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venerdì 30 novembre 2007

Se l'uomo non immagina si spegne: Convegno su Danilo Dolci



INCONTRIAMOCI A PIACENZA


Convegno Nazionale su Danilo Dolci


Sabato 1 Dicembre, alle ore 14.30

nella Cappella Ducale di Palazzo Farnese,

si terrà a Piacenza un incontro dal titolo:
“Se l’uomo non immagina si spegne. Danilo Dolci dieci anni dopo”,


incentrato sul ricordo della figura del grande sociologo.
Al convegno, coordinato dal direttore del quotidiano ‘Libertà’ Gaetano Rizzuto,

parteciperanno il magistrato Giancarlo Caselli,

i pedagogisti Daniele Novara e Paolo Ragusa,

il ricercatore Nanni Salio dell’Università di Torino.


La partecipazione al convegno è gratuita e aperta a tutti i cittadini.


È necessaria la preiscrizione.
La segreteria del convegno è attiva al numero di telefono e fax 0523499302

e all’indirizzo e-mail francesca.bucca@cppp.it


Per maggiori informazioni sul convegno,

è possibile consultare la pagina internet: http://www.cppp.it/eventi_org.asp

martedì 27 novembre 2007

LA SPERANZA NASCE QUANDO...

"In breve, la speranza nasce quando si prende posizione riguardo al futuro, quando si pensa che un avvenire sia ancora possibile per un individuo, per una società, per l'umanità intera: si tratta di vedere oggi per domani.
Scegliere di sperare significa decidersi per una responsabilità, per un impegno riguardo al destino comune, significa educare le nuove generazioni trasmettendo loro la capacità di ascoltare e di guardare l'altro: quando due esseri umani si ascoltano e si guardano con stupore e interesse, allora la speranza può nascere e crescere"
tratto da Enzo Bianchi, Aprire un varco alla speranza, Monastero di Bose, Bose, 2007, p. 8
per contatti: edizioni qiqajon, monastero di bose, 13887 Magnano (BI)
tel. 015679264 fax 015679290 http://www.qiqajon.it

lunedì 26 novembre 2007

UNA GRADITA SORPRESA

Pascolando per il sito della EMI, sono incappato nel seguente testo...della cui presenza il Direttore non mi aveva fatto cenno...E' stata una gradita sorpresa...e, anche di questo, lo ringrazio di cuore.
Giuliano


IL BLOG SORPRESA

Editoriale del 23/11/2007di Direzione EMI ed EMIVIDEO
* * *
Cari amici,
Ho una storia da raccontarvi. Alcuni anni fa ho conosciuto un insegnante di Albenga in provincia di Savona. Ci siamo conosciuti per motivi di vicinanza ambientale: sono nativo di quella zona della Liguria. Ci siamo subito sentiti in sintonia e abbiamo scambiato molte e-mail, lettere e telefonate. Il mio amico Giuliano Falco ha creato un blog di cui finora non ho parlato con nessuno. Devo riconoscere che non credevo che questo blog avesse lunga vita e soprattutto contenuti significativi. Apprezzo il mio amico ma so bene che fra impegni familiari e professionali a volte risulta difficile dare continuità ai progetti.Oggi mi ricredo e presento ai lettori di questo editoriale il blog
www.giulianofalco.blogspot.com.
L’EMI crede nel dialogo interculturale e interreligioso. Ne è prova EDUCARE AL PLURALISMO RELIGIOSO ma anche I VOLTI DEL DIO LIBERATORE nei suoi primi due volumi. Su questa linea è l’ultimo numero di AD GENTES dal titolo CRISTIANI E MUSULMANI NEL MONDO. Tralascio la citazione di altri titoli sullo stesso argomento.Dialogo interreligioso è anche integrazione che è agli antipodi della ghettizzazione. Non è assimilazione ma, è fare interagire le nostre identità… Integrazione non è un frullato ma una macedonia dove le diversità rimangono e si assaporano..Integrazione è costruire convivialità e scambio di valori. Integrazione non è partire dalle differenze ma dalle similitudini così aumenteremo la partecipazione. Integrazione è essere ciò che non siamo mai stati. E questo è importante oggi che viviamo in un tempo in cui soffriamo tutti di assenza di speranza, di abbassamento degli orizzonti di attesa…Proprio per questi motivi dobbiamo educare all’intercultura, alla sobrietà, al dialogo e al pluralismo religioso.

Due testi: Carlo Maria Martini e l'ateismo

Pubblico, di seguito due testi di grande interesse. Il primo è quello di Carlo Maria Martini
apparso su Il Corriere della Sera del 16 novembre u.s., dal titolo La tentazione dell'ateismo; il secondo, tratto da adista.it (del 26 novembre, n. 83), è sulla reazione del quotidiano Avvenire.
Buona lettura

Martini: la tentazione dell'ateismo
C'è una voce in ognuno di noi che ci spinge a dubitare di Dio. «Ecco il senso della fede e la difficoltà di seguirlo sino in fondo»
Chi è per me Dio? Fin da ragazzo mi è sempre piaciuta l'invocazione, che mi pare sia di San Francesco d'Assisi, «mio Dio è mio tutto». Mi piaceva perché con Dio intendevo in qualche modo una totalità, una realtà in cui tutto si riassume e tutto trova ragione di essere. Cercavo così di esprimere il mistero ineffabile, a cui nulla si sottrae. Ma vedevo anche Dio più concretamente come il padre di Gesù Cristo, quel Dio che si rende vicino a noi in Gesù nell'eucarestia. Dunque c'era una serie di immagini che in qualche maniera si accavallavano o si sostituivano l'una con l'altra: l'una più misteriosa, attinente a colui che è l'inconoscibile, l'altra più precisa e concreta, che passava per la figura di Gesù. Mi sono reso conto ben presto che parlare di Dio voleva dire affrontare una duplicità, come una contraddizione quasi insuperabile. Quella cioè di pensare a una Realtà sacra inaccessibile, a un Essere profondamente distante, di cui non si può dire il nome, di cui non si sa quasi nulla: e tutto ciò nella certezza che questo Essere è vicino a noi, ci ama, ci cerca, ci vuole, si rivolge a noi con amore compassionevole e perdonante. Tenere insieme queste due cose sembra un po' impossibile, come del resto tenere insieme la giustizia rigorosa e la misericordia infinita di Dio. Noi non scegliamo tra l'una e l'altra, viviamo in bilico (...). Come dice il catechismo della Chiesa cattolica, la dichiarazione «io credo in Dio» è la più importante, la fonte di tutte le altre verità sull'uomo, sul mondo e di tutta la vita di ogni credente in lui. D'altra parte il fatto stesso che si parli di «credere » e non di riconoscere semplicemente la sua esistenza, significa che si tratta concretamente di un atto che non è di semplice conoscenza deduttiva, ma che coinvolge tutto l'uomo in una dedizione personale. Su questo punto, come su tanti altri relativi alla conoscenza di Dio, c'è stata, c'è e ci sarà sempre grande discussione. Per alcuni la realtà di Dio si conosce mediante un semplice ragionamento, per altri sono necessarie anche molte disposizioni del cuore e della persona (...).
È dunque possibile conoscere Dio con le sole forze della ragione naturale? Il Concilio Vaticano I lo afferma, e anch'io l'ho sempre ritenuto in obbedienza al Concilio. Ma forse si tratta della ragione naturale concepita in astratto, prima del peccato. Concretamente la nostra natura umana storica, intrisa di deviazioni, ha bisogno di aiuti concreti, che le vengono dati in abbondanza dalla misericordia di Dio. Dunque non è tanto importante la distinzione tra la possibilità di conoscenza naturale e soprannaturale, perché noi conosciamo Dio con una conoscenza che viene e dalla natura, dalla grazia e dallo spirito Santo, che è riversata in noi da Dio stesso. Bisogna dunque accettare di dire a riguardo di Dio alcune cose che possono apparire contraddittorie. Dio è Colui che ci cerca e insieme Colui che si fa cercare. È colui che si rivela e insieme colui che si nasconde. È colui per il quale valgono le parole del salmo «il tuo volto, Signore, io cerco», e tante altre parole della Bibbia, come quelle della sposa del Cantico di Cantici: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l'amato del mio cuore; l'ho cercato, ma non l'ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze voglio cercare l'amato del mio cuore. L'ho cercato ma non l'ho trovato. Da poco avevo oltrepassato le guardie che fanno la ronda quando trovai l'amato del mio cuore...» (3,1-4). Ma per lui vale anche la parola che lo presenta come il pastore che cerca la pecora smarrita nel deserto, come la donna che spazza la casa per trovare la moneta perduta, come il padre che attende il figlio prodigo e che vorrebbe che tornasse presto. Quindi cerchiamo Dio e siamo cercati da lui. Ma è certamente lui che per primo ci ama, ci cerca, ci rilancia, ci perdona. A questo punto, sollecitati anche dalle parole del Cantico «ho cercato e non l'ho trovato», ci poniamo il problema dell'ateismo o meglio dell'ignoranza su Dio.
Nessuno di noi è lontano da tale esperienza: c'è in noi un ateo potenziale che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere. Su questo principio si fondava l'iniziativa della «Cattedra dei non credenti» che voleva di per sé «porre i non credenti in cattedra» e «ascoltare quanto essi hanno da dirci della loro non conoscenza di Dio». Quando si parla di «credere in Dio» come fa il catechismo della Chiesa cattolica, si ammette espressamente che c'è nella conoscenza di Dio un qualche atto di fiducia e di abbandono. Noi sappiamo bene che non si può costringere nessuno ad avere fiducia. Io posso donare la mia fiducia a un altro ma soltanto se questi mi sa infondere fiducia. E senza fiducia non si vive (...). L'adesione a Dio comporta un'atmosfera generale di fiducia nella giustezza e nella verità della vita, e quindi nella giustezza e nella verità del suo fondamento.



Come dice Hans Küng «che Dio esista, può essere ammesso, in definitiva, solo in base a una fiducia che affonda le sue radici nella realtà stessa». Molti e diversi sono i modi con cui ci si avvicina al mistero di Dio. La nostra tradizione occidentale ha cercato di comprendere Dio possibilmente anche con una definizione. Lo si è chiamato ad esempio Sommo Bene, Essere Sussistente, Essere Perfettissimo... Non troviamo nessuna di queste denominazioni nella tradizione ebraica. La Bibbia non conosce nomi astratti di Dio, mai ne enumera le opere. Si può affermare che ciò che la Bibbia dice su Dio viene detto anzitutto con dei verbi, non con dei sostantivi. Questi verbi riguardano le grandi opere con cui Dio ha visitato il suo popolo. Sono verbi come creare, promettere, scegliere, eleggere, comandare, guidare, nutrire ecc. Si riferiscono a ciò che Dio ha fatto per il suo popolo. C'è quindi un'esperienza concreta, quella di essere stati aiutati in circostanze difficili, dove l'opera umana sarebbe venuta meno. Questa esperienza cerca la sua ragione ultima e la trova in questo essere misterioso che chiamiamo Dio. D'altra parte ha qualche ragione anche la tradizione occidentale. Infatti tutte le creature hanno ricevuto da Dio tutto ciò che sono e che hanno. Dio solo è in se stesso la pienezza dell'essere e di ogni perfezione, e colui che è senza origine e senza fine. Tuttavia nel mistero cristiano la natura di Dio ci appare gradualmente come avvolta da una luce ancora più misteriosa. Non è una natura semplicemente capace di tenere salda se stessa, di essere indipendente, di non aver bisogno di nessuno. È una realtà che si protende verso l'altro, in cui è più forte la relazione e il dono di sé che non il possedere se stesso. Per questo Gesù sulla croce ci rivela in maniera decisiva l'essere di Dio come essere per altri: è l'essere di Colui che si dona e perdona.
Carlo Maria Martini 16 novembre 2007

"AVVENIRE" CONTRO MARTINI: LA SUA TEOLOGIA DISORIENTA I ‘SEMPLICI’
34166. ROMA-ADISTA.

Se in passato, nel riferire delle prese di posizione del card. Carlo Maria Martini, Avvenire ha optato per il silenzio censorio (ad esempio in occasione del Sinodo europeo dei vescovi del 1999, quando il card. Martini pose la questione della necessità di un confronto collegiale dei vescovi su alcuni temi nodali della Chiesa a quarant’anni dal Vaticano II, v. Adista n. 73/99) o per la sostanziale adulterazione dei contenuti (ad esempio in occasione del "Dialogo sulla vita" pubblicato dall’Espresso, v. Adista n. 33/06), questa volta il quotidiano della Cei ha scelto la via della critica esplicita e frontale.
Venerdì 16 novembre il Corriere della Sera pubblica come anticipazione uno stralcio dell’articolo scritto dall’ex arcivescovo di Milano per il bimestrale Kos, rivista del San Raffaele di Milano diretta da don Verzè, ed intitolato "C’è una voce in ognuno di noi che ci spinge a dubitare di Dio". Nel suo intervento Martini scrive che bisogna "accettare di dire a riguardo di Dio alcune cose che possono apparire contraddittorie. Dio è Colui che ci cerca e insieme Colui che si fa cercare. È colui che si rivela e insieme colui che si nasconde. È colui per il quale valgono le parole del salmo ‘il tuo volto, Signore, io cerco’, e tante altre parole della Bibbia, come quelle della sposa del Cantico di Cantici: ‘Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l'amato del mio cuore; l'ho cercato, ma non l'ho trovato’". Per questo motivo non può essere estranea all’esperienza della fede la condizione di "ateismo o meglio dell’ignoranza su Dio": "C'è in noi un ateo potenziale che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere". "Su questo principio - racconta il cardinale riferendosi all’esperienza da lui stesso promossa a Milano nel 1987 - si fondava l'iniziativa della ‘Cattedra dei non credenti’ che voleva di per sé ‘porre i non credenti in cattedra’ e ‘ascoltare quanto essi hanno da dirci della loro non conoscenza di Dio’". Ma Martini cita anche il teologo Hans Küng: "Che Dio esista, può essere ammesso, in definitiva, solo in base a una fiducia che affonda le sue radici nella realtà stessa", infatti – e qui torniamo alle parole del cardinale – "quando si parla di ‘credere in Dio’ come fa il catechismo della Chiesa cattolica, si ammette espressamente che c'è nella conoscenza di Dio un qualche atto di fiducia e di abbandono. Noi sappiamo bene che non si può costringere nessuno ad avere fiducia. Io posso donare la mia fiducia a un altro, ma soltanto se questi mi sa infondere fiducia. E senza fiducia non si vive". "L'adesione a Dio comporta un'atmosfera generale di fiducia nella giustezza e nella verità della vita, e quindi nella giustezza e nella verità del suo fondamento".
Il 20/11, pochi giorni dopo l’uscita dell’anticipazione sul Corriere, Avvenire (nella cui tabella di gerenza spicca il motto: "Per amare quelli che non credono") pubblica un articolo intitolato "Le tenebre di Dio e la beatitudine dei semplici", firmato dal direttore di Communio (rivista di area ciellina fondata nel 1972 da Joseph Ratzinger ed altri teologi, in contrapposizione alla rivista di teologia Concilium) Elio Guerriero: "Nella tradizione occidentale - scrive Guerriero - questo accostamento a Dio silente e sofferto ha dei precedenti nella teologia negativa o apofàtica. I suoi maggiori sostenitori sono stati Maestro Eckart e Angelo Silesio". "Il cardinal Martini, tuttavia, sembra andare un passo oltre in direzione di una crescente indistinzione tra fede e non fede". Nel pensiero dell’ex arcivescovo di Milano, Guerriero intravede infatti "un salto logico e un distacco dalla tradizione", perché la fede ricevuta in dono "diventa un impegno e una missione ai quali il credente non può rinunciare per se stesso ma anche per i lontani che, magari, saranno avvicinati a Dio dalla sua testimonianza e dalla sua sofferenza". Nel finale del suo articolo il direttore di Communio lancia un’implicita frecciata all’ex arcivescovo di Milano, quando, riferendosi al ruolo di guida dei pastori di fronte ai "semplici" scrive: "Gesù affidò i poveri di spirito, i miti e i puri di cuore delle beatitudini agli apostoli e ai vescovi, con il compito di proteggerli perché possano restare fedeli nella loro confessione preziosa per i credenti e i non credenti".

domenica 25 novembre 2007

Nuovo indirizzo di posta elettronica del Comitato Donne Mamme Musulmane della Liguria

Le amiche del Comitato informano
che il nuovo recapito di posta elettronica è:
Rimane invariato l'indirizzo del blog:

L'Islam italiano, una lettura del fenomeno a cura di Laura Tussi

Laura Tussi ha lasciato questo commento all'intervista a Davide Delbono del Centro Libromondo di Savona, pubblicata a giugno su questo blog. Mi sembra un testo interessante, per cui lo pubblico volentieri.
Ho solo un appunto da fare: il panorama del mondo islamico italiano è più articolato di quanto non sia quello presentato da Laura e sarebbe stato opportuno parlare un po' più diffusamente dell'UCOII-Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia che è sicuraente una delle organizzazioni musulmane più significative del nostro paese...se qualche lettore e amico aderente all'UCOII avesse voglia di rispondere farebbe cosa gradita.
Da segnalare invece il significativo confronto fra i modelli francese, inglese e italiano: assimilazionista il primo, ghettizzante il secondo...

L’ISLAM ITALIANO Notizie su una realtà molteplice e multiforme. La rappresentanza dell’Islam in Italia di LAURA TUSSI

L’Italia è un grande mondo al plurale. Dalle statistiche risulta anche la presenza dell’Islam Albanese quale identità religiosa annacquata e differente, per esempio, dalla realtà Egiziana, Algerina e Senegalese. Quando si tratta di Islam sovviene sempre alla mente il mondo Arabo, soprattutto dopo l’11 Settembre, in quanto come religione monoteista è inoltre la seconda in Italia. Nella quantità di immigrati a livello europeo, l’Islam rappresenta una cospicua percentuale di persone. In Italia si attesta un notevole ritardo nei confronti delle politiche migratorie, per la presenza esigua e molto differenziata di stranieri rispetto ad altri Paesi europei. Il modello di politica migratoria in Francia è di matrice assimilazionista, ossia lo straniero deve diventare uguale, omologarsi all’elemento autoctono e tralasciare la propria memoria, il proprio passato identitario, quando molti autori hanno trattato dell’importanza del ricordo, dello scambio di memoria, nell’ambito del confronto tra le diversità (Ricoeur). Il modello francese si differenzia da quello inglese che, al contrario, attribuisce un maggior potere alle comunità di immigrati, non favorendo in senso pieno l’integrazione, ma facilitando la formazione di realtà ghettizzate e rinchiuse in se stesse. In Italia una particolare novità è rappresentata dai matrimoni misti, ben 6000 coppie in Lombardia e dall’ingente presenza scolastica di stranieri nelle grandi città, con oltre il 40% degli studenti stranieri in una presenza plurale, variegata e articolata. Durante gli anni ’70 la prima Associazione di musulmani che gravitava intorno all’Università di Perugia fonda l’USMI, un’istituzione all’interno della quale gli stranieri cominciano a trovarsi e confrontarsi nell’ambito di un Paese Occidentale come l’Italia e si organizzano in progetti di tutela, di riconoscimento di diritti avanzati, in seguito, dalle istituzioni nazionali. Al seguito della spinta dell’USMI nascono diverse associazioni di immigrati: l’AMI (L’Associazione Musulmani) e il COREIS una realtà di convertiti all’Islam. La Moschea di Roma negli anni ’90 diventa un punto di riferimento per gli islamici e l’ambasciatore Scialoja rappresenta il mondo musulmano in Italia a livello ufficiale per tutte queste realtà islamiche presenti sul territorio nazionale, che transitano in dinamiche e processi di continua tensione rivolti ad accordi d’intesa con lo Stato Italiano, anche se ancora non si è giunti a comprensione e armonia, in procedure di accomodamento. L’opinionista Ferrari sostiene che senza l’11 Settembre 2001 il processo di intesa sarebbe conseguito da sé, spontaneamente.
Il centro islamico di viale Jenner a Milano non registra la presenza di convertiti e non ha rapporti con altre realtà, come la Casa della Cultura di via Padova, in cui, invece, sussiste una realtà a sé stante, senza contatti con le realtà milanesi di volontariato associazionistico islamico. In tutti questi centri il collante più che quello religioso (solo il 10%) è quello dell’opposizione politica, come in Algeria, i cui oppositori politici dovrebbero essere rifugiati all’estero, invece sono in Italia. Un’altra realtà è quella di via Quaranta che non nasce come Moschea, ma quale presenza di genitori che vogliono permettere ai propri figli di studiare secondo la tradizione musulmana, per poi tornare al paese d’origine; l’associazione è anche fornita di una sala di preghiera per il culto.Per esempio, considerando il caso dell’Istituto di via Agnesi, questo era inizialmente legato al centro di viale Jenner che presenta una realtà molto chiusa e non annovera al suo interno la presenza di convertiti.Il COREIS, un’associazione con un’ingente presenza di convertiti, di cui Pallavicini, che tratta anche con il Ministro Pisanu, è il presidente, risulta effettivamente ben poco rappresentativa dell’Islam immigrato. Le dinamiche di esclusione e partecipazione sono soggette ad una continua dicotomia su cui si gioca il rapporto con le comunità islamiche. L’intesa, il dialogo, il confronto pacifico, sono necessari per regolare una serie di discordie, divergenze, discrasie implicite nel dialogo con il volto dell’altro (Lévinas). Infatti in Italia si sono presentati vari problemi e particolari esigenze, anche molto contraddittori, per esempio, la questione della Moschea di Gallarate e il caso di Reggio Emilia, per cui sono stati prestati locali adibiti alla preghiera islamica ed è stato inserito il Venerdì islamico in una scuola.In Inghilterra vige l’idea per cui ogni comunità si deve autogestire, comportando una certa chiusura che invece è totale su un modello come il Libano. Vi sono state da parte delle comunità musulmane in Italia delle proposte di intesa con lo Stato Italiano. Lo scorso settembre 2004 sul Corriere della Sera è stato pubblicato un manifesto edito dai musulmani moderati in Italia, nel tentativo di esercitare un controllo sulle comunità islamiche tra i cui firmatari compariva l’associazione dei giovani musulmani, ossia un’emanazione dell’UCOII, che invece non ha firmato l’appello dei moderati: si assiste a nuove forme di emancipazione. Come anche l’associazione delle donne islamiche ha creato un gruppo e si sono costituite in uno statuto associazionistico per affrontare la questione di un’identità e con insite diversità (di genere ed etnia) nel confronto con i cittadini Italiani, in un continuo e assiduo dialogo con il diverso nel volto dell’altro. Dunque l’identità dell’Islam europeo risulta poliedrica, in quanto presenta innumerevoli modalità di relazione, multietniche sfaccettature di espressione, di convivenza. Il caso Agnesi ha rappresentato il tentativo di integrare delle ragazze musulmane in una scuola superiore di Milano e ha dimostrato che è importante difendere l’idea e il valore di scuola pubblica per tutti, anche con gradualità, senza settarismi. Il caso Agnesi, come sperimentazione interessante, esprime l’importanza del senso della Scuola come frontiera di dialogo, di confronto pacifico, di interscambio fra culture.

LAURA TUSSI

sabato 24 novembre 2007

Rom, romeni e due notizie: una buona e una cattiva

Quella buona la ricavo dal sito http://www.peacereport.net/ (e la trovate qui di seguito) quella cattiva la prendo dal quotidiano La Repubblica di oggi. Si tratta di una lettera che racconta un tragico episodio che non ho letto su Repubblica nè ascoltato in nessuno telegiornale. Sicuramente mi sono distratto...

Europa - 15.11.2007
Alunni di una scuola minore
Rom destinati a istituti per ritardati vincono causa contro la Repubblica Ceca
Vittoria. Gli attivisti umanitari di tutta Europa hanno cantato vittoria, ieri, quando il tribunale di massimo grado per la difesa dei diritti umani, la Corte europea di Strasburgo, ha condannato la Repubblica Ceca per aver praticato 'discriminazioni razziali' ai danni di numerosi bambini Rom. Un maratona legale che si trascina dagli anni '90, quella di 18 famiglie della regione della Moravia-Slesia, estremità orientale della Repubblica Ceca, i cui bambini furono inseriti in istituti scolastici per ritardati mentali. Una pratica comune, pare, in diversi Paesi dell'Europa dell'Est, e anche in tempi recenti, se una direttiva dell'Unione Europea del 2005 invitava i governi degli Stati membri "in cui i figli dei Rom vengono isolati in scuole per disabili mentali o sistemati in aule separate, ad avviare programmi di de-segregazione entro un periodo di tempo prestabilito, incoraggiando così il libero accesso all'istruzione di qualità per i figli dei Rom e prevenendo sentimenti ostili ai Rom tra i ragazzi che frequentano le scuole".

Razzismo. La denuncia è arrivata alla Corte di Straburgo da un rapporto della Commissione contro il Razziso e l'Intolleranza, le cui conclusioni parlavano di una stragrande maggioranza di bambini Rom nelle scuole speciali per i ritardati mentali. Attivisti di gruppi umanitari hanno poi rilevato come nella regione della Moravia Slesia, e specie nella provincia di Ostrava, più della metà dei bambini Rom venivano segregati in 'istituti speciali' e veniva negato loro l'accesso al sistema scolastico nazionale. Un bambino Rom che viveva in quelle zone aveva una probabilità 27 volte maggiore rispetto a un altro bambino di finire in tali istituti. Tre anni fa il governo della Repubblica ceca ha chiuso le scuole speciali. Ciononostante, le chance di accesso all'istruzione pubblica sono molto limitate per i bambini delle comunità Rom ceche. La Corte di Strasburgo ha comminato una multa al governo ceco di 4 mila euro per ogni bambino (per 'danni simbolici'), e al pagamento delle spese processuali di circa 10 mila euro.

Benvenuti in Europa. Proprio oggi, Amnesty International ha pubblicato un rapporto sulla segregazione in Slovacchia, dove i bambini Rom vengono inseriti in scuole solo per loro o in istituti per ritardati o disabili, nonostante non abbiano alcuna deficienza intellettuale o carenza nell'apprendimento scolastico. In alcuni villaggi, si assiste a scene che ricordano il profondo sud americano degli anni '60 o il Sudafrica degli anni '80: esistono scuole dove al piano di sotto ci sono i 'bianchi' e a quello di sopra i 'neri'. Le classi non si mischiano mai. Ai genitori e agli autobus che riportano a casa i bambini vengono date istruzioni di presentarsi a orari diversi, per consolidare la separazione razziale. In alcune zone della Slovacchia orientale, il 100 percento delle scuole sono segregate. I Rom ricevono un'istruzione di secondo livello, e hanno poche possibilità di progredire dopo la scuola obbligatoria. Nel 2006, solo il 3 per cento dei bambini Rom ha raggiunto la scuola superiore. In un Paese dell'Europa moderna, disegnata dai politici come il continente dei popoli e dell'integrazione, accade anche questo. Che l'apartheid sia giusto dietro l'angolo.
Luca Galassi
scrivi all'autore

La seconda notizia è la seguente:

Se l'ubriaco è italiano e le vittime romene (lettera di Anna Maffei, Roma):

Il 20 novembre nel quartiere di Tor Bella Monaca a Roma mentre stavano attraversando la strada alcune persone, un' auto investiva in pieno sulle strisce pedonali Marinela Martiniuc, romena, 28 anni, con il suo piccolo Elias di 4 mesi, che era in carrozzina e sua nipote Adina Burlaci di 12 anni. L'auto era guidata da un cittadino italiano in evidente stato di ebbrezza, pregiudicato appena uscito di prigione. Il bambino è stato sbalzato per circa 20 metri ed è stato imediatamente ricoverfato in condizioni critiche presso il ploiclinico. La giovane madre ha avuto una perdita totale di memoria per più di 24 ore. La nipotina Adina ha subito lesioni multiple.
Notizie simili in cui però i ruoli figurano invertiti sono state riportate coin grande enfasi mediatica nelle ultime settimane e mesi. L'Unione Cristiana Evangelica Battista d'Italia che è venuta a conoscenza di questa notizia tramite il pastore Emanuel Besleaga, fratello della giovane vittima, invita tutti ad una profonda riflessione sul clima di insicurezza e di crescente xenofobia.

Ci sarebbe poco da aggiungere a questo drammatico testo. Però, mi viene voglia di scrivere a quei giornali che quando il crimine è commesso da uno straniero, invocano provvedimenti razzisti, fascisti e xenofobi; quando sono gli italiani a commetterli, tacciono. Dove sono, ora, tutti quei sofferti paladini della legge, della sicurezza e dell'ordine? Erano distratti? Stavano facendo qualcos'altro?

venerdì 23 novembre 2007

UNA CASA EDITRICE PARTICOLARE: LA EMI DI BOLOGNA




La EMI (Editrice Missionaria Italiana) è nata nel 1973, con sede a Bologna, come espressione editoriale della Coop. SERMIS (Servizio Missionario), fondata di 15 ISTITUTI ESCLUSIVAMENTE MISSIONARI presenti in Italia.

Le finalità editoriali sono:
– mantenere vivo in tutti lo spirito missionario;
– favorire la cooperazione e la comunione ecclesiale fra la Chiesa presente in Italia e le giovani Chiese d'Africa, Asia, America e Oceania;
– attivare un processo interculturale, interreligioso ed ecumenico; – incentivare la solidarietà e la convivialità tra i popoli;
– educare alla pace, alla non violenza, alla giustizia e alla salvaguardia dell’ambiente;
– promuovere nuovi stili di vita e una più responsabile cittadinanza attiva.

Fino ad oggi l'EMI ha prodotto più di 2000 titoli su temi di grande interesse missionario e di incontro tra i popoli, dando voce alle giovani Chiese, ai popoli e alle culture più emarginate. Così pure pubblica saggi e sussidi di impegno sociale e di cittadinanza attiva. Con l’EMIvideo sono stati distribuiti circa 200 documentari privilegiando temi quali l’interculturalità, i diritti umani, le religioni e il patrimonio ambientale.

Tra le realtà religiose che ordinariamente collaborano con la EMI citiamo: UFFICIO NAZIONALE PER LA COOPERAZIONE MISSIONARIA TRA LE CHIESE, CENTRO UNITARIO MISSIONARIO, CENTRI MISSIONARI DIOCESANI, SEGRETARIATO UNITARIO PER L’ANIMAZIONE MISSIONARIA, FESMI, PAX CHRI-STI, CARITAS ITALIANA…

Tra le associazioni laiche socialmente impegnate che ordinariamente collaborano con la EMI citiamo: FOCSIV, MANI TESE, CIPSI, ASVI, ACLI, UNIMONDO, SBILANCIAMOCI, BANCA POPOLARE ETICA, EMMAUS, MOVIMONDO, FONDAZIONE CULTURALE RESPONSABILITA’ ETICA, CENTRO NUOVO MODELLO DI SVILUPPO, CTM, BOTTEGHE DEL MONDO, RETE LILLIPUT, CONSORZIO ETIMOS, MOVIMENTO SVILUPPO E PACE, MEDICI SENZA FRONTIERE, AIFO, ASSOCIAZIONE CEM MONDIALITA’, CRES, VIS, VIDES, WWF ITALIA

L'EMI è da sempre interessata a partecipare a mostre, incontri e convegni, soprattutto appoggiando iniziative di comunità, organismi di volontariato, di cooperazione e di educazione interculturale...
SCRIVICI…SERMIS (Servizio Missionario) s.c.r.l.

Via di Corticella 179/4 - 40128 Bologna (Italy)Tel. 051/ 32.60.27 - Fax 051/ 32.75.52C.F. e P.IVA n. 01164630376C.C.P. n. 11657400 intestato a Coop. SERMIS - Bologna (Italy)
Direzione: sermis@emi.it [ ... per curriculum... ]
Ufficio Stampa: stampa@emi.it
Servizio Ordini: ordini@emi.it
Webmaster: webmaster@emi.it

Attraverso la EMI tutta la produzione della Cooperativa Sermis viene diffusa attraverso gli Istituti Missionari, le migliori librerie, i gruppi aperti alla missione, le Ong, le associazioni di volontariato impegnate nel Sud del mondo, attraverso il Servizio Ordini Online del nostro sito ::: http://www.emi.it/

a cura di Direzione EMI ed EMIVIDEO

DA NON PERDERE...

AA.VV. ACQUA BELL`ACQUA 10 storie sul bene piu` prezioso

ACQUA BELL’ACQUA è un libro accompagnato da un Cd i cui testi, illustrazioni e voci sono stati offerti da altrettanti artisti in appoggio alla campagna sull’acqua portata avanti da ACRA.

I testi letterari sono stati scritti da: Pietro Formentini, Laura Fusca, Giancarlo Migliorati, Emanuela Nava, Roberto Piumini, Giusy Quarenghi, Guido Quarzo, Silvia Roncaglia, Bruno Tognolini, Virginia Zamparelli.

I disegni sono di: Emanuela Bussolati, Giusy Capizzi, Cristiana Cerretti, Sophie Fatus, Cristiano Lissoni, Giovanni Manna, Lilia Marcucci, Giulia Orecchia, Andrea Valente, Antonio Vincenti.
Le voci narranti sono di Enrique Balbontin, Anna Bonel, Lella Costa, Laura Curino, Bano Ferrari, Pietro Formentini, Marina Massironi, Giovanni Storti, Dario Vergassola.

ISBN 978-88-307- 1717-6 – pp. 64 – Anno 2007 – € 4,50

mercoledì 21 novembre 2007

Le donne musulmane: "Siamo state troppo zitte o siamo state zittite, adesso parliamo!"

Dal sito www.islam-online.it, traggo questo articolo di Amina Salina.

C'è un grosso equivoco di fondo quando si parla di multiculturalismo. Quando si affrontano problemi scottanti, come quello della violenza sulle donne, o altri come la questione del hijab, gli stereotipi si palesano davanti ai nostri occhi di musulmani europei abbastanza navigati per capire dove vuole andare a parare l'interlucutore istituzionale o meno.
Mentre la destra cavalca vecchi stereotipi da "cultura superiore" alla quale le culture "altre” dovrebbero inchinarsi con deferenza, come se il colonialismo non fosse stato abbastanza cruento e genocidi, la sinistra rispolvera vecchi arnesi da femminismo salottiero - come la pretesa distruzione dei ruoli all'interno della famiglia -un vecchio cavallo di battaglia del femminismo più deteriore che fa a pezzi decenni di separatismo per mettere d'accordo, nella laude al "monoteismo di mercato", la donna-manager mascolinizzata o perennemente glamour col senso comune.
Si dimentica che il peso del lavoro domestico e di quello fuori casa è aumentato con l'inserimento delle donne ai più bassi livelli ed ai più bassi salari nel mondo produttivo.Si dimentica che esso ha comunque favorito le donne ricche piuttosto che le povere in un paese in cui la mobilità sociale è zero e che molte donne operaie se potessero se ne ritornerebbero a casa. Si dimentica che il basso salario del capofamiglia e non la voglie di carriera delle donne hanno strappato le donne dal focolare, sconvolgendo sovente le famiglie e creando il presupposto per cali di natalità divorzi e separazioni. E che la pace familiare è oggi un ricordo essendo la famiglia ridotta spesso ad un albergo dove ognuno rientra quando gli pare, dove i componenti di ignorano a vicenda e dove la donna è sempre la serva di tutti, mentre nella famiglia islamica non è affatto così. Si dimentica che la violenza sulle donne è una costante del mondo moderno e che solo in Italia il trenta per cento delle donne italiane ne è stato vittima nel corso della vita. Quello stesso mondo moderno che genera violenza ingiustizia e guerra ritenuto l'unico possibile ed auspicabile dopo la vittoria del monoteismo del denaro sul comunismo.
Se un altro mondo è possibile che sia almeno diverso da questo altrimenti la violenza non ce la toglieremo mai di dosso. Se un altro mondo è possibile consideri l'anima e non solo il corpo, il cervello e non solo il denaro, valuti l'uomo e la donna per il coraggio l'onore e la fede e non per efficacia ed efficienza.
Gli stessi musulmani non si accorgono di essere proprietari di un tesoro. Mi ha detto un giorno Mohammed Nour Dachan che in una famiglia musulmana praticante la violenza non entra nemmeno per scherzo e che il massimo grado possibile può essere uno schiaffo. Se pensate che il Profeta Mohammed* riteneva una grave mancanza di educazione anche l'alzare la voce davanti ai propri familiari capirete che ovunque c'è Dio non può esistere violenza nè' sopraffazione.
Questo tesoro che è la famiglia islamica non esce allo scoperto ma sui media esce un ritratto dei musulmani assolutamente caricaturale e non corrispondente alla realtà: immagini di padri-padroni- magari col fiasco di vino in mano- contrabbandati per musulmani, gente con precedenti penali gravi i cui guai vengono imputati alla religione e non alla loro cattiva condotta. Donne ignare della religione intervistate come esperte solo perchè si chiamano Fatima e sono nate a Khouribga , altre che di islamico hanno veramente poco che chiedono la rappresentanza di una comunità di credenti mentre confondono l'islam con la tradizione. L'immagine della donna islamica è di una donna muta che rifiuta l'occidente, di bassa estrazione sociale, povera oppressa e che chiede aiuto alla Chiesa. Se ci sono donne musulmane velate che parlano e rivendicano diritti esse devono essere ridotte al silenzio per dare spazio alle non praticanti ed alle non credenti. Per fortuna ultimamente questa strategia ha mostrato la corda e finalmente è stato riconosciuto il ruolo dell'UCOII e delle moschee anche a livello istituzionale come unici rappresentanti nazionali dei musulmani in Italia. Siamo state troppo zitte o siamo state zittite, adesso parliamo.
Tornando al multiculturalismo è necessario superare l'approccio che vede le culture contrapposte tra loro, fisse ed immutabili. Nei nostri rapporti con gli attori sociali, enti locali, governo, associazioni femministe, associazioni di immigrati, sindacati e partiti noi possiamo portare valori come la stabilità delle nostre famiglie, il nostro spirito di sacrificio, la nostra responsabilità verso gli altri,il nostro riconoscimento del merito, la nostra disciplina.Questi valori mancano in Italia per una serie di ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare qui. Questi valori uniti alla nostra spiritualità e al rispetto per le altre fedi e gli altri modi di vita- secondo il principio coranico per cui "non c'è costrizione in materia di fede"possono e devono arricchire la cultura occidentale migliorare la società in cui viviamo.
L'Islam, senza nessuno spirito di egemonia e rivalsa verso nessuno, può essere una via per gli spiriti inquieti d'occidente. I musulmani possono e devono essere amici delle persone di buona volontà nella lotta contro guerra fame, violenza e ingiustizia. È necessario che sia la cultura tradizionale islamica sia la cultura occidentale- laica o cristiana -entrino in contatto e si fecondino reciprocamente.
Nessuna cultura è ferma in un mondo in trasformazione continua. Allah (gloria a Lui l’Altissimo) crea continuamente le nostre condizioni di esistenza, sta creando un mondo nuovo e noi non dobbiamo temere di perdere noi stessi facendone parte. L'Islam come fede primigena ed universale si adatta a qualsiasi tempo luogo e condizione.Costruire l'Islam in Europa significa salvaguardare la Sunna cambiando alcune forme in cui questa viene trasmessa per adattarsi ad un diverso contesto.
Lo stesso concetto di italianità è un qualcosa di multiforme e mutevole e forse l'unica cosa in cui ci riconosciamo tutti è la Costituzione, peccato che i diritti sociali siano ormai ridotti a carta straccia. Costruire una cultura condivisa contro la barbarie significa costruire anche le condizioni per la dawa in Italia ed in Europa sconfiggendo la destra ed i neocoon ma anche quella parte della sinistra che ormai è preda del monoteismo del mercato e non vede altro al di fuori del presente.

martedì 20 novembre 2007

Paralleli

Non so quanti l'abbiano notato, ma qualche decennio fa c'era qualcuno che vantava otto milioni di baionette. Ed è finita male.
Ora c'è qualcun altro che, più modestamente, sfoggia (si fa per dire) oltre 7.000.000 di firme (tra l'altro raccolte in un week end).
Aveva ragione Hegel quando affermava che la storia non si ripete perchè la prima volta è una tragedia, la seconda è una farsa...
Giuliano

lunedì 19 novembre 2007

democrazia deliberativa e gestione creativa dei conflitti

ricevo e pubblico:


Cara lettrice, caro lettore,

ti scrivo per invitarti all’incontro della redazione di école con Marianella Sclavi che si svolgerà domenica 25 novembre 2007 dalle 10.30 alle 12.30 a Milano nella sede della Cub, in viale Lombardia 20
(Linea 2 della metropolitana, direzione Cologno - Gessate, fermata Piola).

Marianella Sclavi ci parlerà di democrazia deliberativa e gestione creativa dei conflitti.

Spero di vederti.

Celeste Grossi

Marianella Sclavi è docente di Etnografia Urbana al Politecnico di Milano ed esperta di Arte di ascoltare e Gestione creativa dei conflitti.

Le sette regole dell'arte di ascoltare di Marianella Sclavi

1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca.

2. Quel che vedi dipende dalla prospettiva in cui ti trovi. Per riuscire a vedere la tua prospettiva, devi cambiare prospettiva.

3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a capire come e perché.

4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.

5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti perché incongruenti con le proprie certezze.

6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.

7. Per divenire esperto nell'arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l'umorismo viene da sé.


école redazione, via Magenta 13, 22100 Como, 031.4491529, coecole@tin.it, www.ecolenet.it; Celeste Grossi, 339.1377430;

Associazione Idee per l’educazione, amministrazione, attivazione abbonamenti, via Anzani 9, 22100 Como, infoecole@tin.it, tel. 031.268425;

Per informazioni: Filippo Trasatti, 333.9036630, Gianpaolo Rosso, 347.3674825.


Si prega di inoltrare

venerdì 16 novembre 2007

IDENTITA' CRISTIANA E DIALOGO: spunti per una formazione all'incontro interreligioso

Ricevo dall'amico Brunetto Salvarani, ringraziandolo, questo testo che pubblico volentieri.
Giuliano

C’è un ruolo molto importante che l’educazione può svolgere, in rapporto all’ambiente nel quale siamo immersi: quello di aiutarci ad interagire in modo positivo con esso, a favorire la crescita di una relazione armonica, di un arricchimento reciproco. Considerazioni che valgono in generale, senza dubbio, ma che credo assai rilevanti soprattutto per quell’angolatura particolare rappresentata dall’ambiente religioso, segnato negli ultimi due decenni da profondi mutamenti anche in paesi quali l’Italia (tradizionalmente connotata al riguardo da immobilismo, stanchezza, sfilacciamento). Diversamente rispetto ad un passato recente, oggi, infatti, persino una rapida istantanea sulle religioni le fotografa innanzitutto come un processo in divenire: “è possibile scegliere di essere atei, seguire un’ortodossia religiosa, cambiare confessione, ritagliarsi un proprio percorso all’interno delle religioni” (P.Berger). Tutto ci appare più frastagliato, meno certo rispetto a ieri, e i credenti, in genere, si sentono più liberi, pur se meno sicuri della loro direzione spirituale. Le grandi istituzioni religiose appaiono più vulnerabili, e l’assolutezza del messaggio religioso viene di regola messa in discussione della pluralità delle scelte possibili che ci troviamo davanti. Il mosaico della fede si va complicando giorno dopo giorno, creando perplessità, dubbi e solo talvolta anche speranze. A questi rapidissimi mutamenti nell’ambiente religioso, secondo le indicazioni di Franco Sottocornola, missionario in Giappone, “occorre reagire con un processo di adattamento ad essi, che a sua volta richiede un approccio nuovo nei campi dell’educazione e della formazione, in modo tale che gli esseri umani possano affrontare questo nuovo cambiamento in modo positivo e fecondo” [1]. Fino a poco tempo fa la maggioranza delle persone, nel nostro Paese ma anche altrove, vivevano all’interno di gruppi religiosi ristretti e circoscritti nei loro contorni sociali, con una consapevolezza piuttosto marcata – poiché sostanzialmente indisturbata – della propria identità e della differenza che li separava da persone appartenenti a tradizioni religiose altre. Buddhisti, hinduisti, sikh, ad esempio, ma pure musulmani, abitavano in nazioni lontane frequentate solo da pochi turisti e studiosi occidentali, ed erano percepiti come testimoni di percorsi spirituali curiosi, esotici, talvolta appena folkloristici. L’attuale prossimità forzata, peraltro, non è stata accompagnata da una formazione specifica, un’informazione corretta, una riflessione adeguata; mentre l’emozione collettiva suscitata da eventi quali quelli dell’11 settembre 2001 ha contribuito a diffondere paure, sospetti, diffidenze. Ed una percezione quanto mai negativa del pluralismo religioso, colto come un cuneo insensato improvvisamente infisso nel tranquillo scenario delle precedenti indifferenza, apatia, secolarizzazione, mascherate da un cattolicesimo di facciata e dal retroterra sotteso del crociano “non possiamo non dirci cristiani”.
Sullo sfondo di tale panorama in progress, vorrei cercare di soffermarmi sui criteri fondamentali in vista di un corretto dialogo interreligioso. Sintetizzando, credo possano ridursi appena ad un paio, a partire dai quali sarà più agevole – mi auguro – effettuare un sano discernimento rispetto a quanto sta accadendo.
In primo luogo, ritengo sia necessario prendere le mosse il più possibile da una seria consapevolezza della propria identità religiosa. Del proprio specifico. A lungo, persino in ambiti sensibili al dialogo ecumenico/interreligioso, si è ritenuto che esso sarebbe stato favorito dalla rinuncia (quanto meno tattica e momentanea) alla propria peculiare identità da parte delle religioni coinvolte. L'incontro si sarebbe svolto più agevolmente, in tale ottica, a partire dalla scelta del cristiano che, posto di fronte ad un musulmano, ad esempio, avesse optato per trascurare, o almeno porre fra parentesi, le verità più scomode agli occhi dell'interlocutore. Ritengo occorra, ora, capovolgere una simile prospettiva. Nessun dialogo autentico potrà avvenire sulla base di una rinuncia alla propria identità (che non è un idolo né un moloch, ma un cammino di ricerca e un processo in perenne divenire), un generico volemose bene, o un indifferentismo che banalizzi a basso prezzo le differenze. Che ci sono, resteranno, e non vanno minimizzate: semmai, opportunamente contestualizzate, e mai drammatizzate. Un dialogo serio, d’altra parte, implica interlocutori consci e innamorati della loro identità! “Avere convincimenti fermi – scrive il teologo peruviano Gustavo Gutierrez - non è di ostacolo al dialogo, né è piuttosto la condizione necessaria. Accogliere, non per merito proprio ma per grazia di Dio, la verità di Gesù Cristo nelle proprie vite è qualcosa che non solo non invalida il nostro modo di fare nei riguardi di persone che hanno assunto prospettive
diverse dalla nostra, ma conferisce al nostro atteggiamento il suo genuino significato”
[2]. Ricorrendo ad un paradosso solo apparente, penso davvero che la capacità di ascoltare gli altri risulti tanto maggiore quanto più fermo è il nostro convincimento e più trasparente la nostra identità di fede.
Un secondo criterio per un dialogo interreligioso fruttuoso è di maturare un atteggiamento positivo verso le altre religioni. Questo è il filo rosso del Concilio Vaticano II, in particolare nella dichiarazione Nostra Aetate, ma anche nelle tappe successive: dalla scelta di una pedagogia dei gesti da parte di Giovanni Paolo II (dall’abbraccio a rav Toaff al tempio maggiore a Roma alla Giornata mondiale di preghiera delle religioni per la pace ad Assisi, dal suo avvicinarsi compunto al muro occidentale a Gerusalemme al suo passeggiare scalzo nella moschea di Damasco) alla proclamazione congiunta da parte delle chiese cristiane europee della Charta Oecumenica a Strasburgo (2001). Mentre persino la bufera scatenatasi dopo il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona del 12 settembre scorso, a gioco lungo, potrebbe trasformarsi (paradossalmente) in un input positivo sul dialogo cristianoislamico. Ciò, si badi, correggendo molto di quello che era stato l’atteggiamento generale e reciproco del passato, contrassegnato - ad esempio - da guerre religiose, crociate, antigiudaismo… “L’educazione e la formazione al dialogo interreligioso, o a una vita di amicizia e di simpatia con persone di altre religioni - scrive ancora Sottocornola - deve anzitutto cercare di creare questo atteggiamento generale col quale noi sottolineiamo quello che è positivo, buono, bello nell’altra religione piuttosto che i suoi aspetti negativi, e poniamo l’accento su tutto quello che unisce o favorisce la collaborazione e l’amicizia, piuttosto che su ciò che divide”
[3].
Si tratta, in vista di tale acquisizione, evidentemente, di avviare un cammino che potrà rivelarsi anche lungo, complesso e accidentato, Ratisbona docet: è inutile farsi troppe illusioni (ma anche fasciarsi la testa prima di averci provato seriamente, beninteso!). Ecco dunque alcune indicazioni di metodo che favorirebbero questo incontro e lo renderebbero meno teso e drammatizzato. Prima di tutto, il dialogo interreligioso dovrà maturare nel quadro di un riconoscimento che chi dialoga non sono le religioni (entità astratte) bensì delle donne e degli uomini in carne ed ossa, con storie, vissuti, sofferenze, speranze, peculiari e irripetibili. Non appaia una considerazione banale, o scontata: quanti errori sono stati compiuti, e continuano a farsi, a causa di una lettura tutta ideologica e metafisica dell’altro [4]! Gli esempi si sprecherebbero. In primis, creare e favorire occasioni di incontro, dunque, in ambienti che favoriscano il contatto effettivo. Occorrerà poi una buona conoscenza reciproca degli interlocutori coinvolti: conoscenza intellettuale, dei testi e dei documenti ufficiali delle chiese e delle religioni (imparare le religioni), certo, ma anche umana, a partire da un atteggiamento sincero di ascolto delle narrazioni altrui (imparare dalle religioni). Lavorare assieme in qualche settore specifico, ad esempio, affrontando problemi sociali o discriminazioni ingiuste, potrebbe rendere più denso e convincente un rapporto interreligioso (sullo sfondo del progetto per un’etica globale fortemente propugnato da Hans Küng[5]). Valorizzare esperienze e testimonianze vissute in un dialogo fecondo, quindi, soprattutto agli occhi dei più giovani – bisognosi di modelli e refrattari alle eccessive teorizzazioni – aiuterà senz’altro il percorso: con l’incontro diretto, quando sia possibile, la visita ai diversi luoghi delle comunità, o almeno il ricorso ai canali audiovisivi (Internet, ad esempio, è uno degli ambiti in cui la dimensione interreligiosa è maggiormente visibile). In caso di interlocutori già maturi, un momento rilevante di formazione alla pratica del dialogo può essere, quindi, l’esperienza o la preparazione ad una condivisione nella preghiera, cioè l’espressione esterna della propria fede personale alla presenza di altri provenienti da differenti contesti religiosi, o insieme ad essi.
Un’ultima considerazione riguarda la necessità di investire maggiormente nella preparazione e formazione di giovani (sacerdoti ma anche laici) che si accingano a svolgere un ruolo di guida e di stimolatori sul tema del dialogo nelle diverse comunità. La generazione che ha vissuto in pieno il Concilio sta infatti per concludere la sua vicenda terrena, e il rischio di non passare il testimone a quelle di oggi appare palpabile. Ecco allora l’importanza di ricentrare i curricula degli studi teologici facendo attenzione al dialogo interreligioso e alla conoscenza delle religioni altre, ma anche la pastorale delle parrocchie, i programmi dei movimenti, e così via. L’obiettivo è quello di uscire dal falso presupposto secondo cui il dialogo interreligioso sarebbe un’attività riservata agli specialisti, e assumere come caso serio l’invito dell’enciclica di Giovanni Paolo II “Redemptoris Missio”, per cui “tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo interreligioso, anche se non nello stesso grado e forma” (n.57)
[6]. Il che significa, da una parte, che la formazione al dialogo dovrà diventare azione normale della formazione cristiana in quanto tale; e dall’altra, che l’investimento nella preparazione di esperti nel ramo avrà bisogno di una specifica attenzione, in una chiesa finalmente capace di dialogo. Anche perché oggi non possiamo più negare che “senza dialogo, le religioni si aggrovigliano in se stesse oppure dormono agli ormeggi… o si aprono l’una all’altra, o degenerano”[7]. E che, come ripete spesso Edgar Morin, “chi non si rigenera degenera”.

Brunetto Salvarani

[1] F. SOTTOCORNOLA, “Alcune osservazioni sulla formazione al dialogo interreligioso”, in Concilium n.4 (2002), p.140.

[2] G. GUTIERREZ, “Un nuovo tempo della teologia della liberazione”, in Il Regno – Attualità n.10 (1997), pp.298-315.

[3] F. SOTTOCORNOLA, ivi, p.144.

[4] Potrà aiutarci a decostruire il mito pericoloso dell’identità unica, in questa direzione, la lettura del recente testo del premio Nobel per l’economia Amartya Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006.

[5] Cfr. H. KÜNG, Per un’etica mondiale, Rizzoli, Milano 1995.

[6] EV 12, EDB, Bologna 1992, 559.

[7] R. PANIKKAR, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, Jaca Book, Milano 2001, p.25.

nota bio bliografica:

Brunetto Salvarani, teologo ed educatore, da molto tempo si occupa di dialogo ecumenico e interreligioso, avendo fondato nel 1985 la rivista distudi ebraico-cristiani "Qol"; ha diretto dal 1987 al 1995 il Centro studi religiosi della Fondazione San Carlo di Modena; saggista, scrittore e giornalista, collabora con varie testate, dirige "Cem-Mondialità" (la rivista dei missionari saveriani di Brescia), fa parte del Comitato "Bibbia cultura scuola", che si propone di favorire la presenza del testo sacro alla tradizione ebraico-cristiana nel curriculum delle nostre istituzioni scolastiche; è direttore della "Fondazione ex campo Fossoli", vicepresidente dell'Associazione italiana degli "Amici di Neve' Shalom - Waahat as-Salaam", il "villaggio della pace" fondato in Israele da padre Bruno Hussar; è tra ipromotori dell'appello per la giornata del dialogo cristiano-islamico. Ha pubblicato vari libri presso gli editori Morcelliana, Emi, Tempi di Fraternita', Marietti, Paoline

giovedì 15 novembre 2007

APPELLO URGENTE: PER MAURO ROSTAGNO

RICEVO DA LISTE DIVERSE IL SEGUENTE APPELLO:

Cari amici, vi ricorderete il caso di Mauro Rostagno, esponente del movimento studentesco e poi giornalista e leader di una comunità in Sicilia, che aveva ricevuto minacce dalla mafia, dopo le sue molte denunce contro di essa, e che è stato assassinato quasi due decenni fa?

Ebbene, quando si compiranno vent'anni, cioè fra 5 giorni, il caso sarà definitivamente archiviato, a meno che l'appello http://www.PetitionOnline.com/permauro/ non riceva un adeguato numero di firme.

Come insegna il trattamento iniquo che ha avuto il giudice De Magistris, non bisogna mai perdere di vista il problema mafia.

Vi invito perciò non solo a firmare, ma a diffondere questo messaggio...

per informazioni:

http://www.ciaomauro.it/

info@ciaomauro.it


martedì 13 novembre 2007

COS' E' LA FILOSOFIA?

Ho chiesto a diversi amici e persone con cui sono in contatto di intervenire, nei loro campi di interesse, con testi e proposte da pubblicare su questo blog.
Il materiale pubblicato verrà così strutturato per sezioni.
Mi piace iniziare questa nuova fase con uno scritto di Ernesto Riva, curatore del sito già citato in uno dei precedenti post, http://www.filosofiaedintorni.net/.
In appendice a ogni testo, seguirà una breve nota bio bibliografica.

Oggi vi parlerò di "filosofia", un termine ed una materia che possono incutere forse rispetto ma anche un po' di paura o sospetto o diffidenza per chi non l'ha mai affrontata prima, e dunque da tenere a debita distanza. Perché una simile reazione? Perché ognuno di noi ha paura di ciò che non conosce e quindi sta all'erta ed è pronto a difendere le cose che ritiene più importanti, per la sua vita e per la vita degli altri. Una delle principali caratteristiche della filosofia è quella per cui essa cerca di far superare all'uomo le sue paure e di condurlo per una strada che lo porti alla libertà, in modo che possa giungere alla meta più ambita della filosofia stessa: la verità. Possiamo quindi definire la filosofia, già da subito, come la ricerca disinteressata della verità. Sottolineerei l'aggettivo "disinteressata". Non esiste nessun'altra attività o forma di sapere che sia altrettanto "disinteressata" come la filosofia, giacché essa non ha alcun altro scopo se non la conoscenza per "amore della conoscenza stessa". Non per nulla, la parola "filosofia" - come probabilmente saprete vuol dire in greco "amore per il sapere". Il filosofo è dunque colui che ama e desidera conoscere la verità per amore della verità stessa, nel senso più alto e disinteressato del termine. A lui non interessa la verità per strumentalizzarla ad un fine qualunque (denaro, potere, felicità, immortalità ecc.) bensì per la sola ed esclusiva esigenza di verità e sete di conoscenza. Con ciò intendo ribadire che essa non è tanto la ricerca dell’ultimo o del primo fondamento, non è tanto la ricerca della essenza profonda delle cose, non è tanto la ricerca del mistero dell’essere o della conoscenza assoluta e simili. Essa può anche riguardare quelle cose se nel suo cammino si imbatte in esse ma non è affatto detto che essa debba per forza scoprire chissà che o tendere ad una scienza esoterica. La ricerca della verità è nello stesso tempo più ampia e più umile : non pretende nulla e non inizia il suo cammino sapendo già dove vuole arrivare; al contrario, non sa proprio dove la porterà la sua ricerca . La filosofia, essendo una ricerca disinteressata, potrebbe fare, come dicevo all'inizio, paura a molti. In primo luogo, a tutte quelle persone che hanno o seguono ideologie o credenze assolutistiche o totalitaristiche, perché esse vogliono imporre la loro visione del mondo a scapito di tutte le altre. Mentre la ricerca libera e disinteressata non esclude le altre prospettive ma si confronta con esse nel cammino comune verso il valore ideale della verità.In secondo luogo, la filosofia può fare paura ed essere rifiutata da tutti coloro che si ostinano nelle loro credenze ritenendo di avere la verità in tasca e non ammettendo di potersi sbagliare. La filosofia può invece insegnare loro che il cammino verso la verità è lungo e difficile, che bisogna avere il coraggio e la forza di decentrarci, di uscire da noi stessi, di porci in ascolto degli altri (la filosofia è una scuola di tolleranza), in modo di non considerarci l'Assoluto ma di ritenere la propria prospettiva una delle tante e non l'unica completa e vera.La filosofia, in altri termini, implica il riconoscimento dei propri limiti, l'accettazione del nostro essere uomini e dunque soggetti a sbagliare, ma anche l'accettazione che lo sforzo comune nella ricerca della libertà e della verità è fondamentale per la sua realizzazione. In terzo luogo, la filosofia può far paura a tutti coloro i quali rifiutano di "conoscere se stessi", di porsi i problemi fondamentali e di dare loro una risposta (chiedersi: che cos'è l'uomo? c'è Dio? c'è qualcosa dopo la morte? cos'è il bene e il male? ecc.) per adagiarsi in un menefreghismo superficiale facendo finta di nulla. Purtroppo, però, nelle situazioni-limite dell'esistenza, che toccano prima o poi ogni essere umano, quelle domande ritornano incessanti e non riusciamo a sfuggirle. Quando si è soli, quando si è tristi, quando muore qualche persona cara ci dobbiamo necessariamente confrontare col nostro io più profondo, ed allora sarà quasi con terrore che riconosceremo di aver sprecato molto del nostro tempo, cercando di imbottirci la testa con pregiudizi e teorie già confezionate, risposte pronte ma che non abbiamo mai realmente sottoposte ad esame e fatte realmente nostre poiché non le abbiamo praticamente mai vissute. La filosofia può aiutare a liberarci dal modo inautentico in cui abbiamo fino a quel momento vissuto per farci cominciare da capo, per farci voltare pagina, per iniziare una vita nuova, più sincera, per cominciare l'avventura della conoscenza verso la nostra più autentica e vissuta verità.Essa ci chiederà, per prima cosa, di fare piazza pulita di tutto quello che credevamo di sapere. Ci libera dallo stupido orgoglio di crederci chissà chi, - una strada che ci condurrà verso la realizzazione della nostra essenza più profonda, verso quell'esigenza - presente nel cuore di ogni uomo - di felicità, bontà, bellezza, verità, insomma di ogni valore positivo. Vi è certo nel mondo la presenza del negativo, del male, ma la filosofia può contribuire a sconfiggerlo, affinché esso non prevalga nell'animo umano e l'ultima parola sia data comunque al Bene.La storia della filosofia, come vorrei proporvela io, è la storia affascinante delle risposte che l'uomo ha dato, nel corso di più di due millenni di storia, a tutti gli interrogativi che la mente umana si è posta ed a cui ha tentato di rispondere. Partiremo dalle origini in Grecia fino ad arrivare ai nostri giorni. Vedremo molti filosofi, conosceremo le loro idee e ci stupiremo forse della loro verità. Ma non ci deve colpire tanto la diversità fra le loro teorie quanto piuttosto il fatto che siano riusciti ad elaborare sistemi di pensiero così diversificati. Ma vi rendete conto? Non è bello riconoscere la varietà delle alternative? Ammettere la molteplicità delle risposte ad uno stesso problema non è forse un arricchimento? Ciò non rivela forse che le mille e più prospettive elaborate dagli uomini non riusciranno comunque mai a colmare l'abisso della Verità, che rimarrà il valore ideale a cui tendere sempre? Non dovremmo dunque essere né scoraggiati né dimostrare scetticismo nei confronti della varietà delle filosofie umane ma anzi considerarla una ricchezza enorme. Il fatto che il nostro bisogno della Risposta assoluta sia destinato a non essere mai del tutto soddisfatto, non rivela paradossalmente il fallimento della ricerca ma al contrario la vita stessa della filosofia: se infatti si potesse raggiungere il fondamento ultimo, la ricerca cesserebbe e la nostra conoscenza finirebbe. Ma ciò non è appunto possibile ed è questo il bello della filosofia: continuare incessantemente a porsi domande, ricercare instancabilmente, liberamente, senza paura di affrontare questioni difficili o assurde o proibite, per quanto possano apparire tali. Non aver paura di pensare, osare conoscere, partendo dalla accettazione dei nostri limiti umani.Ad alcuni potrà sembrare inutile questo continuo interrogarsi senza accontentarsi di quello che è già stato ottenuto, dei risultati già raggiunti ma, direi, è solo grazie a quel non accontentarsi mai che l'uomo ha potuto progredire e non si è fermato all'età della pietra. Si dirà che il sapere ha prodotto cose molto brutte come la bomba atomica. Però non è la ricerca e la conoscenza della verità in sé ma è stato l'uso sbagliato che ne ha fatto a volte l'uomo che ha provocato degli effetti disastrosi. La conoscenza può essere usata per il bene e per il male: spetta all'uomo, alla sua terribile libertà, decidere quale strada intraprendere.Filosofare vuol dire, ancora, assumere un atteggiamento di meraviglia nei confronti di quello che c'è e ci è dato. In altre parole, la filosofia vuole cogliere l'esistenza come tale. Si meraviglia, si stupisce che le cose esistano: insomma, è meravigliarsi perché qualcosa c'è mentre potrebbe non esserci nulla. E' un rapporto dunque sui generis, fatto di stupore e di gratuità, nei confronti dell'essere delle cose e del mondo. La realtà è "meravigliosa", le cose hanno bisogno di una spiegazione e ciò spinge l'uomo alla ricerca e stimola la sua riflessione. In fondo, la filosofia è solo questo: ragionare correttamente su quello che esiste.La filosofia comincia quindi dall'esperienza della meraviglia, dal chiedersi perché le cose esistono, e procede, con l'astrazione, fino ad arrivare a formulare delle risposte a quei perché.La filosofia e la scienza (o meglio le scienze) hanno entrambe come scopo la conoscenza, però la filosofia si distingue dalla scienza perché vuole essere lo studio della realtà nella sua totalità mentre le scienze studiano ambiti particolari della realtà. il che ci porta a dire che la filosofia è essenzialmente metafisica , cioè ricerca del senso profondo delle cose e del significato della nostra stessa esistenza. Infatti nella totalità - oggetto di studio della filosofia - ci sono dentro anch'io e perciò risolvere il problema del Tutto vuol dire risolvere anche il problema dell'uomo, del valore della vita, della mia vita. Ecco perché è inevitabile porsi, in quanto esseri umani, i problemi metafisici fondamentali: perché esistiamo? per quale fine noi e il mondo esistiamo? ecc.Il problema del senso della vita ognuno di noi deve risolverlo. Lo risolve già per il fatto di vivere in un determinato modo piuttosto che in un altro. Anche chi vive, in apparenza, al di fuori di ogni interesse filosofico e pensa soltanto al quotidiano e sensibile nel senso più gretto del termine (oppure al lavoro o alla carriera o al piacere o al sesso o allo sport o al divertimento o al potere ecc.), ha implicitamente una filosofia perché considera la vita sensibile o il potere ecc. come l'assoluto, la cosa per lui più importante, che viene prima di ogni altra e dunque ha risposto, seppure in modo superficiale, ai problemi metafisici che citavo prima.Mi avvio a concludere chiedendovi di riflettere su questo: pensate agli ideali della vita e provate a chiedervi: qual è il modo migliore di vivere? Come posso essere felice? Non posso sapere già adesso, in questa vita, al di là di conoscere astrattamente la verità, qual è il modo di vivere pienamente un'esistenza felice nonostante i momenti di sofferenza?Certo non è una cosa facile e certe domande esigono risposte scomode, mentre è forse più comodo far finta di nulla. Ma il filosofo è quel "rompiscatole" che vuole andare a fondo, a tutti i costi, e non si accontenta di mezze risposte, di ovvietà, di banalità.La filosofia, oggi come sempre, può mantenere vivo un clima di libertà intellettuale, di discussione, di apertura verso il nuovo. Essa può favorire la creatività, la fantasia, la riflessione, sviluppare una maggiore intelligenza critica ed autonoma; in una parola, può insegnare ad essere un po' più liberi e felici. Ecco che cos’è, oggi come sempre, la filosofia.

BIBLIOGRAFIA
Per iniziare a leggere qualcosa di filosofia si può iniziare dal testo ormai classico, sempre raccomandabile, di N. ABBAGNANO- G. FORNERO, Storia della filosofia, UTET o TEA Un altro testo interessante : W. WEISCHEDEL, La filosofia dalla scala di servizio, Cortina Infine, per i problemi filosofici, una introduzione è : B. RUSSELL, I problemi della filosofia, Feltrinelli

Ernesto Riva è nato e vive a Torino. Si è laureato in storia dellafilosofia a Torino con C. A. Viano nel 1977 e perfezionato a Pavia in storia del pensiero scientifico. E' docente di ruolo di storia e filosofianei licei.
Ha scritto diversi saggi di argomento filosofico, psicologico eantropologico (cfr. http://stores.lulu.com/ernestoriva).
E' docentevolontario presso l'Università della Terza Età ed è impegnato nel dialogointerreligioso: è fra i fondatori della associazione "Amicizia Ebraico Cristiana di Torino" (http://www.aectorino.org/)
Il suo sito web è http://www.filosofiaedintorni.net/

domenica 11 novembre 2007

IL SILENZIO ASSORDANTE DEI LAICI

Vi giro questo (per me) interessante articolo da Fuoriregistro.
Ciao Francesco (e io prelevo questo testo dalla mailing list di edscuola).
Giuliano

Il silenzio assordante dei laici Dedalus - 08-11-2007

Qualche settimana fa la Repubblica ha pubblicato una serie di articoli firmati da Curzio Maltese sul costo della Chiesa per i contribuenti italiani. Si trattava di un'indagine giornalistica seria e documentata che analizzava i costi a carico dei cittadini italiani per la Chiesa cattolica, dalle esenzioni fiscali all'otto per mille, al finanziamento alle scuole private, all'ora di religione. Immediatamente si è levata la voce del Segretario di Stato della Santa Sede, Cardinal Tarcisio Bertone, che si è espresso con un inusuale e perentorio "Finiamola". "Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa - ha detto testualmente il cardinal Bertone - l'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società". E ancora: "C'è un quotidiano che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere. L'ora di religione è sacrosanta". Queste le affermazioni del Cardinale, come se - come ha rilevato subito dopo il direttore di Repubblica, Ezio Mauro - il libero lavoro di inchiesta di un giornale non fosse legittimo ma esistesse piuttosto un'inedita servitù giornalistica dell'Italia verso la Santa Sede.

Ma cos'aveva mai detto Curzio Maltese per sollevare una simile reazione da parte della Chiesa? Quali tasti aveva mai toccato? Curzio Maltese aveva sottolineato il fatto (il dato di fatto) che l'ora "facoltativa" di religione costa ai contribuenti italiani circa un miliardo di euro l'anno. "E' la seconda voce di finanziamento diretto dello Stato alla confessione cattolica di pochi milioni inferiore all'otto per mille". Così come aveva rilevato che il "regalo" del posto fisso agli insegnanti di religione è al centro di infinite diatribe legali (l'ora di religione è un insegnamento facoltativo e come tale non dovrebbe prevedere docenti di ruolo; per giunta gli insegnanti di religione sono scelti dai vescovi e non dallo Stato). Aveva insomma posto l'interrogativo: "Vale la pena di spendere un miliardo di euro l'anno, in tempi di feroci tagli all'istruzione, per mantenere questa ora di religione?". Considerava, Curzio Maltese, che in Europa il tema dell'insegnamento religioso nelle scuole pubbliche è al centro di un vivace e colto dibattito. In genere si tratta di insegnamento di storia delle religioni e non, come in Italia, di insegnamento della confessione cattolica. Ma proprio in Italia "ogni timido tentativo di discussione è stroncato da una ferrea censura. L'ora di religione è un dogma. La sola ipotesi di affiancare all'ora di cattolicesimo altre religioni, come avviene in tutta Europa con le sole eccezioni di Irlanda e dell'ortodossa Cipro, procura immediata patente di estremismo, anticlericalismo viscerale, ecc. Quanto ad abolirla, come in Francia, è un'ipotesi che non sfiora neppure le menti laiche."Ebbene, ci si sarebbe aspettati, dopo la pesante uscita del Cardinal Bertone, una reazione da parte del mondo laico e democratico. Non c'è stata, a parte la risposta immediata di Ezio Mauro. Non c'è stata, ovviamente, da parte del governo, nei confronti del Segretario di Stato del Vaticano (e come poteva esserci, quando anche questo governo ha continuato nella politica di finanziamento delle scuole private ed ha, come ministro della Pubblica Istruzione, un cattolico decisamente poco laico come Beppe Fioroni?). Non c'è stata da parte delle forze politiche (non si dice da parte della CdL, che se ne guarda bene di inimicarsi il Vaticano, ma anche da parte del centrosinistra, figuriamoci poi dal Pd veltroniano che su questi temi si porta dietro il suo carico di ambiguità).
Insomma il tasso di laicità (che poi vuol dire democraticità) delle forze politiche del nostro paese è decisamente labile. E questo è molto preoccupante.

Comunque, grazie Curzio.
Dedalus

Non a caso Gioacchino da Fiore (che, se non ricordo male, ha fatto una brutta fine) affermava che Dio ha creato le anime, non le istituzioni...

sabato 10 novembre 2007

SICUREZZA. LE ASSOCIAZIONI SCRIVONO AL GOVERNO


Dal sito http://www.carta.org/, traggo questa lettera delle Associazioni al Governo,
con la premessa di Carta.
A proposito, Carta è anche un quotidiano telematico, scaricabile
dal lunedì al venerdì in formato pdf...
A Carta verrà dedicato un prossimo link et nunc...

Il ministro degli Interni, Giuliano Amato, oggi in una breve relazione al Consiglio dei ministri, ha detto che il «pacchetto sicurezza», in discussione il 23 ottobre, sarà affiancato da altri tre disegni di legge per dare il via a un «intervento organico di forte impatto per contrastare fenomeni criminali e degrado sociale e urbano». Intanto, una decina di associazioni nazionali e locali [Antigone, Arci, Cantieri sociali, Gruppo Abele e altre] hanno inviato una lettera ai ministri competenti sulla vicenda «pacchetto sicurezza», chiedendo di essere ascoltati. Finora non hanno avuto risposte, ma si dicono molto preoccupate per la bozza del disegno di legge sicurezza resa pubblica, «che va in direzione completamente contraria a quelle che sono le nostre idee in materia».
Di seguito, il testo completo della lettera.

On. Paolo Ferrero, Ministro della Solidarietà Sociale
On. Giuliano Amato, Ministro dell’Interno
On. Francesco Rutelli, Ministro dei Beni Culturali
On. Barbara Pollastrini, Ministro per i Diritti e le Pari Opportunità
On. Clemente Mastella, Ministro della Giustizia
On. Rosy Bindi, Ministro per la Famiglia

Oggetto: Richiesta di incontro urgente con le Organizzazioni Non Profit sui temi della sicurezza

Onorevoli Ministri, Il tema della sicurezza nelle città è assurto alla ribalta del dibattito pubblico e politico ed il Governo si appresta a varare il cosiddetto “pacchetto sicurezza”. Riteniamo che, volendo intendere il concetto di sicurezza come un processo di costruzione sociale tra le diverse competenze ed attori che vivono le città e vi operano e i diversi livelli delle competenze istituzionali sul piano locale e centrale, sia fondamentale che il confronto del Governo avvenga anche con le Organizzazioni Non Profit. Quotidianamente ci misuriamo sul campo con le problematiche relative alla convivenza civile nelle comunità locali, occupandoci dei soggetti vulnerabili spesso considerati unica causa di un malessere percepito e manifestato in determinati contesti cittadini, realizzando interventi di prossimità e di sostegno alle persone in difficoltà ma attivando anche pratiche di mediazione dei conflitti volti ad aumentare la vivibilità dei territori e il benessere delle comunità locali. Abbiamo maturato in questi anni un bagaglio di esperienze “sporcandoci le mani”, occupandoci di migranti, italiani, donne, uomini, minori, transgender che vivono una condizione di marginalità, di esclusione, spesso di sfruttamento, nelle aree della prostituzione, della mendicità, del disagio giovanile, dei “senza dimora”, delle dipendenze, delle culture giovanili, delle situazioni legate alla migrazione… Occupandoci, molte volte, non solo del disagio ma anche della cosiddetta “normalità”, dove spesso sono assai diffuse e nascoste situazioni di sofferenza che determinano tensioni gravi che frequentemente entrano in contatto, e si autolimentano in una sorta di interazione in negativo, con le aree della vulnerabilità e dell’esclusione.
Una esperienza declinata in pratiche reali sui territori attraverso l’interazione delle varie componenti che i territori vivono ed animano, portando servizi di ascolto e accompagnamento, di riduzione del danno e di prossimità, di promozione della salute e dei diritti, di uscita dalle situazioni di marginalità e sfruttamento, offrendo opportunità di inclusione sociale, lavorando con la cittadinanza e con le istituzioni, contribuendo al contrasto all’illegalità e allo sfruttamento.
Una esperienza spinta dal rifiuto di qualsiasi semplificazione di fenomeni sociali complessi, dal rifiuto delle scorciatoie securitarie (non solo inefficaci, ma lesive dei diritti degli “ultimi” e della convivenza civile e democratica), dal rifiuto della criminalizzazione ed espulsione del “diverso”, delle persone già ai margini della nostra società.
Una esperienza che ci insegna che il binomio repressione/criminalizzazione come unico strumento di intervento sul tema sicurezza e trattamento delle forme di devianza e marginalità estrema non solo non risolve ma, nei fatti, alimenta i fenomeni e gli spazi di illegalità. Gli “indesiderati” vengono spinti verso altri luoghi, spesso in un sommerso dove è più difficile contattare ed offrire opportunità alle persone in difficoltà o sfruttate e dove aumenta la spinta all’invischiamento in attività illegali. Vengono interrotti difficili percorsi di ricostruzione della coesione sociale. Si distolgono le risorse umane ed economiche delle forze dell’ordine dall’azione investigativa (lotta ai trafficanti e sfruttatori) verso quella repressiva che sovente solo illusoriamente dà risposte al senso di allarme e alla percezione di insicurezza manifestati dalla cittadinanza.
L’esperienza, spesso condivisa con gli Enti Locali e con le Forze dell’Ordine, ci insegna come invece la realizzazione di azioni positive a tutela delle fasce marginali e di promozione del benessere nelle comunità, siano la chiave per costruire realmente la sicurezza.
Occorre allora che nei territori vengano attivati Tavoli di Concertazione per la costruzione della sicurezza sociale in forma partecipata e concordata. Occorre però che tale meccanismo di concertazione venga sviluppato anche a livello centrale e possa ricadere in termini di linee di indirizzo e proposte a livello locale. Un recente positivo esempio è costituito dall’Osservatorio sulla Prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi, istituito dal Ministero dell’Interno con la partecipazione degli altri Ministeri competenti e delle associazioni.
Per queste ragioni, chiediamo con urgenza, la possibilità di incontrarVi per un confronto costruttivo. Certi di un favorevole riscontro, porgiamo distinti saluti.

Elenco in ordine alfabetico degli enti richiedenti l’incontro:

Antigone Arci Asgi – Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione Associazione
On the Road Associazione Tampep onlus
Cantieri Sociali
Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute
Consorzio DROM (consorzio nazionale della cooperazione sociale – Legacoop)
Cooperativa Dedalus
FIOpsd–Federazione Italiana degli Organismi per le persone senza dimora
Forum Droghe
Gruppo Abele
Lilacedius MIT – Movimento di Identità Transessuale Nova – Consorzio per l’innovazione sociale onlus
Save the Children Italia onlus

venerdì 9 novembre 2007

Matrimoni misti: un fenomeno in crescita in tutto l'Occidente


dalla rivista on line Resetdoc, prelevo questo articolo di Alessandro Rosina. al di là del mero dato numerico, testi come questi sono utili per sfatare miti e pregiudizi (della serie "le donne straniere vengono in Italia per sposrasi gli anziani ricchi..." e altre stupidaggini del genere). A breve pubblicherò anche un pezzo su questo fenomeno ad Albenga...

Negli Usa, l’accettazione sociale della interrazzialità e della multirazzialità è crescente: secondo un’indagine Gallup, due terzi dei bianchi americani dichiarano che accetterebbero il matrimonio tra un figlio e una persona di razza diversa. L’apertura verso l’intermarriage, oltre a crescere in generale con il livello di istruzione, risulta anche maggiore nelle generazioni più giovani. In Europa, il caso più vicino a quello degli Stati Uniti è quello del Regno Unito. In Francia, i matrimoni celebrati annualmente nei quali uno solo dei coniugi è francese erano attorno al 5% a metà anni Settanta. L’incidenza si assesta attualmente sopra il 15%. Secondo i dati statistici, in Italia i matrimoni misti erano meno del 5% sul totale a metà anni Novanta, e sono ora quasi il 15%.

Alessandro Rosina è professore associato di Demografia all’Università Cattolica di Milano.

Tra le varie trasformazioni che stanno mutando i connotati demograficosociali del nostro paese una delle più importanti, e più dense di implicazioni per il futuro, è senz’altro il processo di immigrazione. Ancora negli anni Ottanta i flussi di entrata erano del tutto modesti e molto bassa era, di conseguenza, anche la quota di persone di diverse nazionalità che vivevano sul territorio italiano. Negli ultimi quindici anni però il quadro è notevolmente cambiato. Basti pensare che la presenza straniera era inferiore al mezzo milione nei primi anni Novanta, mentre risulta attualmente (quella regolare) vicina ai tre milioni, vale a dire circa il 5% della popolazione totale. Ma si sale al 10% in alcune province dell’Italia settentrionale. Ancora più elevata è poi l’incidenza nelle età giovani-adulte: la fascia 18-39 raccoglie infatti meno del 30% della popolazione italiana, ma più del 50% della popolazione straniera. La sempre maggiore presenza straniera, specie in età lavorativa e riproduttiva, significa quindi che diventa anche sempre più comune per un italiano, in una società non ghettizzata, trovarsi ad avere una persona con nazionalità diversa come compagno di viaggio su un mezzo pubblico, come inquilino dello stesso condominio, come collega di lavoro, come genitore dei propri figli. Il punto di incontro più ravvicinato tra autoctoni e gente che viene d’oltremare o d’oltralpe è l’unione di coppia, atta a produrre nuovi italiani. Si tratta quindi di un punto di osservazione privilegiato per capire come sarà il futuro del nostro (in senso lato) paese. Del resto nella terra che ha come fondamenti culturali la Divina Commedia e i Promessi sposi, l’amore (anche con la “a” minuscola) si presume conti più di ogni regola e superi ogni ostacolo. Ecco allora che, con la crescita dei flussi migratori, si osserva anche un marcato aumento dei matrimoni nei quali almeno uno dei due coniugi è straniero.Secondo i dati statistici, erano meno del 5% sul totale a metà anni Novanta, e sono ora quasi il 15% (e parallelamente, nello stesso periodo, sono anche aumentate esponenzialmente le nascite con almeno un genitore straniero, passate dal 2% al 13%). In ben due unioni su tre che coinvolgono almeno un coniuge straniero, l’altro coniuge è un italiano. Sono questi quelli che, nel linguaggio comune (ma anche nei rapporti dell’Istat), vengono chiamati “matrimoni misti”. Alcune considerazioni però s’impongono. Innanzitutto è teoricamente “misto” anche un matrimonio celebrato nel nostro paese tra coniugi entrambi non italiani e di nazionalità diversa tra di loro. Oltre ai matrimoni bisognerebbe poi considerare anche le unioni non coniugali. Più in generale, va precisato che il criterio della nazionalità, comodo dal punto di vista statistico, è però solo parzialmente in grado di cogliere il più complesso fenomeno dell’incontro e della mescolanza tra culture diverse. Si deve, infine, anche tener presente che non tutti i matrimoni misti si formano come conseguenza dell’immigrazione, a volte ne sono invece la causa. Ovvero, non sempre il partner straniero è già presente nel territorio italiano quando si forma la coppia. È anche possibile, infatti, che l’incontro avvenga come conseguenza del viaggio di un/a italiano/a all’estero per motivi di studio, lavoro o di piacere.Se non esiste una definizione pienamente condivisa di “matrimonio misto”, vi sono, tuttavia, alcune ragioni che possono giustificare la maggiore attenzione, almeno a un primo livello, al vincolo coniugale e alle unioni tra italiani e stranieri. Il motivo principale fa riferimento alla rilevanza che tale fenomeno riveste sul processo di assimilazione degli immigrati. A differenza delle unioni di fatto, che instaurano un rapporto privato tra i membri della coppia, il matrimonio implica infatti un riconoscimento sociale, al quale corrispondono giuridicamente ben definiti diritti e doveri (con ricadute sia all’interno che all’esterno della coppia). In particolare, consente un accesso privilegiato all’acquisizione dello status di cittadino italiano, evento che costituisce dal punto di vista formale (ma non necessariamente sostanziale) il punto più avanzato del processo di assimilazione. A tutt’oggi nel nostro paese l’accesso alla cittadinanza italiana avviene, del resto, nella grande maggioranza dei casi (oltre l’85%) tramite matrimonio misto.Il caso degli Stati UnitiInteressante è il caso degli Stati Uniti, ma anche molto particolare, soprattutto per l’enfasi data agli aspetti relativi alla razza. Bisogna aspettare il 1967 perché la Corte Suprema arrivi a dichiarare incostituzionali le leggi che in molti Stati vietavano i matrimoni interrazziali (Antimiscegenation Laws). L’obiettivo di tali leggi era soprattutto quello di prevenire i matrimoni tra bianchi e non bianchi, mentre meno soggette a restrizioni giuridiche erano in generale le unioni tra persone non bianche di razze diverse. Ciò denota l’evidente intento di preservare il potere e i privilegi del gruppo dominante rispetto a tutti gli altri. Dal punto di vista quantitativo, alla fine degli anni Sessanta le coppie coniugate interrazziali (intermarriages) erano ancora relativamente rare, costituivano circa lo 0,7% (300 mila) del totale. Negli ultimi decenni del XX secolo la crescita è stata continua e consistente, tanto che si stima attualmente un valore dieci volte maggiore, pari a circa il 7% (oltre tre milioni). Negli Stati Uniti, gli intermarriages vengono identificati sulla base di una classificazione delle “razze” che al censimento del 2000 prevedeva ufficialmente cinque categorie (indiani americani, asiatici, neri, nativi delle isole del Pacifico, bianchi). Viene inoltre aggiunta la distinzione tra ispanici e non ispanici. È stata poi, per la prima volta, prevista anche la possibilità per una persona di autoidentificarsi come appartenente a più di una razza. Si tratta di un importante segnale di riconoscimento della crescente presenza di una popolazione americana multirazziale, frutto diretto dei matrimoni misti. All’ultimo censimento circa 7 milioni di persone si sono autoclassificate in tale categoria (2,5% della popolazione). Un valore rilevante ma considerato sottostimato, dato che alcune persone potrebbero non essere consapevoli di avere un background multirazziale. Inoltre vari rappresentanti di minoranze hanno suggerito ai loro membri di indicare una sola razza per non perdere peso demografico e quindi anche, potenzialmente, politico. Come effetto dell’immigrazione, della mescolanza tra le razze e della fecondità differenziata, il peso della popolazione bianca è passato dall’88% del 1970 a meno del 75% attuale. L’accettazione sociale della interrazzialità e della multirazzialità è del resto crescente, anche se le resistenze maggiori continuano ad arrivare proprio dai bianchi.Secondo un’indagine Gallup condotta alla fine del 2003, due terzi dei bianchi americani dichiarano che accetterebbero il matrimonio tra un figlio e una persona di razza diversa. Il nocciolo duro, invece, dei favorevoli a leggi che proibiscano unioni di tale tipo è sceso al 10% (un valore comunque di rilievo). Nonostante le maggiori resistenze, gli intermarriages tra bianchi e non bianchi sono comunque anch’essi in forte aumento. Sono saliti dallo 0,4% del 1970 a quasi il 4% attuale rispetto al totale delle coppie bianche. Lo stesso valore è invece superiore al 7% per i neri, al 15% degli asiatici. Più piccolo è il gruppo razziale e maggiore la probabilità di intermarriages. Si sale infatti oltre al 50% per gli indiani d’America e per gli hawaiani. Dato però che i bianchi sono la grande maggioranza della popolazione americana, in numero assoluto i matrimoni interrazziali più comuni sono quelli tra bianchi e non bianchi (l’80% di tutte le unioni miste). Un aspetto degno di nota sono le differenze di genere. Tra le coppie interrazziali, a prevalere nettamente è la combinazione marito bianco e moglie non bianca. I maschi bianchi tendono soprattutto a sposare donne asiatiche o ispaniche, molto più raramente quelle di colore più scuro. Viceversa, molto più comune è la combinazione opposta: la probabilità che un nero sposi una bianca risulta 2,5 volte più alta rispetto alla probabilità che un uomo bianco sposi una donna nera.Una differenza molto rilevante che riduce le possibilità di matrimonio delle afroamericane (per il fatto che molti uomini del proprio colore prediligono le bianche, senza che ciò sia compensato da analoghe possibilità per le nere di trovare un marito bianco). Molte di esse rimangono pertanto nubili. È interessante però osservare che il contrario accade invece per le asiatiche, la cui probabilità di contrarre un matrimonio misto è molto maggiore rispetto a quanto vale per gli uomini di medesima appartenenza razziale. Tali differenze di genere tendono a risultare ancor più accentuate al crescere del titolo di studio. In particolare, tra gli afroamericani, a sposare una persona di diverso colore sono oltre il 10% dei maschi laureati e meno del 5% delle femmine. L’apertura verso l’intermarriage, oltre a crescere in generale con il livello di istruzione, risulta anche maggiore nelle generazioni più giovani. La percentuale di sposi di diverso colore sul totale delle coppie under 30 risulta essere quattro volte maggiore rispetto alle coppie over 60. Il trend degli ultimi trent’anni, i dati dei sondaggi di opinione, le caratteristiche socio-demografiche di chi sceglie l’intermarriage, sono tutti elementi che vanno nella stessa direzione nell’indicare un futuro degli Usa sempre meno bianco e sempre più costituito da famiglie e persone che scavalcano i confini delle diverse razze.Il Regno UnitoIn Europa, il caso più vicino a quello degli Stati Uniti è quello del Regno Unito, dove però, per motivi storici e culturali, l’enfasi è posta sui matrimoni “inter-etnici” piuttosto che su quelli “inter-razziali”. Secondo il censimento del 2001 il 2% delle coppie coniugate erano inter-etniche. Va considerato che l’incidenza più bassa dei matrimoni misti rispetto al caso degli Stati Uniti, è anche dovuta alla maggior prevalenza di popolazione bianca nel Regno Unito (oltre il 90% contro il 75% degli Usa). Presentano una propensione particolarmente elevata al matrimonio misto soprattutto i neri di provenienza caraibica (oltre uno su quattro è sposato con una donna di diversa etnia) e i cinesi (uno su cinque), si scende invece a circa il 2% tra i bianchi. Anche qui, come negli Stati Uniti, se l’intermarriage è più comune tra gli uomini neri che tra le donne, viceversa accade per la comunità cinese (le donne hanno probabilità doppia di matrimonio misto rispetto agli uomini). Data la maggiore numerosità della popolazione bianca, sul totale dei matrimoni misti prevalgono - in termini assoluti - quelli nei quali uno dei due coniugi appartiene a tale etnia. Al censimento del 2001, su 219mila coppie inter-etniche, erano 198mila infatti quelle con un partner bianco. Nello stesso censimento, analogamente a quanto fatto negli Stati Uniti, è stata per la prima volta aggiunta anche la possibilità per una persona di autoidentificarsi come appartenente a più di una etnia (mixed ethnic group). Il valore ottenuto risulta non trascurabile, e corrisponde a 677mila persone (1,3% della popolazione). A prevalere all’interno di tale gruppo è la combinazione bianco–nero caraibico, seguita da bianco–asiatico. Il fatto che si tratti di un fenomeno recente, e destinato ad avere sempre più peso demografico in futuro, lo testimonia soprattutto il profilo per età: la metà della popolazione con etnia mista ha meno di 16 anni. Va inoltre considerato che tale gruppo è anche quello che tende maggiormente a contrarre matrimoni misti, contribuendo quindi ulteriormente alla crescita della Gran Bretagna inter-etnica. La complessiva maggior presenza dei neri caraibici nei matrimoni inter-etnici e tra le persone di etnia mista è dovuta in parte alla loro lunga presenza nel territorio britannico, e quindi anche alla loro maggiore assimilazione. Molte unioni miste sono, del resto, costituite da persone di seconda generazione. Un ulteriore possibile motivo è riconducibile al fatto che per tale comunità, rispetto per esempio a quelle di provenienza sudasiatica, è meno forte (se non praticamente assente) il controllo sociale e parentale esercitato sulla scelta del partner al fine di preservare l’identità culturale di origine.La FranciaIn tutto il mondo occidentale l’attenzione verso i matrimoni misti è cresciuta molto soprattutto a partire dagli anni Novanta. Per esempio, in Francia nessuno studio statistico era stato prodotto sul fenomeno prima dell’indagine Ined-Insee del 1992. A differenza di Gran Bretagna e Stati Uniti, dove, come abbiamo visto, l’attenzione è rivolta soprattutto alle coppie formate da persone di razza o etnia diversa (ma che spesso però vivono entrambe fin dalla nascita nel territorio del paese), in Francia il focus è invece sui matrimoni tra autoctoni e popolazione straniera. Si tratta quindi di un caso più direttamente confrontabile con la situazione italiana. L’interesse è, infatti, più concentrato sul legame con il processo di integrazione degli immigrati. Dal punto di vista quantitativo, i matrimoni celebrati annualmente nei quali uno solo dei coniugi è francese (mariages mixtes) erano attorno al 5% a metà anni Settanta. L’incidenza ha poi raggiunto l’8% a fine anni Ottanta, e si assesta attualmente sopra il 15%. Sono maggiori i casi nei quali il coniuge francese è lo sposo (56%) rispetto a quelli nei quali è la sposa. Gli stranieri più coinvolti in tali unioni sono coloro che provengono dal Nord Africa (è questo il caso più tipicamente presente nel dibattito pubblico), seguiti da nazionalità europee. Ma molto comuni sono anche i matrimoni con asiatici. Interessanti sono, infine, le ricadute sulla fecondità. Nel contesto di un paese con un numero medio di figli per donna particolarmente elevato rispetto agli altri paesi occidentali, l’aumento maggiore negli ultimi anni è stato proprio quello relativo ai bambini nati da coppie miste, che costituiscono attualmente oltre l’11% delle nascite totali (con un incremento di oltre il 50% negli ultimi dieci anni). Minore è stata invece la crescita dei nati da genitori entrambi stranieri o entrambi francesi. Quella dei figli è una questione cruciale per i matrimoni misti e il loro successo. Come messo in evidenza da un dossier sull’argomento, uscito su “L’Express “ il 9 maggio 2002: anche per chi ha l’esprit large, la differenza tra culture comporta un conflitto quotidiano. “La rupture se joue presque toujours autour de l’éducation des enfants”. L’ItaliaRispetto alla Francia, la presenza straniera in Italia è più recente e meno radicata. Ci si può quindi attendere che il processo di integrazione sia in fase meno avanzata e che l’incidenza dei matrimoni misti sia più ridotta. E infatti, secondo l’ultimo dato disponibile, quello fornito dall’Istat per l’anno 2005, le unioni coniugali tra italiani e stranieri ammontano circa a 23.500, vale a dire poco meno del 10% del totale dei matrimoni (contro oltre il 15% della Francia). Negli ultimi anni però il fenomeno è cresciuto molto più rapidamente nel nostro paese che altrove. Nella prima metà degli anni Novanta l’incidenza era ancora attorno al 3%. Il che significa che nel giro di poco più di dieci anni i matrimoni misti da noi hanno triplicato il loro peso relativo, mentre in Francia nello stesso periodo si è assistito approssimativamente a un raddoppio. Ciò riflette anche il fatto che la crescita della popolazione straniera nel nostro paese è stata negli ultimi quindici anni particolarmente consistente (è paragonabile in Europa solo a quella della Spagna).Va inoltre considerato che oltre l’85% della presenza straniera in Italia è concentrata nelle regioni centrosettentrionali. Di conseguenza anche l’incidenza dei matrimoni misti è maggiore in tale area del paese, raggiungendo attualmente in alcune regioni (per esempio l’Emilia Romagna) livelli simili a quelli francesi. Nei confronti con i cugini d’oltralpe è anche interessante notare che a essere più bassa nel nostro paese è soprattutto la quota di donne che sposano uno straniero. Su 100 matrimoni misti, in Francia lo sposo è autoctono nel 56% dei casi, mentre in Italia lo è in quasi l’80%. Sul totale dei matrimoni solo nel 2% dei casi (e in poco meno del 3% al Nord) la combinazione è quella di sposa italiana e sposo straniero, mentre è tre volte tanto (quasi il 7%) in Francia. Riguardo invece alla combinazione opposta, la Francia prevale di poco (8,6 contro 7,6%). La situazione però si ribalta se ci si limita a considerare il centronord Italia, dove tale valore (oltre il 10%) arriva a superare nettamente la media francese. I matrimoni misti con sposo italiano sono quindi già attualmente maggiori in molte regioni d’Italia rispetto alla Francia. Rimane invece molto più bassa in tutto il territorio la propensione delle donne italiane a sposare uno straniero.Da notare inoltre che la differenza di età tra i coniugi è molto bassa (inferiore a quella delle coppie omogame italiane, pari a 3 anni circa) nei matrimoni misti con sposa italiana, mentre è molto ampia (circa 8 anni) nelle unioni con sposo italiano. I rapporti di genere all’interno della coppia tendono in generale a essere più asimmetrici in quest’ultimo caso. Molto spesso, dal lato maschile, i matrimoni misti riescono a offrire la possibilità di costruzione di un’unione con rapporto di coppia tradizionale, sempre più difficilmente realizzabile con una donna italiana. L’asimmetria tende invece a essere meno accentuata nei matrimoni misti con sposa autoctona, quanto meno per il motivo che essa ha il vantaggio, rispetto al marito, di vivere nel suo paese di origine, con tutti i vantaggi (anche nei rapporti di forza all’interno della coppia) che ciò implica. Va comunque considerato che molto differenziati per genere sono anche i paesi di origine degli sposi. In quasi un caso su quattro gli uomini autoctoni che nel 2005 hanno formato un’unione coniugale mista hanno sposato una romena. Con la stessa frequenza (circa il 25%) i matrimoni misti con sposa autoctona hanno invece visto l’abbinamento con un nordafricano. Esiste, in generale, una maggiore tendenza degli uomini italiani a prediligere, tra le comunità immigrate più presenti, l’unione con le donne dell’Est Europa (oltre alle romene, anche ucraine, moldave e polacche) e delle donne italiane con gli uomini della sponda sud del mediterraneo (in particolare marocchini e tunisini). Ciò è in parte spiegato dal diverso rapporto demografico tra i sessi che esiste nelle varie comunità straniere. Per esempio, è molto forte la prevalenza delle donne nei flussi dall’Ucraina, mentre è netta l’eccedenza maschile per chi arriva dalla Tunisia. Interessante è il caso dell’Albania, unico paese dell’Est europeo con immigrazione di eccedenza maschile, che, infatti, contribuisce più ai matrimoni misti con donne italiane che con uomini italiani.La diversa distribuzione per sesso non spiega però tutto. È molto rilevante in Italia la presenza di donne dall’Ecuador e dal Perù, ma ciò ha scarse ricadute nei matrimoni misti con uomini italiani. Viceversa, molto più frequente è l’unione tra italiani e brasiliane, eppure l’immigrazione dal Brasile in Italia è in generale molto bassa. Sovrarappresentate nei matrimoni misti con italiani, rispetto alla loro presenza sul nostro territorio, sono anche russe e cubane. Viceversa si osserva una sovrarappresentazione nei matrimoni misti con donne italiane – rispetto all’entità dei flussi di immigrazione – di uomini provenienti da vari paesi dell’Europa occidentale (Gran Bretagna, Germania, Usa, Francia). Ciò significa che, se è dominante il ruolo dell’immigrazione nell’aumento dei matrimoni misti in Italia, è vero anche, da un lato, che a parità di presenza e di struttura demografica i membri di alcune comunità risultano per gli italiani e le italiane più “appetibili” di altre (per caratteristiche fisiche, culturali, ecc..). D’altra parte una quota rilevante dei matrimoni misti non è conseguenza dell’immigrazione, ma si produce come conseguenza della mobilità temporanea (per studio, lavoro, piacere) degli italiani e delle italiane negli altri paesi. In alcuni casi tale mobilità è già orientata in partenza verso la ricerca in paesi selezionati (come per esempio, i viaggi turistici in Brasile, Cuba, ecc.) di un’anima gemella. In altri casi l’incontro che poi evolve verso la relazione di coppia è il frutto “accidentale” di soggiorni di studio o lavoro (in Inghilterra, Stati Uniti, ecc,), sempre più comuni nell’era della globalizzazione. Esistono poi alcune comunità più chiuse di altre: presenti in modo rilevante nel nostro paese, con incidenza relativamente alta di matrimoni tra membri della stessa etnia, ma molto bassa con le persone di altre etnie. In Italia il caso più tipico è quello della comunità cinese.Un accenno finale va fatto all’instabilità coniugale per questo tipo di coppie. I dati Istat ci dicono che tra il 2000 e il 2005 le separazioni in Italia sono aumentate complessivamente di circa il 15%, mentre nello stesso periodo gli scioglimenti dei matrimoni misti sono cresciuti dell’85%, costituendo attualmente circa il 10% delle separazioni totali. È vero quindi che l’incremento sembra considerevole, ma è a ben vedere dello stesso ordine di grandezza della crescita della formazione di unioni miste. Tanto che, almeno allo stato attuale, è molto simile il dato sull’incidenza di matrimoni misti sul totale dei matrimoni e di scioglimenti di unioni miste sul totale delle separazioni. È quindi ancora presto per dire se i matrimoni di italiani con stranieri soffrono di un rischio significativamente maggiore di rottura rispetto alle unioni tra autoctoni. È vero però che i dati sui procedimenti di separazione con rito contenzioso segnalano un tasso di conflittualità maggiore per le coppie miste: vi ricorre il 16% contro il 12% delle coppie con coniugi entrambi italiani. Se si fa riferimento al caso francese, quello a noi più vicino e con processo di diffusione del fenomeno più avanzato e consolidato, cruciale è la questione dei figli. La riprova del successo o dell’insuccesso del confronto tra le due culture che il matrimonio misto mette a confronto, si ha soprattutto sulla loro educazione. Può quindi costituire uno dei principali fattori di crisi della coppia. Ma al tempo stesso, la presenza di bambini può accentuare la conflittualità del processo di separazione. Le ricadute negative possono quindi essere superiori rispetto alla rottura di matrimoni di coppie italiane omogame, rischiando soprattutto di perturbare il delicato e complesso percorso dei figli verso l’integrazione e l’elaborazione della propria identità multietnica.

Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Reset, numero 103. 6 Nov 2007

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