sbilanciamoci.info
Il "cambio di rotta" che vogliamo.
di Giulio Marcon
Serve un modello di sviluppo in cui alcune merci, consumi,
pratiche economiche siano giustamente condannate alla decrescita e altre siano
invece destinate a crescere
La Legge di Stabilità del 2013 si colloca dentro il quadro
di una crisi i cui dati sono noti: quest’anno il Pil diminuisce del 2%, un
terzo dei giovani non ha lavoro, la spesa sociale si è di fatto dimezzata
provocando uno smantellamento del welfare, abbiamo oltre centosessanta crisi
industriali in atto con il rischio di perdere altri trecentomila posti di
lavoro, più di un miliardo di ore di cassa integrazione nel 2012, più di un
milione di posti di lavoro persi dall’inizio della crisi, il potere d’acquisto
tornato ai valori di dieci anni fa, oltre cinquanta comuni di media grandezza
che il prossimo anno rischiano il dissesto finanziario e di non poter pagare
più gli stipendi ai propri dipendenti.
È una crisi tremenda, drammatica.
Noi proponiamo un “cambio di rotta”: basta con il
neoliberismo, basta con le politiche di austerity, basta con la subalternità ai
mercati finanziari, basta con una politica economica che sta aumentando le
sofferenze sociali e accentuando la depressione e la recessione dell’economia
reale. Basta con una cura da cavallo che sta uccidendo il cavallo. Si continua
a svuotare con il cucchiaino un secchio d’acqua sempre più colmo, mentre
bisognerebbe chiudere il rubinetto che quel secchio riempie sempre più velocemente.
Il cucchiaino sono i tagli alla spesa pubblica, il rubinetto è la speculazione
dei mercati finanziari che continua ad agire indisturbata. Si continua a
lisciare il pelo ai mercati finanziari, mentre bisognerebbe fargli il
contropelo.
Il debito pubblico è aumentato in questi anni in molti paesi
non tanto (e non solo) perché quei paesi sono spendaccioni, ma anche perché si
sono salvate con i soldi pubblici le banche private, come è successo in
Francia, Belgio, Gran Bretagna, Olanda e – naturalmente – negli Stati Uniti.
Nessun argine è stato messo ai derivati, ai compensi dei top manager, alle
dinamiche speculative più accentuate (la Tobin Tax è rimasta lettera morta), e
non ci sono Basilea 4-5-6-7-8 che tengano.
Il debito pubblico aumenta non tanto perché si spende
troppo, ma perché si cresce poco. E la speculazione non è legata al debito, ma
ha ben altre dinamiche.
Si sottoscrivono misure sbagliate e insostenibili come il
Fiscal Compact: per rispettare quegli impegni dovremmo avere 5-6 punti di avanzo
primario l’anno per vent’anni da destinare alla riduzione del debito. Per
intenderci: 40-50 miliardi l’anno di manovre per vent’anni. Il governo Monti,
delle tre parole con cui ha avviato la sua opera riformatrice – rigore,
crescita ed equità – ha applicato solo la prima e solo a danno dei lavoratori,
dei pensionati e dei giovani. Ha varato discutibili provvedimenti sulle
pensioni e sulla riforma del mercato del lavoro. Le misure sulle
liberalizzazioni sono state un flop.
E poi tanti, tanti tagli: alle risorse come ai diritti.
Nessuno – o quasi nessuno – investimento nella crescita. Di “impressionante
sforzo riformatore” – come ha detto la Merkel a proposito dell’operato del
governo Monti – c’è ben poco. Tanta tecnocrazia, tanto neoliberismo, tanti favori
ai mercati finanziari e tante batoste per la povera gente.
La politica italiana si è attardata sugli equilibri nelle
coalizioni, sulle alleanze e sulle convulsioni di un sistema politico allo
sbando. È mancato largamente in questi mesi il merito dei problemi: il
programma e gli obiettivi che sarebbe necessario darsi per fronteggiare la
crisi e avviare un modello di sviluppo radicalmente diverso da quello che
abbiamo conosciuto fino ad oggi. E scompaiono dal dibattito politico, da una
parte, la società con le sue sofferenze e, dall’altra, i soggetti (il lavoro, i
movimenti, la società civile) che dovrebbero essere il perno di un cambiamento
radicale del paese.
Nel merito, tutto il dibattito (quando c’è) si sta riducendo
a essere a favore o contro il “montismo” (la scelta è scontata), come se si
trattasse di una sorta di mantra che ci evita di affrontare le questioni
concrete che abbiamo sul tappeto e che Sbilanciamoci! e altri hanno posto in
questi mesi: il modello di sviluppo che vogliamo (i Suv a Mirafiori o i bus
della Irisbus, il Ponte sullo stretto o le piccole opere, i treni per i
pendolari o i trafori delle Alpi, i pannelli solari o il carbone, i diritti del
lavoro o la flessibilità?), oppure la redistribuzione necessaria della
ricchezza contro le rendite e la finanza (la patrimoniale, la Tobin Tax,
eccetera), o ancora una politica espansiva e keynesiana invece di un’austerity
tutta sulle spalle della povera gente.
Da una parte bisogna mettere al centro la critica e il
superamento del paradigma neoliberista che ci ha portato alla crisi – e che
ancora sta dominando l’orizzonte della crisi – e, dall’altra, la costruzione di
un’economia diversa fondata sul lavoro, la qualità sociale e i diritti, la
sostenibilità ambientale, i saperi. Il neoliberismo e le politiche di austerity
hanno fallito, hanno accentuato la crisi e la recessione.
Il “cambio di rotta” di Sbilanciamoci! consiste, dunque,
nell’uscire dalla crisi in un modo diverso da quello con cui ci si è entrati.
Serve un modello di sviluppo in cui alcune merci, consumi, pratiche economiche
siano giustamente condannate alla decrescita (il consumo di suolo, la mobilità
privata, la siderurgia inquinante) e altre siano invece destinate a crescere;
quelle di un’economia diversa che abbia tre pilastri: la sostenibilità sociale
e ambientale; diritti di cittadinanza, del lavoro, del welfare degni di un
paese civile; la conoscenza come architrave di un sistema di istruzione e di
formazione capace di far crescere il paese con l’innovazione e la qualità. Ma
non c’è possibilità di uscita dalla crisi se non si ristabiliscono condizioni
di uguaglianza e di giustizia economica e sociale: serve una redistribuzione
della ricchezza del 10% più agiato a favore del 90% della popolazione che
soffre il peso della crisi. Per far crescere la torta bisogna prima fare delle
fette più eque per tutti. È ora che i mercati finanziari, i rentiers e le
banche si facciano da parte.
Il “cambio di rotta” che vogliamo deve ripartire, ancora,
dalle persone, dagli anziani e dai disabili che sono abbandonati dallo Stato,
dagli operai dell’Alcoa che devono salire sui silos per farsi ascoltare, dai
cittadini immigrati lasciati affogare nel canale di Sicilia, dai giovani che
tornano a emigrare all’estero, dagli studenti che vengono espulsi dalle università,
dalle donne discriminate sui posti di lavoro. Dalle persone, da loro si
costruisce il cambiamento di cui abbiamo bisogno: ascoltiamo la loro voce, le
loro sofferenze, le loro speranze.
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