“Ho passato la vita alla ricerca di Dio oggi sento il peso di non avere
figli”
intervista
a Enzo Bianchi a cura di Antonio Gnoli
in
“la Repubblica” del 28 luglio 2013
Forse
cinquant’anni fa Enzo Bianchi non avrebbe immaginato che la Comunità di Bose,
da lui
fondata,
sarebbe diventata un importante centro della spiritualità, sul quale convergono
religiosi e
laici
da tutta Europa. E non è che qui si respiri la severa aria teologale che incute
timore e toglie il
respiro.
Quel vecchio detto: solo il bene alla lunga è degno di considerazione qui è
declinato con
naturalezza
e semplicità. Sono le armi con cui mi accoglie il Priore, in questo luogo che
conta una
settantina
di monaci, impegnati nelle più diverse attività.
Bianchi
ha una vita intensa. Scandita, oltre che dal lavoro in comunità, dagli incontri
esterni:
generalmente
sono conferenze con molto seguito. Ha da poco compiuto settant’anni che Einaudi
ha
festeggiato
con una raccolta di scritti in suo onore (La sapienza del cuore). E
nell’osservare
quest’uomo
dalla costituzione robusta e dallo sguardo franco mi chiedo quanto di tutto
quello che
vedo
realizzato sia dipeso dal suo carisma. Sediamo a una tavola imbandita con
semplicità e dovrei
raccontare
a questo punto l’appassionata competenza che il Priore esibisce in fatto di
cucina. Quella
che
predilige è monferrina, perché lì sono le sue origini: «Mia nonna era una cuoca
francese, venne
in
Italia e sposò mio nonno, un panettiere. In casa c’è sempre stato il culto per
la cucina». E per un
po’
la conversazione si insinua tra i ricordi di pietanze della sua terra: «Amo il
mio Monferrato con
le
sue colline e le sue viti», dice. E nel dirlo, si avverte un senso di pienezza
e di malinconia.
Quando
giunse qui a Bose?
«Nel
1965, deciso a dedicarmi alla vita monastica».
Una
scelta ardua.
«Direi
imperiosa. Fino ad allora avevo militato nella sinistra democristiana. Poi,
nell’estate del
1965,
andai a trovare l’Abbé Pierre che viveva alla periferia di Rouen. In quelle
settimane che
rimasi
con lui ho appreso che carità e solidarietà non sono semplici gesti esteriori».
Cosa
la colpì di quell’uomo?
«Intanto
il fatto che si circondasse di un’umanità composta da fuoriusciti della Legione
straniera, ex
carcerati,
alcolisti pentiti. Per un po’ di tempo ho vissuto con questa gente. Raccoglievamo
stracci e
ferro
e con il ricavato si mandava avanti questa comunità meravigliosa e strampalata.
Ricordo che il
primo
giorno che arrivai mi ritirai con la mia Bibbia a pregare. Lui mi chiamò e mi
disse: non stare
da
solo, tu vivi con gli altri, prenditi cura di loro, ma senza esibire la parola
religiosa».
Perché
quel divieto?
«Niente
ai suoi occhi doveva essere ostentato. Feci molta fatica ad accettare.
Lavoravamo sulla riva
della
Senna e vivevamo dentro a dei container. Lì ho capito che mostrare umanità è
stare
nell’umano,
anche quello che ti appare il più compromesso. Quell’esperienza cambiò le linee
del
cristianesimo
che avevo in testa».
Torna
in Italia e fonda la sua comunità. Immagino non sarà stata una cosa semplice.
«Non
lo fu per niente. Trovai nell’autunno del 1965, questa cascina abbandonata.
L’affittai e la
rimisi
un po’ a posto. Non c’era luce elettrica, né acqua corrente né fogne. Lavoravo
un piccolo
orto.
E vivevo di qualche traduzione dal francese».
Mi
scusi, il progetto qual era?
«Mi
ispiravo alle regole monacali di Basilio e immaginavo di creare una comunità
che ne seguisse
lo
stile di vita. Ma per più di due anni nessuno bussò. Solo sul finire
dell’estate del 1968, quando
ormai
disperato pensavo che nessuno sarebbe mai arrivato, due ragazzi e una ragazza
mi chiesero di
poter
venirci a vivere».
Lei
era poco più che ventenne. Come reagirono in famiglia alla sua scelta?
«In
casa pensavano fossi un matto. Mio padre sentenziò che ogni famiglia è afflitta
da un deficiente
e
che io indiscutibilmente lo ero. Ci fu rottura».
E
con sua madre?
«Mia
madre era morta che avevo otto anni. Era una donna molto credente. Prima di
morire strappò
a
mio padre una promessa: di farmi studiare, evitando così il lavoro che faceva
lui, e di lasciarmi
libero
nei confronti della fede. Nonostante fosse un ateo ha rispettato quella
richiesta materna».
Cosa
faceva suo padre?
«Era
stagnino; per cinque anni non abbiamo avuto rapporti. Poi, faticosamente,
riprendemmo a
parlarci.
Ma la cosa che mi ha fatto più impressione è che prima di morire mi chiamò. Lui
che non
era
credente, mi disse: la strada giusta l’hai percorsa tu».
Quando
ha scoperto la fede?
«Da
sempre. A 11 anni mi proposi di entrare in seminario. Mio padre provò in tutti
i modi a
dissuadermi.
Non ci riuscì. Andai. Ma resistetti solo cinque giorni e poi sono fuggito».
Cosa
non aveva funzionato?
«Era
un mondo di regole che non riuscivo ad accettare. Piangevo sempre. Mi mancava
il senso di
libertà».
Anche
la fede entrò in crisi?
«No,
al contrario, si rafforzò. La fede richiede la libertà della decisione ».
Ma
cos’era Dio per un ragazzo di 11 anni?
«Una
presenza invisibile cui poter dare del tu. Crescendo la figura di Dio viene
spogliata. Pensiamo
di
conoscerla meglio, in realtà la conosciamo sempre meno».
Non
crede che la presenza di Dio non sia sufficiente e ogni volta che lo si è
assolutizzato
l’uomo
abbia fallito?
«Sì,
Dio non basta. Provo fastidio per la frase di Teresa d’Avila: “Dio solo basta”.
No. Il nostro non
è
un Dio totalitario, ci lascia tante altre realtà: negli affetti e negli amori.
Inoltre non è mai un nostro
possesso.
La sua presenza è elusiva».
Ma
se Dio non basta , il credente non ha fallito?
«La
mia convinzione profonda è che Dio non sia un’entità esterna alla quale mi
rivolgo. È dentro di
me
e negli altri. Non lo cerco in cielo. L’unica possibilità che ho di trovarlo è
nelle relazioni con gli
altri».
Anche
se con gli altri si può fallire e farsi del male?
«Lo
scacco è insito nella natura umana. Ma Dio mi dà la possibilità di vedere più
in profondità».
E
cosa trova?
«Non
è un trovare qualcosa è un avvicinarsi alla verità».
Si
trova, intanto, un’idea di comunità, che non ha molto da spartire con l’idea di
religione.
«Avverto
un certo rigetto di fronte al trionfalismo della religione ».
Mette
in discussione l’operato della Chiesa?
«La
Chiesa è una necessità per la prosecuzione del messaggio evangelico. Però essa
resta
strumentale,
non è il fine. Il fine è il regno di Dio. I monaci l’hanno ben presente».
Ed
è il motivo per cui si è fatto monaco e non prete?
«Sì.
La Chiesa può fare benissimo senza di noi. Ha bisogno di strutture gerarchiche,
non dei
monaci.
Non a caso siamo ovunque. Perché oltre che cristiano siamo un fenomeno umano.
Il
monachesimo
non vuole confondersi con l’istituzione della chiesa; ma non vuole neanche
diventare
un’ipotesi
settaria. Il nostro desiderio di marginalità ci impedisce di essere
intolleranti. Ma non di
cercare
una verità condivisa nel profondo».
Che
cosa è per lei la verità?
«Ciò
che la fede degli altri può testimoniare»
La
teologia non la seguirebbe su questo.
«Sono
convinto che la verità non la possediamo. Essa ci precede. Siamo tutti
mendicanti di verità:
credenti
e non».
Ma
chi non ha certezze è penalizzato?
«Sono
penalizzati solo coloro che non credono in nulla: i nichilisti. Per tutti gli
altri c’è la fiducia in
qualcosa
che chiamerei il bene comune. La crisi morale e culturale che l’Occidente vive
dipende dal
fatto
che non crede più nel bene comune. Oggi tutti cercano la felicità. Ma essa è un
fatto
individuale:
la mia felicità può essere l’infelicità per gli altri. Il credente quando dice
“Dio” deve
pensare
al bene comune».
Bene
comune sono l’acqua, l’aria, la terra, la difesa della vita. Non
necessariamente occorre
Dio
per tutto ciò.
«Penso
al bene comune come al Dio che ci umanizza».
Non
pensa che stiamo andando verso il disumano?
«Se
si guarda agli ultimi decenni, in particolare all'Italia, vedo la regressione.
La perdita di fiducia
nella
polis e nel bene comune. Certo, il deserto sta avanzando ma l'uomo ha le
energie per
ostacolarlo»
Concretamente
come?
«Ogni
giorno ascolto tante persone: il giusto e il delinquente. A noi monaci dicono
tutto. E non è
facile,
le assicuro, misurarsi con la follia o la cattiveria di una persona. Certe
notti vado a dormire
esausto
e mi chiedo come ricominciare l’indomani a sentire queste storie. Però, nel
faccia a faccia
con
chi si ascolta, dalle parole spesso scagliate con violenza e rabbia, c’è la
volontà di vedere il
bene».
Quanto
nel suo ruolo di praticante del bene alligna il privilegio?
«Ci
si sentirebbe privilegiati se non ci fossero momenti in cui viene meno il noi
stessi: o perché i
pesi
da portare sono troppo gravosi, o perché si è feriti dagli altri, o quando si
ha la coscienza della
propria
inadeguatezza o dell’essere spaventati. Chi sono e perché vengono a dire a me
certe cose?
La
tentazione che ho, a volte, è la nientità, fino all'ateismo».
E
quando si insinua il dubbio radicale?
«Lo
combatto con il silenzio. Sto molto da solo, anche intere settimane, nel mio
eremo».
Le
ha pesato il celibato?
«Quando
si è giovani pesa, soprattutto sotto forma di astensione sessuale. Ma dopo i
cinquant’anni
pesa
di più l’idea di non avere figli. Avere sì tanti affetti ma non averne uno in
particolare. Ci sono
certe
sere che vai a dormire chiedendoti: per chi mi alzerò domani? Sono
interrogativi che ci fanno
sentire
non dei privilegiati ma poveri uomini come tutti gli altri».
Cosa
vedono gli altri in lei? Il suo carisma o cosa?
«All’inizio
c’è stata la mia figura. Ma oggi la qualità della comunità è di essere molto
umana. Ho
sempre
detto: il cristianesimo o è umano o non è cristianesimo».
La
comunità protegge. Ma fuori la vita è spesso terribile.
«Non
viviamo di culto come i preti. Non siamo pagati perché facciamo opera
pastorale. Lavoriamo
nella
falegnameria, nel cibo, nella produzione delle icone, nei libri. Alcuni
fratelli si impegnano
fuori
come insegnanti, infermieri, medici. Si alzano alle cinque per andare in
ospedale. E poi
tornano
nel pomeriggio per provvedere ai compiti e alle mansioni interne».
La
sua fede combatte la fragilità?
«So
bene cosa sia la fragilità umana. E non le nascondo che nonostante la mia fede
ho paura della
morte.
Non mi sono rappacificato con essa. Certo, spero che Gesù Cristo mi prenda tra
le sue
braccia.
Ma resta la paura e a volte anche il dubbio su cosa ci attende dopo la morte.
Sono convinto
che
ci sarà un giudizio di Dio, di misericordia ma sarà un giudizio, perché la vita
sarebbe una
stupidaggine
se avessimo tutti un uguale esito».
E
l'idea del merito?
«So
di essere stato al mondo, mi capisca bene, non dalla parte delle vittime. E a
volte mi chiedo se
non
sia stato dalla parte dei carnefici. Non nel senso che abbia voluto fare il
male. Ma aver goduto
una
vita nella stima e nella fiducia degli altri, non essere mai stato perseguitato
per le mie idee, non
aver
mai avuto un rapporto forte con il dolore, mi fa pensare che non abbia brillato
per particolari
meriti».
Non
siamo noi ad attribuirceli. Dunque?
«Dunque,
è preferibile esercitarsi all’arte del lasciare la presa, continuando a
ritenere cara la vita, ad
amarla,
mentre la si lascia nelle mani di altri».
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