi. Come Michelzon, Golan ha parlato apertamente solo alla fine del suo servizio militare. “Se avessi espresso le mie ansie, l’avrebbero attribuito a debolezza” ha detto.

Golan, che ora ha 27 anni, ha detto che “il momento più sconvolgente” del suo servizio è stato durante una perquisizione per cercare armi in una casa palestinese. La famiglia è stata svegliata alle 2 del mattino dai soldati “che hanno messo sottosopra tutta la casa”. Nessun’arma è stata trovata. I bambini della casa erano terrorizzati. “Io pensavo, come mi sentirei se fossi una piccolina di 4 anni? Come crescerei? In quel momento ho realizzato che a volte noi facciamo cose che creano soltanto vittime. Per essere un buon occupante, dobbiamo creare il conflitto”.

In un’altra occasione, ha visto dei sodati che rubavano in un magazzino palestinese di elettronica. Ha tentato di far rapporto, per sentirsi dire semplicemente “che c’erano cose sulle quali io non potevo interferire”.

Ha detto anche di aver visto degli anziani palestinesi umiliati per strada, “e ho pensato che avrebbero potuto essere i miei genitori o i miei nonni”.

Israele è deluso da queste testimonianze, in parte a causa del servizio militare universale. “Siamo cresciuti con la convinzione che la FDI fosse l’esercito più morale del mondo. Tutti conoscono persone che sono nell’esercito. Ora, quando io dico che si fanno cose immorali, io parlo di vostra sorella o di vostra figlia. E la gente non ha voglia di ascoltare”.

La FDI è fiera che il 90% delle sue funzioni siano aperte in ugual misura a uomini e donne.

“Servire in una unità di combattimento, dove si è quotidianamente a contatto con persone che possono nuocervi, non è facile - si deve essere duri”, ha detto il capitano Arye Shalicar, portavoce dell’esercito. “Non è solo una cosa da donne, è lo stesso per tutti. In fondo un’unità di combattimento è un’unità di combattimento. A volte capitano delle cose, nessuna azione è corretta al 100%”. Ha detto che l’esercito ha delle procedure, per far rapporto sui misfatti, che i soldati sono incoraggiati a seguire.

Né Michelzon né Golan rimpiangono di aver parlato apertamente. “Per due anni, ho visto delle persone soffrire e non ho fatto niente - e questo è davvero angosciante”, ha detto Michelzon. “Alla fine era come se l’esercito mi tradisse - mi ha utilizzata, io non riuscivo a riconoscere me stessa. Ciò che noi chiamiamo proteggere il nostro paese è distruggere delle vite”




da una mail dell'amica Luisa Morgantini

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