Parlar
di alberi, di questi tempi: brevi riflessioni sul comportamento insegnante, la
scuola, la guerra, la Shoah, il terrorismo, la pace.
«Quali tempi sono questi, quando/discorrere d’alberi è
quasi un delitto,/perché su troppe stragi comporta il silenzio!» così si
lamenta Bertolt Brecht, in una nota poesia: A
color che verranno. A questi versi, vorrei collegarne un altro poeta
tedesco, Novalis, a dir poco profetico: «chi brucia i libri finisce per
bruciare anche gli uomini» In poche parole è racchiusa la parabola nazista
iniziata coi roghi di libri (e di opere d’arte “degenerata”) e conclusasi (?)
con i campi di concentramento. Ma, si sa: il ventre che ha partorito il mostro
è sempre fecondo!
Alla vigilia del Giorno della Memoria e all’indomani delle
stragi in terra francese come si può parlare di questi fatti ai bambini, a color che verranno? Come dire? E cosa
dire?
C’è un filo, nero, che lega le stragi naziste a quelle
perpetrate dall’Isis: si tratta di una
incultura che affonda le sue radici ancora più indietro nel tempo: è quella
dell’intolleranza, dell’etnocentrismo, del razzismo, della prevaricazione,
dell’odio. Basta ripercorrere la storia del Secolo
breve, il Novecento, per vedere come sia costellato di massacri, a partire
da quello degli Armeni, solitamente ignorato dai manuali scolastici, a quelli
odierni. Ma prima ancora, occorre ricordare da un lato la strage dei nativi
americani – le giustificazioni avanzate dai colonizzatori fornirono la base del
razzismo nazista come ad esempio, la tematica dello ‘spazio vitale’, e alla sua
eugenetica - dall’altro le atrocità
compiute dai colonizzatori e ‘civilizzatori’ europei nel resto del mondo (basti
pensare ai delitti commessi dai belgi in Congo o degli italiani in Eritrea, per
fare due soli esempi).
Occorre allora, prima di parlare ai bambini, interloquire
con gli insegnanti e i genitori, gli educatori dunque. Il filosofo tedesco
Theodor W. Adorno ha riflettuto su questi temi in un breve testo, L’educazione dopo Auschwitz (ora in
Kaiser, 1999: 303-321) dove leggiamo: «L’educazione avrebbe un senso in
generale, solo allorché fosse un’educazione all’auto-riflessione critica»
(ibid.: 305) e che «l’educazione che
volesse impedire la reiterazione di siffatto orrore dovrebbe quindi di
necessità concentrarsi sulla prima infanzia» (ibid.: l.c.)[1]. L’educazione, che ha per
centro la formazione dell’uomo, rifugge ogni forma di condizionamento per cui il
filosofo precisa che quando parla di educazione dopo Auschwitz, si riferisce «a
un complesso di due fattori: innanzitutto all’educazione nella prima infanzia;
e in secondo luogo al rischiaramento universale che dà origine a un clima
spirituale, culturale e sociale che non ammette alcuna reiterazione
dell’orrore, un clima dunque in cui i motivi che hanno condotto all’orrore
vengano in qualche modo conosciuti»
(ibid.: 306-307). Ammette di non avere «la presunzione di abbozzare anche solo
nei suoi lineamenti essenziali il progetto di una simile educazione» (ibid.:
307), per cui dobbiamo inventarla o, meglio, costruirla con gli strumenti che
abbiamo a disposizione. Adorno scrive che «l’unica vera forza contro il
principio di Auschwitz potrebbe essere l’autonomia […] la forza che spinge
verso la riflessione, l’autodeterminazione, il non-fare ciò che altri fanno»
(ibid.: 308). Strumenti, quelli citati, che possono essere utilizzati contro «l’istinto
gregario della […] lonely crowd,
della folla solitaria» (ibid.: 318) istinto che conduce a quella «incapacità di
identificazione [che] è stata senza dubbio la condizione psicologica più
importante perché sia potuta accadere una cosa come Auschwitz» (ibid.: l.c.).
Lo studioso giunge alla conclusione che bisogna (ri)scoprire «quel calore cui
tutti aspiriamo» (ibid.: 318) e aggiunge: «i molto denigrati utopisti[2] lo hanno intuito. Così
Charles Fourier ha definito l’attrazione come un qualcosa che si esplica come
forza di avvicinamento solo attraverso un ordinamento sociale umano; egli
riconobbe anche che questa situazione è possibile solo qualora le pulsioni degli
uomini non siano più represse, bensì soddisfatte nella loro libertà di
manifestarsi. Se qualcosa può giovare contro la freddezza come condizione del
male, questa è la presa della visione delle condizioni che mettono in atto la
freddezza stessa, e il tentativo, attuato innanzitutto nella sfera individuale,
di contrastare queste condizioni» (ibid.: 318-319). Compito non semplice: di
questa difficoltà è ben conscio il filosofo che invita a cercare «le
possibilità concrete di resistenza» (ibid.: 320). Gli strumenti per questa
resistenza sono indicati dalla vita e dall’opera di educatori come Martin
Buber, Aldo Capitini e don Lorenzo Milani. Tre maestri in cui riflessione
filosofica e attività politica quotidiana si sono intrecciate
inestricabilmente. Certo non si può fermare il nazismo o il terrorismo solo con
i libri e la conoscenza: occorre costruire, o ampliare il più possibile e
diffonderla capillarmente, una cultura del rispetto, del riconoscimento
dell’altro, dell’accettazione[3] che permetta di rompere il
circolo vizioso per cui ci sono «uomini che in fondo fanno, proprio perché sono
schiavi, ciò per cui perpetuano la loro schiavitù, degradando così se stessi» (ibid.: 321).
E, riprendendo il testo poetico di Brecht citato in
apertura, A coloro che verranno,
terminiamo queste brevi e incomplete riflessioni, con il finale della poesia: «Ma
voi, quando sarà venuta l’ora/che all’uomo un aiuto sia l’uomo,/pensate a noi/
con indulgenza».
Giuliano Falco
Bibliografia
Adorno
Theodor W.
1969
Erziehung nach Auschwitz in Stichworte.
Kritische Modelle,
Frankfurt a.M., Suhrkamp, ora in Kaiser
(ed.), 1999
Kaiser
Anna (eds.)
1999 La Bildung ebraico - tedesca del Novecento, Bompiani, Milano
[1]
In queste brevi note si accomunano la Shoah e la violenza in genere (guerre e
terrorismo) non per sminuire la prima ma per sottolineare come sussista un
sostrato comune, un brodo di coltura per queste atrocità
[2]
Si riferisce ai socialisti utopisti, denigrati da Marx ed Engels
[3]
Termini che andrebbero forse specificati e precisati, resi consunti dall’uso (e dall’abuso) nel discorso
parenetico o retorico
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