Buddismo e Società n.105 luglio agosto 2004Intervista a Brunetto Salvarani:TEOLOGO CATTOLICO, IMPEGNATO NEL DIALOGO INTERRELIGIOSODialogo: pensieri, parole e azionidi Maria Lucia De Luca e Romano Jeran
Foto: R.JeranNato a Carpi (Mo), Brunetto Salvarani è stato insegnante di Religione nella scuola media per tre anni e poi docente di Lettere presso il Liceo Scientifico "M. Fanti" di Carpi, fino al 1995. Dopo la laurea in Lettere moderne ha conseguito il Baccellierato in teologia e la licenza in Teologia dell'Evangelizzazione.Da lungo tempo si occupa di dialogo ecumenico e interreligioso avendo fondato nel 1985 la rivista di studi ebraico-cristiani QOL, di cui è direttore, diretto dal 1987 al 1995 il Centro studi religiosi della Fondazione San Carlo di Modena e fatto parte delle redazioni delle riviste Il Regno e CEM Mondialità. Saggista, scrittore e giornalista pubblicista, collabora con parecchie testate. È stato tra i fondatori, sul piano nazionale, del Tribunale per i diritti del malato, e responsabile regionale per l'Emilia Romagna del Movimento Federativo Democratico.Da diversi anni è fra gli esperti nazionali della Caritas Italia, di Pax Christi Italia, di Rinascita cristiana e del Segretariato Attività Ecumeniche, e fa parte del Comitato "Bibbia Cultura Scuola", che si propone di favorire la presenza del testo sacro alla tradizione ebraico-cristiana nel curriculum delle nostre istituzioni scolastiche.È membro dell'ATI (Associazione Teologi Italiani), il principale raggruppamento dei teologi del nostro paese, e dell'AETC, l'associazione dei teologi europei.Attualmente è vicepresidente dell'Associazione italiana degli Amici di Nevé Shalom/Waahat al-Salaam, il "Villaggio della pace" fondato in Israele da padre Bruno Hussar, nonché coordinatore scientifico dal 1996 degli "Incontri cristiano-musulmani" di Modena per conto delle ACLI nazionali.Nel novembre 2001 è stato ideatore di un Appello ecumenico per una Giornata nazionale del dialogo cristiano-islamico (per informazioni si può visitare il sito http:www.ildialogo.org), che si è tenuta in un centinaio di località, da cui è nato il volume, a cura di P. Naso e B. Salvarani, La rivincita del dialogo. Cristiani e musulmani in Italia dopo l'11 settembre (EMI, Bologna 2002).Autore estremamente prolifico, suoi ultimi lavori sono: Per amore di Babilonia. Religioni in dialogo alla fine della cristianità (Diabasis, Reggio Emilia 2000), Le strisce dei lager. I fumetti e la Shoà, con Raffaele Mantegazza (Unicopli, Milano 2000) e - assieme a Fabio Ballabio - Religioni in Italia. Il nuovo pluralismo religioso (EMI, Bologna 2001). Più di recente ha pubblicato A scuola con la Bibbia. Dal libro assente al libro ritrovato (EMI, Bologna 2001, con prefazione di mons. Gianfranco Ravasi). È uscito nel giugno 2003 il Vocabolario minimo del dialogo interreligioso. Per un'educazione all'incontro tra le fedi (EDB, Bologna 2003), ed è appena comparso in libreria In principio era il racconto. Verso una teologia narrativa (EMI, Bologna 2004). In procinto di partire per Israele per la Comunità Nevé Shalom/Wahat al-Salam - della cui associazione italiana è vice presidente - Brunetto Salvarani ci accoglie nel suo ufficio dell'assessorato alle Politiche giovanili del comune di Carpi, che sta lasciando dopo nove anni di lavoro. Teologo cattolico impegnato in prima linea nel dialogo interreligioso, saggista prolifico, politico dedito a rinnovare nei giovani il senso della comunità e della memoria, educatore, uomo di cultura, Salvarani ha un approccio decisamente poliedrico al mondo spirituale e alla realtà concreta. Nell'aprile di quest'anno ha presentato presso il nostro centro culturale di Milano il suo libro Vocabolario minimo del dialogo interreligioso, nel quale parla dei presupposti necessari a un autentico confronto tra le fedi, in una sorta di educazione al dialogo. Da qui è nata l'idea di un'intervista. Come cattolico, cosa la ha portata a occuparsi del dialogo tra le religioni? Da dove comincia il suo percorso?La mia storia è quella di una classe '56 che si trova a vivere il mondo delle parrocchie del post concilio e scopre che il Concilio Vaticano II, in un paese cattolico come l'Italia, ha aperto dei percorsi nuovi. Parliamo dei capisaldi del Concilio. Noi non lo studiamo a scuola, e chi abbandona il sentiero cattolico non ha più occasione di approfondire questo tema.In sintesi, il Concilio Vaticano II lancia alcune parole chiave che danno il senso di un'enorme distanza, non solo cronologica, dall'ultimo concilio vero e proprio, il Concilio di Trento (1545-1563). Ci sono più di quattro secoli di distanza, e c'è veramente l'idea di un nuovo modello di chiesa. La prima parola chiave, "popolo di Dio", riguarda il tema ecclesiale (espresso nel documento Lumen Gentium) e promuove un modello di chiesa non più come gerarchia ma come popolo di Dio di cui fanno parte tutti, clero e laici. Un popolo di Dio che è fatto di gente con storie diverse, carismi diversi e uniti insieme. Viene così recuperata la concezione del Nuovo Testamento, degli Atti degli Apostoli, quando i cristiani vivevano con un cuor solo e un'anima sola. Il secondo tema è quello scritturistico, espresso nel documento Dei Verbum, in cui c'è l'idea che la parola di Dio, la Bibbia, è qualcosa che fonda la comunità, che fonda l'appartenenza cristiana. La parola di Dio non è un elemento che appartiene peculiarmente alla gerarchia, com'era stato nella storia della chiesa cattolica, ma è un punto essenziale, il motore fondamentale della vita cristiana. Ciò apre l'idea che la comunità si fonda sulla lettura della scrittura, sulla meditazione. Un terzo elemento, che si trova nella Sacrosanctum Concilium, è quello della liturgia. Qui c'è la frase famosa che dice che la liturgia (cioè l'eucaristia, il centro della liturgia cristiana) è fons e culmen, quindi da un lato è fonte, radice, e dall'altro è culmen, punto di arrivo. Il valore strategico della eucaristia diventa centrale, ed è quello che assieme alla parola di Dio muove la cristianità.Un elemento ulteriore, che si trova nella Gaudium et Spes, è il discorso del rapporto chiesa-mondo, un tema cruciale che, soprattutto in quegli anni, si pensava un po' ottimisticamente dovesse concludersi con un dialogo aperto e rispettoso. La Gaudium et Spes inizia con le parole: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Qui viene chiamata in causa la partecipazione diretta della chiesa, in particolare della chiesa locale. La chiesa non è un mondo separato, ma è invece profondamente partecipe di tutti i problemi della realtà. C'è quindi una scommessa sulla possibilità di dialogo con il mondo contemporaneo, un mondo in cui c'era l'esplodere della scienza, la paura dell'atomica, una guerra fredda ancora molto intensa, il terzo mondo, tutti scenari da cui la chiesa cattolica non poteva chiamarsi fuori. E l'ultimo tema, quello che forse ci interessa di più per la riflessione che stiamo facendo insieme, è espresso nella dichiarazione Nostra Aetate, un breve documento che parla della necessità del dialogo. Nel 1965, quando venne promulgata, c'era Paolo VI ed è il punto di partenza, in ambito cattolico, della strategia del dialogo ecumenico e interreligioso. Questi cinque petali, per usare una metafora cara alla tradizione buddista, formano alla fine un fiore che si chiama ancora Chiesa cattolica ma che rispetto alla Chiesa tridentina (quella del Concilio di Trento) è, almeno potenzialmente, radicalmente diversa. Emana un profumo diverso. Quando ha cominciato ad aprirsi a un confronto con le altre religioni?A un certo punto ho scoperto che certi confini mi stavano un po' stretti, che facevo fatica a restare nella dinamica tradizionale della parrocchia, delle comunità giovanili, e ho avuto bisogno di aprirmi ulteriormente. Io metto come data il 1974, il referendum sul divorzio, che ha puntato il dito sul tema della laicità dell'essere cristiani, sui rapporti nuovi con lo stato, con le altre confessioni religiose, con il marxismo. In quel periodo mi sono messo alla ricerca di qualcosa di più, pur mantenendomi sempre in una dimensione cattolica. Non ho mai avuto dubbi di passaggi ad altre fedi religiose né dubbi di abbandono. Perplessità sì, molte ricerche sì. Però sempre all'interno di una tradizione. E ho cominciato a scoprire l'altro, cioè gli altri percorsi religiosi, e questo è un elemento che trovo decisivo nella mia biografia. Gli studi di teologia mi hanno fatto scoprire la dimensione dell'alterità. All'inizio l'altro è stato l'ebreo, l'Ebraismo, che ho scoperto studiando la Bibbia e che ha voluto dire l'apertura di un mondo straordinario, la scoperta della radice santa della fede cristiana, rispetto alla quale nessun confronto con altri credi potrebbe essere paritario. È la scoperta di tuo papà, di tua mamma, che non avevi conosciuto, anzi, molto peggio, che ti avevano indotto a pensare fossero brutte persone. Una scoperta meravigliosa. Scopri soprattutto una relazione, scopri che vieni da lì. Anche se non ho mai pensato di diventare ebreo. Ora sto per fare il decimo viaggio in Israele. La prima volta che ci sono andato, nel 1979, mi sono sentito girare la testa, mi sono reso conto della scoperta di un'appartenenza, di una passione. E quindi ho cominciato a occuparmi della comunità Nevé Shalom/Wahat al-Salam, della cui associazione italiana ora sono vicepresidente. Cos'è la comunità Nevé Shalom/Wahat al-Salam?Prima di parlare di Nevé Shalom/Wahat al-Salam è necessario parlare del suo fondatore, Bruno Hussar, una delle persone che più hanno contribuito alla Nostra Aetate con la sua eccezionale esperienza di uomo dalle quattro identità: «Sono un prete cattolico - diceva nella sua autobiografia Quando la nube si alzava - sono ebreo, cittadino israeliano, sono nato in Egitto dove ho vissuto diciotto anni. Porto quindi in me quattro identità: sono veramente cristiano e prete, veramente ebreo, veramente israeliano e mi sento pure assai vicino agli arabi, che conosco». Cosmopolita è dire poco. Hussar era un uomo di sogni, un uomo di visioni, e raccontava che in Israele si può sognare, perché lì i sogni si avverano. E lui stesso ha prodotto una serie di sogni, tra cui la Casa di Sant'Isaia - un centro di studi sull'Ebraismo - che è stata la sede di una serie di ricerche e di lavori sul rapporto tra Cristianesimo e Terra, tra Bibbia e Terra. E ha fondato nel 1972 Nevé Shalom/Wahat al-Salam (che significa in ebraico e arabo "Oasi di pace", l'oasi che il Signore promette in Isaia 32, 18: «Il mio popolo abiterà un Nevé Shalom»).Questo è un altro sogno: l'ipotesi che, nonostante il conflitto, e attraverso la gestione del conflitto, si possa arrivare a una condizione di rispetto reciproco e di pace nel senso profondo. Nevé Shalom/Wahat al-Salam è una comunità in cui convivono musulmani ed ebrei. Ci sono due luoghi cruciali di questo posto, che esiste ancora oggi sebbene Hussar sia morto nel 1996 e nonostante quello che sta succedendo in questi giorni, mesi, anni. Uno di questi è la Scuola per la pace, dove si è passati dalle scuole della guerra, che insegnano le armi, a una scuola che insegna la pace. E qui sono passate molte migliaia di persone appartenenti a diversi gruppi in conflitto. L'altro luogo è Dumia, che significa "silenzio profondo". Hussar aveva inizialmente pensato a una specie di chiesa a tre ante con spazi per i cristiani, gli ebrei e i musulmani. Ma quando il "quarto", un capofamiglia agnostico, gli fece notare che per loro lì non c'era spazio, capì che non era ancora il momento per una cosa del genere, ma era il tempo del silenzio. Una realtà che io trovo ancora più profetica, soprattutto se la leggo attraverso il filtro delle parole di Gesù alla samaritana, come è scritto nel Vangelo di Giovanni (4, 21-24): «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre. [...] Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità». Hussar capì che la strada era il silenzio e Dumia è il segno del silenzio, anche perché in questo momento purtroppo gli esseri umani - lui lo ripeteva sempre - non riescono a far la pace, riescono solo a fare la guerra. Soprattutto in Israele le religioni non sono un luogo di pace, ma sono motivi di conflitti. Ecco allora il tentativo, la necessità di doversi fermare e stare in silenzio. È stato un grande privilegio averlo conosciuto. Quanto è importante dialogare oggi?Io credo che il dialogo oggi sia una parola indispensabile, una di quelle scelte di fondo decisive non per il Cristianesimo, l'Ebraismo, l'Islam, ma per l'uomo o la donna di fede oggi. Ad Assisi, tanti anni fa, ebbi la fortuna di presentare tra loro Bruno Hussar e Raimon Panikkar (filosofo, teologo tra i principali esperti di relazioni interculturali), due "giganti" del dialogo. Eravamo davanti a Santa Maria degli Angeli e io chiesi quale sarebbe stato secondo loro il tema del prossimo concilio della Chiesa cattolica.
Foto: R.JeranNella diversità delle risposte si vede sia la distanza sia la sinergia tra i due: Hussar rispose che il prossimo concilio dovrà ragionare sulla riscoperta della dimensione ebraica di Gesù e sui riflessi di ciò sul piano pastorale, ecclesiale, persino dogmatico. Una sorta di nuovo Concilio di Gerusalemme, dopo quello del 48 d.C. di cui si parla negli Atti degli Apostoli. Panikkar rispose che secondo lui il Concilio Vaticano III sarà quello che metterà a confronto le diverse letture di Gesù che nascono soprattutto nel sud del mondo, in America, in Africa, in Asia, e quindi dovrà incentrarsi sul tema dell'inculturazione. Il tema dei temi è quindi Gesù di Nazareth, ciò che distingue il Cristianesimo da tutto il resto. Due poli di lettura di Gesù, da un lato ebreo, figlio d'Israele, Rabbi, rivoluzionario ma figlio fedele di una tradizione, dall'altro Gesù che fa i conti con le diverse lingue, le diverse culture, soprattutto in una chiesa che si sta meridionalizzando, come scrive lo studioso Philip Jenkins nel suo ultimo libro La terza chiesa. Il Cristianesimo nel XXI secolo (Fazi editore 2004).Questa lettura tra mondi diversi ha fatto sì che mi aprissi al dialogo a tutto campo. Ho scoperto l'Islam, stavolta non tanto per curiosità intellettuale ma per conoscere il mondo islamico italiano ed europeo con cui cominciavo ad aver a che fare direttamente. Poi mi sono avvicinato al Buddismo, e ho anche scritto con Fabio Ballabio un piccolo libro sul Buddismo in Italia.Ho capito che non ci possono essere delle specializzazioni, nel senso che il dialogo è un imprinting, un modulo per rapportarsi all'altro, qualsiasi scelta politica, religiosa, culturale, sociale, egli o ella abbia fatto. Il problema è quello di porsi in un atteggiamento di dialogo con tutti e con tutto, e questo tutto nella tradizione cristiana è il creato, la natura, il mondo animale. C'è un disegno divino anche per loro: «Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto» (Lettera ai Romani, 8, 19-22). Il dialogo è un atteggiamento mentale, culturale e teologico, una scelta di fondo, una scelta strategica a partire dal Concilio Vaticano II. Giovanni Paolo II lo riprende continuamente. Nell'enciclica Ut unum sint del 1995 parla soprattutto del dialogo ecumenico, ma sostiene che il dialogo è il modo nuovo di essere chiesa. L'essenza del dialogo sta nella relazione tra identità e differenza. Come porsi in un dialogo interreligioso, in un momento in cui sembra tutto religione, tutto mistico?Questa è un'occasione e un problema insieme. Quando ho incominciato a studiare teologia gli amici mi guardavano più che stupiti, oggi invece tutto è religione, tutto è sacro. Parlo di quella che viene chiamata New o Next Age, che non disprezzo affatto perché esprime un bisogno di religiosità che non è stato interpretato dalle chiese storiche. Però un'operazione di mescolanza, ad esempio di pezzi di Buddismo, pezzi di Cristianesimo, pezzi di mistica ebraica, mi pare sia destinata a rimanere da un lato nel regno della fascinazione e dall'altro nella pura ricerca di tecniche appropriate, ma non dà senso alla vita. Il rischio è quello del supermarket multireligioso, dove non c'è più nessuna distinzione. Il fatto che alla fine prevalga un senso indistinto di clima religioso è senz'altro meglio dell'ostilità, ma non è molto diverso dall'indifferenza. L'incontro, il vero dialogo, non può avvenire solo sul piano intellettuale. Qual è il vero nucleo del dialogo?Credo che il dialogo sia sempre una relazione, un rapporto. Quindi deve essere una relazione con qualcosa o con qualcuno. Può essere anche un rapporto intellettuale, quindi sia con una persona sia con un testo, con una musica, o un rapporto diretto tra persone, animali, ecc. Ed è una relazione anche con te stesso, un dialogo al tuo interno. L'esperienza monastica cristiana vive molto di questo tipo di dialogo con se stessi, anche di lotta con se stessi. Un'esperienza di silenzio che è così difficile ottenere oggi nel caos della nostra vita quotidiana.Quindi il dialogo per me è soprattutto una relazione, una scelta, una strategia che ha in prima battuta una parola chiave: l'empatia nei confronti dell'alterità. Non ci può essere dialogo se non c'è una disponibilità empatica che - al di là delle definizioni teoriche e psicologiche - vuol dire guardare negli occhi qualcuno e non necessariamente considerarlo più un nemico che un amico. Quello che invece oggi accade. Noi viviamo in un mondo in cui l'altro è quasi sempre potenzialmente un nemico. Questo è il dramma che stiamo vivendo, la barbarie che stiamo vivendo. L'empatia secondo me vuol dire questo sguardo, questa tensione, questa apertura. E cos'è che falsifica il dialogo?Potremmo tornare a quello che sosteneva Kant, usare l'altro come mezzo e non considerarlo un fine. Usarlo come strumento per fare qualcosa. Nel suo libro Vocabolario minimo del dialogo interreligioso parla di diversi livelli di dialogo. Sì. Può esserci un dialogo a partire dalla conoscenza reciproca semplice, quello molto umano che nasce dalla convivenza. C'è un dialogo morale, che vuol dire lavorare assieme in vista di obiettivi comuni, ai quali collaborano uomini e donne di religioni diverse. Poi c'è un dialogo più intellettuale, che nasce dalla teologia, dallo studio insieme, dall'individuare percorsi comuni tra le diverse correnti religiose. Il quarto livello è quello della spiritualità, che può arrivare anche a una preghiera, a una meditazione comune. Occorrono però persone capaci di lavorare in un campo così delicato. Il dialogo è una cosa seria che rischia, se non lo pratichi con la dovuta attenzione, anche di bruciarti. Tante persone affascinate da questo tipo di possibilità si sono illuse e poi hanno avuto delusioni terribili.Se ciascuno di noi ha un percorso personale, su cosa si incontrano le religioni? Si può trovare una modalità spirituale comune oppure è meglio lavorare su un'etica globale nuova che accomuni tanti percorsi diversi su alcune tematiche?Questo è il percorso di Hans Kung per un'etica globale, dove le religioni dovrebbero costituire una sorta di anima comune del mondo. È un tema affascinante, ma è uno dei percorsi possibili. Una cosa mi preme dire sul Buddismo. Nel quadro di una prospettiva mondiale io trovo che il Cristianesimo e il Buddismo abbiano una sintonia forte, profonda, che non viene sempre sottolineata: la dimensione anti idolatrica. Per me è la cosa che hanno maggiormente in comune. Il fatto di mettere al centro l'essere umano?Qualcosa di più. Yeshua ben Yosef (Gesù) e Shakyamuni Gotama Siddharta hanno una profonda sintonia, sono due anime grandi nel pensiero religioso di tutti i tempi. Entrambi lottano contro gli idoli, e contro il fatto che l'essere umano è bravissimo a costruirsi idoli da sé. Mi colpisce che questi due grandi uomini si trovino vicini su questo punto cruciale. Io credo che un rapporto approfondito tra cristiani e buddisti sulla scorta di questa prossimità teologica potrebbe essere molto ricco.Perché invece, lo dico rischiando la banalità, l'immagine che gli occidentali hanno di solito del Buddismo è quello di una realtà totalmente disincarnata rispetto ai problemi della quotidianità, in particolare della politica, e di una religione talmente sui generis da non essere neppure una religione, bensì un pensiero filosofico. Direi che questo è un po' il giudizio-pregiudizio diffuso.Quale relazione c'è oggi tra religione e politica?Sicuramente bisogna distinguere tra le diverse religioni, nel senso che il Cristianesimo ormai ha acquisito, salvo eccezioni, la dimensione della laicità della politica. La politica è una dimensione laica che non deriva direttamente da una scelta religiosa. Oggi la politica sta vivendo uno dei momenti più bassi della sua storia, non solo in questo paese. La politica nel senso di democrazia rappresentativa, nel senso di servizio. E invece "servizio" oggi sembra quasi una parola fuori luogo. Con i riflessi che vediamo nelle giovani generazioni e che personalmente mi preoccupano molto. Noi qui a Carpi abbiamo inventato degli stratagemmi. Uno di questi è la Giornata della comunità, che ha cadenza annuale, dedicata ai ragazzi che in quell'anno compiono diciotto anni e diventano adulti. Li raduniamo insieme e consegniamo loro due documenti: lo statuto del Comune di Carpi e la Costituzione. La chiamiamo Giornata della comunità, perché dietro c'è il desiderio di sviluppare la consapevolezza della dimensione di comunità del nostro paese e delle nostre città. E del fatto che oggi il tema centrale è quello di ricostruire da capo dei rapporti. Nel dialogo oggi si deve ricominciare da capo, non dare per scontato nulla. Ripartire da zero e senza paura di far qualcosa in più, perché purtroppo ce n'è un bisogno enorme. Anche nella politica io credo che l'obiettivo sia quello di ricostruire un tessuto di rapporti che produca una comunità, una condivisione di storie. In questo senso, come produttrici di grandi racconti più o meno in crisi, le religioni e la politica potrebbero forse aiutarsi a vicenda. Per prendere poi strade diverse. In una condizione di rispetto reciproco e di attenzione verso le differenze potrebbero collaborare per ricostruire quella che il papa e il presidente della Repubblica Ciampi chiamano "riconciliazione delle memorie", la ricostruzione di una memoria condivisa. Un processo necessario per far sì che anche in ambito politico i contendenti siano percepiti come avversari e non nemici. Avversari politici e non nemici da combattere.
tratto dal sito www.sgi-italia.org
2 commenti:
IL MURO DI VETRO.
L’Italia delle religioni. Primo rapporto 2009
A cura di Paolo Naso e Brunetto Salvarani, EMI, Bologna 2009
Recensione
di Laura Tussi
Il muro di vetro è una fragile osmosi che divide le molteplici realtà, i pluralismi religiosi, composti di intersezioni e persino di familiarità ricorrenti, ma che non permettono il contatto e la relazione reciproca diretta, anche se sussistono eccezioni, perché tutti i muri innalzati dall'umanità e dalle conseguenti ideologie presentano fratture e pertugi che consentono a volte scambi e contaminazioni dialogiche, in un panorama ampio di multiculturalità religiosa sempre più significativo anche a livello nazionale, nell'incontro religioso e nel dialogo ecumenico.
La differenza è uno dei principi della cultura postmoderna, che insiste sulla diversificazione, sulla molteplicità e la complessità, contro i rischi della pianificazione e dell'omologazione sociale.
La finalità di riconoscersi in un'identità deve diventare sempre fonte di confronto con l'alterità, l'altro da sè e quindi con l'implicita diversità che l'identità altrui presenta, nel concetto di differenza individuale, soggettiva, esistenziale e, per esteso, di varietà interetnica e multiculturale.
La conoscenza di sé attraverso il percorso religioso di autoriflessione, di autonarrazione, di racconto di sé, permette di identificare ed approfondire una propria personalità in rapporto all'alterità di colui che si pone in dialogo.
Di conseguenza le molteplicità religiose, le complessità interetniche e multiculturali si incontrano e si incrociano trasversalmente con le diversità religiose, psicologiche, identitarie, soggettive, di genere ed intergenerazionali in un pluriverso di alterità sociali, all'interno di un tessuto sociocomunitario che dovrebbe sempre più aprirsi all'accoglienza, al confronto, al dialogo, nell'interscambio tra molteplici aspetti che permeano l'intera umanità e che non si possono classificare e attribuire esclusivamente al concetto di razza ed etnia, perché la differenza è ubiquitaria e trasversale al concetto stesso di umanità.
La considerazione e il riconoscimento dell'altro da sé permettono il reciproco confronto e la gestione educativa del conflitto dove spesso l'intesa e l'accordo si prospettano come una lontana utopia.
Il concetto di diversità sollecita riflessioni e associazioni di idee varie e complesse, dal dibattito sulle opinioni della democrazia, ai contesti e agli scenari economici e sociali.
Risulta spontaneo pensare alle diversità tra donna e uomo, tra generazioni, tra nazionalità, lingue e religioni dove è necessaria un'innovativa grammatica mentale per costruire la convivenza planetaria in dimensione interculturale.
Infrangere la discriminazione, lo stereotipo e il pregiudizio, rappresentati dal “muro di vetro” consiste nella motivazione alla solidarietà, alla realizzazione di una società che abbia come valore fondante la pace e la convivenza civile tra popoli, genti e minoranze, nel rispetto dei diritti universali e sociali di cittadinanza multietnica, cosmopolita e internazionale, sanciti dalla carta costituzionale democratica.
Oltre “il muro di vetro” vi è un mondo dove non esistano patrie e nazioni, frontiere e burocrazie, limiti e confini, ma comunità educanti aperte all'accoglienza, al dialogo, al cambiamento rivoluzionario, al progresso costruttivo, senza stereotipi, pregiudizi e conseguenti discriminazioni, nel rispetto delle culture altre, nella coesistenza pacifica che agevola il confronto tra diversità interculturali e differenze di genere ed intergenerazionali, per costruire una coscienza di convivenza civile che ponga come obiettivo prioritario la conoscenza, il dialogo, l’ accoglienza, il confronto nelle comunità, nelle città, nel mondo…per un'utopia della convivenza realizzabile a partire da ogni singola persona, nel contesto quotidiano, nella partecipazione collettiva, pluralista e democratica.
Laura Tussi
Questa idea di un nuovo Concilio paragonato al primo concilio è una eresia; nasconde l'idea che la Chiesa debba essere periodicamente ridiscussa, sotto sotto l'idea luterana che in fondo la Chiesa sia una sorta di nuovo sinedrio di scribi ed ipocriti rispetto al quale compiere un'altra rivoluzione come la fece il Suo fondatore. Dimenticandosi che Gesù non è venuto per rovesciare ma per portare a compimento e che Lui era non un semplice uomo ma il Figlio di Dio e che ha compiuto tutto quello che era da compiere con la Sua predicazione, morte e Resurrezione. E con la fondazione della Sua Chiesa. Dopo di che non c'è più nulla da aggiungere o da cambiare ma solo da adattare alle circostanze senza modificare alcunchè. Che cosa si vuole introdurre con un nuovo Concilio? Il matrimonio per i preti? Gay, aborto, si deve cambiare come si è cambiato per i vecchi riti mosaici? Non illudetevi la Chiesa non può e non deve cambiare; Esistono centinaia di altre chiese protestanti in cui donne lesbiche fanno le vescovesse e vengono ammessi ogni genere di peccati. Quella non è la Chiesa di Dio. Quanto al dialogo non può avere altro fine che la totale conversione al Cattolcesimo. E non invece la costruzione di nuove comode teorie umane come va sempre più di moda.
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