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mercoledì 7 settembre 2011

Parlare chiaro. Intervista a Caterina Romeo



di Marta Facchini


Caterina Romeo, docente di Studi di Genere presso l'Università di Roma "La Sapienza", si occupa di studi post-coloniali e sulla migrazione. Curatrice ed autrice di numerosi testi a riguardo, pubblica nel 2005 "Narrative tra due sponde: Memoir d'Italiane in America" (Roma; Carocci; 2005) ed è ora in procinto di scrivere un secondo libro, testo sulle scrittrici migranti e post-migranti nell'Italia contemporanea. Docente, tra il 2002-2005, di Women's and Gender Studies presso la Rutgers University, organizza due serie di eventi letterari con scrittrici italo americane ("Voices of Migration" e "Re-Writing the Immigrant Narrative") e una conferenza internazionale sulle migrazioni in Europa ("Trading Cultures: Migration and Multiculturalism in Contemporary Europe").






Immigrato e migrante. È esatto parlare di una differenza tra le due parole?


Il significato delle parole "immigrato" ed "emigrato" in italiano indicano una persona che migra verso uno stato o fuori da esso. Questo però se ci atteniamo al significato del dizionario. Ci sono poi delle stratificazioni di significati che includono aspetti sociali e culturali. La parola immigrato, il cui significato non è di per sé né positivo né negativo, ha assunto una valenza negativa per il fatto che all'immigrazione si guarda sempre come a un problema sociale, come a un'invasione di persone che verranno e cercheranno di sovvertire la nostra società, con i loro usi e costumi, con la loro religione. Il termine "migrante" invece viene di solito utilizzato in modo più neutro, per indicare, senza connotazioni, colui o colei che migra. È però interessante notare che il senso di problematicità e di negatività implicitamente attribuito ai movimenti migratori si estende anche al termine "migrante", che infatti non viene mai utilizzato per definire uno statunitense o un giapponese, ad esempio, che si trasferiscano in Italia. Nei termini "immigrato" e "migrante" c'è una forte componente di razza e di classe sociale.




Nero e di colore. Entrambi vengono ritenuti i termini "politicamente corretti" del linguaggio parlato. Crede che sia possibile pensare a queste come a parole neutre, prive di ogni giudizio di valore? Si può ottenere una neutralità nel linguaggio?


Come ci ricorda Luce Irigaray, parlare non è mai neutro. Io non credo nella neutralità e nell'oggettività, ed è una cosa da cui metto sempre in guardia i miei studenti e le mie studentesse. Dico loro, quando qualcuno vi vuole far passare qualcosa come oggettivo, neutrale, come un dato di fatto che non deve essere messo in discussione, chiedetevi sempre chi ve lo dice e con che finalità. Chi beneficia di quella neutralità, di quella oggettività. La terminologia è sempre molto problematica, perché un termine, nella sua brevità, tende sempre a lasciare qualcuno fuori o a essenzializzare qualcun altro. Il problema di questi termini è che molto spesso contengono echi che vengono dal colonialismo, dalla schiavitù, dalla segregazione. Questo è il caso per la parola "colored" negli Stati Uniti, usata durante il periodo della segregazione razziale per dividere gli spazi accessibili ai bianchi e ai neri. Oggi secondo me "di colore" non è più un termine politicamente corretto, io almeno non lo uso mai, laddove invece "nero" lo è, visto che è semplicemente un colore. Il problema è che il termine "nero" lascia fuori tutte quelle persone che non sono bianche, ma neanche nere (asiatici, nativi americani, latino americani, aborigeni australiani, etc.). Allora per un periodo in ambito angloamericano si è utilizzato il termine "non white", che però è altrettanto problematico perché definisce le persone e in particolare le donne nere e colorate in genere in base a una mancanza, quella del colore bianco. Qualche tempo fa ho discusso di questo con Grada Kilomba, una studiosa di origini africane portoghesi che lavora in Germania, che affermava che lei usa il termine "women of color" in inglese quando insegna in tedesco, e che secondo lei questo termine dovrebbe essere adottato in inglese come termine di resistenza per parlare di tutte le donne non bianche. Lo trovo molto interessante, anche se naturalmente questo poi riproporrebbe il problema che l'inglese è la principale lingua del colonialismo.






La storia della filosofia contemporanea e, allo stesso tempo, l'esperienza femminista hanno sottolineato il carattere performativo del linguaggio. A tale proposito, ritiene che l'utilizzo di determinate parole da parte dei media contribuisca a veicolare l'opinione pubblica nei confronti della migrazione?




A questa domanda ho già in parte risposto prima. Certamente i media sono fondamentali nella rappresentazione dei migranti, e le rappresentazioni sono fondamentali perché è in base a quelle rappresentazioni che noi immaginiamo. Il sociologo Alessandro Dal Lago ha affermato che i media costruiscono quella che lui definisce "tautologia della paura", cioè un sistema comunicativo in cui la paura dei migranti - fondata su una loro implicita devianza - rafforza se stessa in seguito ad un continuo allarmismo e a un'atmosfera di continua emergenza.






Magritte

La carta stampata è solitamente attraversata da un leitmotiv; nel momento in cui vengono affrontati episodi di cronaca, cronaca nera nella maggior parte delle circostanze, si sottolinea la provenienza del protagonista qualora esso sia di nazionalità non italiana. Si possono riportare una serie di esempi; "Donna perseguitata. Albanese arrestato" (Il Tempo, 14 gennaio 2011); "Incidente stradale a Roma. Rumeno uccide 37enne" (SKY TG24); "Omicidio nella notte; senegalese uccide commerciante"(Libero, 28 luglio 2010). A suo parere, qual' è il meccanismo che porta a sottolineare solo alcune nazionalità? Le modalità linguistiche impiegate dai giornali mancano di oggettività?


Si sottolineano le nazionalità che si vogliono criminalizzare e si crea la paura che la violenza venga dal di fuori. Invece, come tristemente sappiamo, la maggior parte delle violenze subite, in particolare dalle donne, vengono da membri della famiglia. Però mettere in crisi l'istituzione della famiglia, nella cattolicissima Italia, è molto più complicato. È più facile identificare il male con i migranti, tout court.


L'atteggiamento di sottolineare solamente alcune provenienze nel descrivere i fatti di cronaca ha, secondo lei, una specifica data di inizio?


Non saprei, ma se ce l'ha sicuramente non è recente. Almeno se ci riferiamo anche ad altri paesi. Prenda gli Stati Uniti, ad esempio, dove gli immigrati italiani sono stati per lungo tempo indesiderati. C'è una vignetta famosissima uscita su un giornale statunitense del 1903 che ritrae gli immigrati italiani che sbarcano, e sono ritratti come topi di fogna.


Ne deriva spesso l'immagine del migrante-nemico, colui che, in quanto tale, "deve" essere fronteggiato. Quanto il meccanismo della paura contribuisce all'atteggiamento ostile nei confronti del migrante?


E come potrebbe essere il contrario? Se tutti i giorni sentiamo che una categoria di persone è pericolosa, come possiamo non temere per noi stessi, i nostri figli, i nostri cari. Certo, siamo poi in grado di filtrare e di prendere posizioni diverse, ma è molto più difficile di quanto si creda. Come sappiamo dagli studiosi di comunicazione, le informazioni che ci arrivano (specialmente) dalla televisione sono informazioni pervasive, che il cervello assorbe spesso in modo acritico. E così, come ho detto prima, si crea la tautologia della paura.






da una mail di luisa.rizzo@alice.it a dw-intercultura@yahoogroups.com

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