di Stefano G. Azzarà*
Hobsbawm esordisce come studioso dei movimenti ribellistici popolari, con un approccio che contribuirà, attraverso un percorso autonomo, a quel rinnovamento del metodo storiografico che nel dopoguerra è stato condotto in diversi contesti dalle “Annales” e da altri interpreti della storia sociale. Se oggi la storiografia non si limita più ad una disamina della sola dimensione politica degli eventi ma si sforza di illuminare la vita interna di un’epoca storica attraverso una sintesi di quel complesso di relazioni materiali, psicologiche e culturali delle quali è intessuta, è anche grazie a lui, come attestano gli interventi raccolti in Italia in uno dei suoi titoli più celebri, la Storia sociale del jazz, del 1982. La sua prima opera importante è però I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, del 1959, un libro molto utile per comprendere la differenza che intercorre tra il ribellismo spontaneo, di origine precapitalistica ma ancora parzialmente presente anche nel mondo in via di industrializzazione nel XIX e nel XX secolo, e quella potente macchina del conflitto organizzato e consapevole che è stato il movimento operaio socialista a partire dalla metà dell’Ottocento.
La sua attenzione ai presupposti del modo di produzione industriale e delle sue specifiche strutture vitali è attestato da un altro importante studio come Pre-Capitalist Economic Formations, del 1965, mentre le potenti trasformazioni antropologiche del conflitto sono esemplificate da due opere come I banditi. Il banditismo sociale nell'età moderna, del 1969, e I rivoluzionari, del 1973. Ma è soprattutto come storico del capitalismo e del mondo borghese che Hobsbawm ha dato il meglio di sé in opere che sono ormai considerate delle fonti imprescindibili, come Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, Il trionfo della borghesia. 1848-1875, L'Età degli imperi. 1875-1914, scritte tra il 1962 e il 1987. L’affresco di un mondo prima in prepotente ascesa e poi via via sempre più consapevole delle proprie contraddizioni, sino alla catastrofe del macello europeo, si dipana qui in una cavalcata che non è mai solo mera descrizione ma anzitutto studio materialistico delle dinamiche storiche profonde.
Dobbiamo ad Hobsbawm, ad esempio, una decisiva comprensione della natura mista e mai pura delle formazioni economico-sociali di volta in volta vigenti, nelle quali non si trova mai soltanto ciò che chiamiamo capitalismo ma sempre quest’ultimo intrecciato in vari modi a resistenze ereditate dalle formazioni precedenti. Così come gli dobbiamo una prima esposizione sistematica della dialettica di classe nel XIX secolo, un periodo che al conflitto tra borghesia e aristocrazia vede seguire, dopo il 1848, la progressiva saldatura di un blocco liberal-conservatore che fu certo disuguale e non privo di contraddizioni ma anche pervicacemente unito di fronte al terribile nemico comune, il proletariato di fabbrica in via di crescente politicizzazione, secondo una acquisizione che sarà poi sviluppata da Arno J. Mayer.
Ma, come detto, l’opera che lo ha reso noto al grande pubblico è certamente il Secolo breve, del 1994, il cui titolo originale è significativamente The Age of Extremes. Qui Hobsbawm distingue tre grandi fasi nella storia del Novecento: l’Età della catastrofe, che con la Prima guerra mondiale segna la fine del mondo borghese tradizionale e dei grandi imperi e vede poi esplodere il capitalismo industriale e la società di massa ma anche la vittoria imprevedibile della Rivoluzione d’Ottobre, sino allo scontro finale con il nazifascismo; l’Età dell’oro, e cioè quella del compromesso fordista-keynesiano, che ha segnato la crescita esponenziale delle società occidentali ma che ha anche visto il completamento del processo di decolonizzazione; infine l’età della Frana, quando assieme all’Urss crolla il nuovo Jus publicum europaeum fondato nel 1945 ma cominciano a cadere anche gli assetti sociali e politici che avevano assicurato il benessere occidentale, mentre la globalizzazione dà vita a nuovi imprevedibili scenari.
Quella del titolo è certamente un’intuizione fortunata ma forse errata, come metterà in evidenza anche Giovanni Arrighi in un’opera che a tratti fa ad Hobsbawm da controcanto, Il lungo XX secolo. Ad uno sguardo che si allarga rispetto alla prospettiva europea, infatti, il XX secolo comincia semmai con la guerra ispano-americana per il controllo di Cuba nel 1898, quando viene lanciato quel progetto di Secolo Americano che si affermerà dopo la Prima guerra mondiale e che ancora perdura, a dispetto di tutte le forme di resistenza all’egemonismo statunitense. Che significato può avere poi quella definizione e quella periodizzazione dal punto di vista dell’Estremo Oriente e di nazioni-continente come la Cina, che hanno avuto certamente ritmi ben diversi? Tuttavia, è indubbio che di questo secolo Hobsbawm ha saputo analizzare a fondo i punti cruciali e le tendenze complessive, a partire dal ruolo della Rivoluzione d’ottobre come momento propulsivo di un processo di emancipazione mondiale e persino come principale fattore di induzione di quella decisiva serie di riforme “preventive” che hanno posto il sistema capitalistico sostanzialmente al riparo da ogni reale pericolo rivoluzionario.
Anche rispetto a questo secolo che così profondamente ha segnato la sua esistenza, Hobsbawm cercherà però di mantenere il distacco e la lucidità dello storico attento ai fenomeni di più lunga durata, quando noterà, con qualche esagerazione, che prima di ogni altra cosa «il terzo quarto del secolo ha segnato la fine di sette o otto millenni di storia umana, iniziati all’età della pietra con l’invenzione dell’agricoltura, se non altro perché è venuta al termine la lunga era nella quale la stragrande maggioranza del genere umano è vissuta coltivando i campi e allevando gli animali». Ecco allora che «paragonato a questo cambiamento, il confronto tra “capitalismo” e “socialismo”, con o senza l’intervento di Stati e governi», agli studiosi futuri «sembrerà probabilmente assai meno interessante dal punto di vista storico: qualcosa di paragonabile, nel lungo periodo, alle guerre di religione del XVI e XVII secolo o alle crociate».
E’ un giudizio che sembra rimuovere il conflitto politico determinato e la sua storicità concreta. C’è da chiedersi quanto in esso sia dovuto ad uno sforzo estremo di obiettività e quanto, invece, alla rassegnazione di chi è consapevole che la propria parte ha perduto e non riesce ancora a vedere quali inusitate forme assumeranno i conflitti del futuro.
* Università di Urbino
tratto da http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-secolo-di-eric-hobsbawm/
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