IL DISCORSO “AMBIGUO” SULLE MIGRAZIONI
di Andrea Macciò
Il “discorso” ambiguo sulle migrazioni (Edizioni Mesogea, Studi e Ricerche, Messina, 20 euro, in libreria dal 15/12), a cura di Salvatore Palidda, è una raccolta dei contributi di vari studiosi (A. Dal Lago,M. Delgado Ruiz, W. Baroni, F. Brion, con saggi più incentrati sull’analisi di aspetti del discorsopubblico sulle migrazioni; A.Rahmi, F. Scrinzi, J. L. Edoguè Ntang e M. Peraldi, G. Suzanne con studi empirici di caso) al progetto europeo W.P. 253.1, Mutamenti e prospettive delle mobilità umane negli spazi euro-mediterranei . Applicando il metodo di ricerca di Foucault, il suo concetto di discorso come struttura cognitiva di produzione e organizzazione del senso, e riprendendo alcuni aspetti della prospettiva sociologica interazionista di Goffmann, Garfinkel e H. Becker, i contributi raccolti in questo testo interrogano il significato e il funzionamento del discorso sulle migrazioni nella contemporaneità e dei suoi termini-simbolo: migrante, immigrato, multiculturale, interculturale, cultura. Una delle tesi centrali è che le migrazioni siano da studiare come un fatto sociale totale o come un fatto politico totale, mettendole in relazione con i mutamenti degli assetti politici, sociali, economici e culturali delle società d’emigrazione e d’immigrazione.
Il curatore S .Palidda inquadra lo studio delle migrazioni nel contesto delle mobilità umane, nelle quali rientrano fenomeni apparentemente molto diversi come il turismo di massa e i pellegrinaggi religiosi, e sottolinea come gli spostamenti degli esseri umani siano da sempre una caratteristica intrinseca della storia sociale, politica, economica e non un’emergenza contingente. La proliferazione di ricerche, studi, convegni sull’immigrazione che caratterizza le scienze umane, dalla pedagogia al marketing, dalla psicologia alla giurisprudenza, è caratterizzata al contrario da uno sguardo tecnico, specialistico, che prescinde dall’analisi dei meccanismi sociali e politici: predomina, secondo gli autori, un approccio embedded, ovvero asservito a una logica per la quale tecnici e specialisti si limitano a proporre soluzioni per un problema concepito come puramente “amministrativo”. In Italia prevale un’immagine dell’immigrato fondamentalmente paternalista, come essere sofferente, svantaggiato, incapace di azione politica autonoma per il riconoscimento dei diritti universali legati allo status di persona umana, bisognoso della nostra benevolenza. Quello che sorprende, come mostra il saggio di Dal Lago, è che questa rappresentazione è assolutamente trasversale: la ritroviamo nella comunicazione istituzionale come nella cultura antirazzista e nella letteratura.
Il saggio di Delgado Ruiz spinge quindi a mettere in questione l’uso di termini “politicamente corretti” come migrante, caratteristico della cultura solidarista e antirazzista, del quale smaschera l’illogicità: si smette di esserlo non appena si arriva a destinazione, e non possono esistere immigrati di seconda generazione ovvero persone immigrate dalla nascita. In realtà secondo l’autore, migrante-immigrato altro non significa che povero che si muove da un luogo all’altro, non necessariamente straniero, in quanto è usato anche per indicare spostamenti interni allo stesso paese. L’approccio tecnico e spoliticizzato trova applicazione nei saperi disciplinari analizzati nel saggio di Baroni: pedagogia interculturale, psicologia e psicoterapia, mediazione linguistico-comunicativa, partendo dal presupposto che la diversità culturale sia la caratteristica dominante dello spazio sociale contemporaneo, intervengono in maniera clinica, ovvero individualizzata, sugli effetti prodotti negli individui dalle pratiche discriminatorie alle quali è sottoposto uno specifico gruppo, quello degli “stranieri” immigrati, a volte in maniera efficace, ma prescindendo dallo spazio sociale e ambientale e dalle logiche di potere che li producono. A fianco dello specialismo tecnico, c’ è la spoliticizzazione, resa possibile non solo dagli approcci clinici, ma anche dal concetto di “cultura” come entità immutabile che governa completamente l’agire dei “migranti”, idea dalla quale deriva la teoria della natura culturale dei conflitti politici e sociali e che ha avuto un’enorme fortuna nel senso comune, nel discorso, mediatico, politico (in modo del tutto trasversale) e in una parte della letteratura socio-politologica. L’ambiguità è il contrasto tra una retorica universalista, che considera le persone come soggetti di diritto, e un discorso che, anche se a volte con le migliori intenzioni, vede nello straniero proveniente dai paesi poveri solo un soggetto di cultura: un’incarnazione stereotipata dell’Altro che rimane tale per tutta la vita, trasmettendo ai posteri la sua alterità, forse fino alla terza e quarta generazione. Come dimostra il saggio di Brion, la cultura è entrata nei sistemi giuridici europei come quello belga, con i concetti di reato culturale (delitto d’onore, escissione femminile, travisamento per motivi religiosi) e difesa culturale (prevedere attenuanti per gli autori di reato mossi da motivazioni religiose o tradizionali e approvati dalle proprie comunità) del tutto inutili a prevenire e reprimere i reati di omicidio o lesioni personali gravissime già puniti dai codici ordinari, persino controproducenti rispetto al loro obbiettivo ufficiale, ma funzionali a costruire le minoranze di origine straniera ai quali sono rivolte come enclaves illiberali, premoderne, oppressive. Le proposte di legge che vietano il travisamento in pubblico facendo esplicito riferimento alla copertura totale del volto per ragioni religiose e la retorica del multiculturalismo estremo disposta a riconoscere attenuanti a delitti motivati da sedicenti convinzioni religiose, o legalizzare l’escissione delle figlie di immigrati praticandola sotto controllo medico in strutture pubbliche per ridurre il danno, mostrano quindi di avere in comune l’idea del determinismo culturale.Persino il razzismo esplicito abbandona oggi le sue tradizionali argomentazioni biologiste per riproporsi nella veste più presentabile di “neorazzismo culturale”.
Questa raccolta di saggi, quindi, con un approccio critico e anticonformista, mette in questione non tanto, come è scontato, gli eccessi xenofobi o dichiaratamente razzisti, quanto la la centralità della cultura nel discorso sulle migrazioni e la sottile ambiguità del paradigma utilitarista dell’immigrato-risorsa con il quale dobbiamo dialogare, tollerandolo e non dimenticandosi mai la sua “utilità sociale”. Discorso che è strutturalmente ambiguo perché l’accettazione della presenza di immigrati-lavoratori non si accompagna a un pieno riconoscimento degli stessi come persone titolari di diritti universali e cittadini. I saggi qua raccolti mostrano il rischio insito nell’attuale discorso dominante sulle migrazioni: quello di trasformarsi in una costruzione autoreferenziale, tesa a perpetuare se stessa senza contrastare le diseguglianze e le sperequazioni sociali delle quali i migranti sono le prime vittime, solo limitandosi ad attenuarne gli effetti con strategie riparatorie di tipo microsociale o individuale. Gli interventi a carattere clinico, nella maggior parte dei casi rispondono a necessità reali delle persone e anche un’eventuale “riparazione” parziale dei danni provocati da logiche politico-economiche non controllabili da chi opera in questi settori è sicuramente preferibile al nulla; ma proprio per questo, il libro si rivolge in primo luogo a chi si occupa di migrazioni dal punto di vista del lavoro sociale, come strumento per esercitare una costante vigilanza verso il rischio di cadere nell’autoreferenzialità, nel paternalismo e nel tecnicismo, e a chi si occupa di ricerca, che non può porsi come “risolutore di problemi”, o come “difensore degli immigrati”, ma deve considerare la realtà sociale analizzata anche dal punto di vista dell’immigrato e analizzare con rigore e spirito critico il rapporto fra gli spostamenti migratori e l’organizzazione politica della società.
La conclusione del curatore spinge a interrogarsi sulle nuove frontiere del discorso sulle migrazioni: il “caporalato etnico”, il business delle rimesse di denaro, la gestione delegata a privati, anche del terzo settore dei Cpt e degli sgomberi dei campi Rom, l’imprenditorialità degli immigrati e il fenomeno delle false partite IVA, le forme di sfruttamento nelle quali alcuni degli stessi immigrati hanno un ruolo preponderante a danno dei propri connazionali. C’è poi il fenomeno dell’ethnic business, del marketing mirato a minoranze religiose o gruppi di migranti considerati come categorie di consumatori; da un certo punto di vista è certamente un indicatore di integrazione o quantomeno del peso sociale ed economico acquisito, se si guarda a questo fenomeno a un livello settoriale. Se invece iniziamo a guardare alle migrazioni e alle mobilità umane come fatto sociale totale, la constatazione che il riconoscimento del ruolo di consumatore preceda, almeno nel nostro paese, quello di cittadino e titolare di diritti politici, sembra piuttosto una variante del punto di vista utilitarista per il quale la presenza dell’immigrato è auspicabile in maniera subalterna, solo quando ricopre il ruolo di lavoratore, ruolo al quale, in fondo, quello di consumatore è complementare. Rifacendosi ai contributi di Finzi, Etang-Peraldi, Scrinzi e Rahmi, che ci ricordano che pochi anni fa “gli altri” eravamo noi, e che quella che è identificata con la condizione di “migrante” è assimilabile a una condizione di svantaggio socio-economico, siamo indotti a riflettere su come logiche di potere alle quali gli stranieri poveri possono essere più facilmente sottoposti perché in condizione svantaggiata si possano estendere anche alle componenti subalterne della società autoctona: per questo, l’immigrazione è lo specchio della società nel suo complesso e non può essere studiata da punti di vista parziali.
tratto da http://www.erasuperba.it/index.php?option=com_content&view=article&id=277:il-discorso-ambiguo-sulle-migrazioni&catid=35:dal-mondo
Nessun commento:
Posta un commento